SE NON DIVENTERETE COME GUFI

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Occhi di gufo. Speranza.
Per imparare a guardare con questi occhi, per essere capaci di speranza cammineremo insieme nel prossimo Quaresimale dal titolo «Se non diventerete come gufi».
Occhi di gufo: con questa icona ho voluto commentare, sull’informatore parrocchiale di otto-bre, l’ultima lettera pastorale del nostro Cardinale «La Madonna del Sabato Santo», una lettera sulla speranza.

Dio ha fatto
gli occhi dei gufi e delle civette
così enormi
affinché fossero occhi
che vedono nella notte.
Per scrutare nelle tenebre
bisogna avere occhi smisurati,
gli occhi di Dio stesso.
Allora la notte diventa luce.
(Louis Albert Lassus)

Occhi di gufo: li ho voluti rappresentati anche sulla pala del nostro battistero, nascosti ma evidenti, intriganti.
Speranza: se dovessi confidare ciò che ho sempre voluto vedere sbocciare o crescere nelle persone che ho incontrato, anche nel buio della «notte», anche nella «tempesta», non avrei alcun dubbio: la speranza.

La fede che preferisco, dice Dio,
è la speranza.
Una fiamma tremolante
ha attraversato lo spessore dei mondi.
Una fiamma vacillante
ha attraversato lo spessore dei tempi.
Una fiamma ansiosa
ha attraversato lo spessore delle notti.
Da quella volta che il sangue di mio figlio
colò per la salvezza del mondo.
Una fiamma impossibile a spegnersi,
impossibile ad estinguersi al soffio della morte.
Ciò che mi stupisce, dice Dio,
è la speranza.
E ne rimango scombussolato.
Questa piccola speranza
che ha tutta l’aria d’un nulla.
Questa bambina speranza.
Immortale.
Sperare è difficile.
L’inclinazione a disperare,
questa è la grande tentazione.
La piccola speranza procede
tra le sue due grandi sorelle,
la fede e la carità,
solo non si fa attenzione a lei.
E il popolo crede volentieri
che sono le due grandi
a trascinare la piccola per mano.
Ma è quella in mezzo a trascinare
le sue grandi sorelle.
Senza di lei, loro non sarebbero niente.
E’ lei, la piccola, che trascina tutto.
Lei vede ciò che sarà.
Lei ama ciò che sarà.
La mia piccola speranza
è colei che si leva ogni mattina.
E’ colei che tutte le mattine
ci dà il buongiorno.
(Charles Péguy)

Da «quella volta»: dalla Croce di Gesù, dalla Resurrezione di Gesù. Da quella volta, da quell’alba inattesa e sorprendente, incredibile e inaudita, la speranza è possibile.
La speranza non è ottimismo facile e infantile. La speranza non nasconde la tragicità della vita, della storia. La speranza non è pazzia. La speranza non rimanda solamente a dopo, all’aldilà, mistificando il presente.
La speranza ci dona occhi nuovi, cuore nuovo, vita nuova.
Da quel giorno …
La speranza non è solo in qualche cosa, è soprattutto in «qualcuno».
E per noi cristiani questo qualcuno ha un nome, un volto, una storia: quelli di Gesù di Nazareth.
La speranza è «nascosta» nella sua croce e nella sua resurrezione, nasce lì, incrollabile.
Bisognerebbe riprendere tra le mani il Vangelo di Giovanni, al capitolo 20 e contemplare Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro vuoto, dove trovano le «reliquie» della morte di Gesù. Giovanni «vide e credette», sta scritto. Tutto sembra segno di morte, per Giovanni invece tutto diventa segno di vita. E’ il «capovolgimento» della fede, della speranza.

Una sera la tartaruga decide di andarsene a fare un giro notturno. Il rospo che la vede le dice: «Che imprudenza uscire a quest’ora!» Ma la tartaruga continua e, mentre fa un passo più lungo dell’altro, si ritrova girata sulla schiena. Il rospo esclama: «Te l’avevo detto! E’ un’imprudenza, ci lascerai la vita!». Deliziosa, con gli occhi pieni di malizia, la tartaruga gli risponde: «Lo so bene. Ma per la prima volta vedo le stelle».

… «vedere le stelle» ... è quello che capita a chi spera, a chi crede nell’imprevedibilità di Dio. A chi prende forza da Lui.
La speranza del mattino di Pasqua ci dona una vita non meno che terna, un cuore nuovo, occhi nuovi.
E chi crede, chi spera ritrova capacità di gesti e di sogni nuovi.
Chi crede, chi spera, non incontra fiumi senza guado…

Bisogna che ci ribelliamo alla disperazione. Bisogna che le nostre speranze si facciano più testarde e vitali. E’ possibile? Io voglio esprimere qui, per quel che conta, la mia certezza: è possibile. Le nostre speranze possono, se siamo cristiani, alimentarsi della convinzione che il Salvatore vive nella storia e la anima, in maniera misteriosa ma reale, attraverso la forza che il suo vangelo offre a chi lo accoglie; ma le nostre speranze possono e debbono alimentarsi anche della contemplazione delle inesauribili volontà di tanti popoli di uscire dalla loro oppressione.
Se qualcuno, trent’anni fa, mi avesse detto che nel 2000, negata loro ogni giustizia, i palestinesi avreb-bero continuato a battersi, non lo avrei creduto. Se mi avessero detto la stessa cosa per i kurdi o per gli indios del Chiapas o per i campesinos brasiliani Sem Terra o per i poveri di Korogocho, ancora avrei detto: impossibile.
Dobbiamo imparare da loro.
Nella Bibbia si parla spesso di sentinelle come simboli di speranza. Stanno insonni, in luoghi elevati, vedono da lontano i primi bagliori dell’aurora, le tenebre lacerate dal primo raggio di sole. Forse non è questo il ruolo della nostra generazione. Forse noi siamo le sentinelle chiamate a salire sugli spalti nei primi turni di guardia, in piena notte, quando il freddo è più intenso e ombre mostruose sembrano fremere in un’oscurità che durerà ancora a lungo. Forse, quando andremo a dormire, l’alba non sarà ancora sorta. Ma noi sappiamo che verrà e che, in qualche misura, sarà stata anche la nostra fedeltà a prepararla nel ventre della storia.
(Ettore Masina)

La speranza: il segno di riconoscimento dei cristiani.
La speranza: non un lusso, ma un dovere.
La speranza: non un sogno, ma la strada per rendere reali i sogni.
La speranza: donata a chi dona il proprio cuore a Dio.
«Donami il tuo cuore», ci dice Dio, «ti darò i miei occhi».
Occhi di gufo.
 



l'Informatore Parrocchiale - marzo 2001
 

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