VEDENDO QUELL'UOMO MORIRE COSI'
Nel triduo pasquale
l'incredibile speranza della vita

Franco Brovelli

Quelli del giorno dopo

Il giorno dopo Giovanni stava ancora lì al Giordano con due dei suoi discepoli e fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: «Ecco l'agnello di Dio» e i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e vedendo che lo seguivano disse: «Chi cercate?». Gli risposero: «Rabbì, dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete».

Commenta così, in un incontro in cui parlava sul futuro dell'Europa, padre Timothy Verdon, monaco americano, adesso prete a Firenze, uno degli intenditori più acuti e intelligenti d'arte, che narra il Vangelo scorrendo e aiutando a gustare le opere d'arte:

La domanda e la risposta sopra ricordate ci interessano perché oggi siamo di nuovo al giorno dopo, all'inízio cioè di un cammino decisivo, dopo aver in qualche modo visto scendere lo Spirito. Il momento della visione è passato, abbiamo visto lo Spirito, ma non lo vediamo più. In un mondo non più luminoso di fede, l'Europa non vive più di quell'ispirazione cristiana cbe le ha dato forma, che è stata la sua causa formale. Oramai è il giorno dopo.

A me pare che in queste parole ci sia del realismo, ma anche una traccia di tristezza, quasi una sorta di rassegnazione: noi saremmo, appunto, quelli del giorno dopo. Penso che questa sia una provocazione da accettare.
Ognuno di noi sa bene come iniziano i racconti della Risurrezione. E' ripresa l'identica espressione, ma con una variante significativa: il giorno dopo il sabato. Forse è proprio questa la prospettiva decisiva che il Vangelo ci consegna.
Vorrei tentare di fissare lo sguardo, il più possibile con la lungimiranza di un gufo, sul mistero di un Dio che si rivela nella Pasqua di Gesù, una Pasqua che ci conduce al giorno dopo il sabato, e rileggere l'intera vicenda della Pasqua alla luce di questa intuizione.
Se fosse smarrita questa traccia nella vicenda religiosa culturale dell'Europa, avremmo una ragione di più per riappassionarcene, perché il dono della Pasqua credo che si configuri come uno dei doni comunque più grandi, più liberi e più gratuiti da condividere dentro il cammino di uomini e di donne, in una vicenda come quella del nostro tempo.


Tra smarrimento e speranza

E nel percorrere questo tracciato che conduce a meditare il dono della Pasqua di Gesù mi lascio ispirare da un'intuizione che sta sullo sfondo di tutta la lettera che l'Arcivescovo ci ha regalato quest'anno, La Madonna del Sabato Santo, dove si parla dello smarrimento nel cuore del discepolo come un passaggio obbligato per giungere alla speranza. E questo non è limitabile al Sabato Santo, al silenzio drammatico del Sabato Santo. Credo che questa dialettica tra smarrimento e speranza segni tutti i passi della Pasqua di Gesù.
Quello della Pasqua cristiana è una sorta di guado da passare, dallo smarrimento alla speranza, che appella alle risorse più belle che abbiamo di cuore e di intelligenza, di passione e di desiderio.
E allora cercherò di evocare il tragitto spirituale e umano che l'avventura della Pasqua cristiana, celebrata nel cammino di fede, continuamente propone, sul canovaccio che più ci è familiare: quello cronologico. Partirò da qualche sottolineatura sul primo momento della settimana santa, la Domenica delle Palme e l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, poi sosterò soprattutto sul triduo pasquale perché il nostro si faccia davvero sguardo penetrante, anche se sarebbe bello fermarsi su tutto, perché un dipinto come quello della Pasqua merita di essere visto persino nei particolari, oltre che nel colpo d'occhio complessivo.

La Domenica delle Palme
e l'ingresso di Gesù a Gerusalemme:
il duplice colore della Pasqua

Vorrei evidenziare la duplice dimensione che sta nel racconto e nella celebrazione dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Il racconto biblico ha il tono del racconto di un trionfo, la redazione sembra dirci che siamo davanti a un avvenimento regale, all'entrare del re nella sua città, ma allo stesso tempo ci mette davanti, in una forma che più sperimentabile di così non potrebbe essere, a una incredibile povertà e fragilità con cui questo gesto così detto di trionfo accade.
I segni sono soltanto segni umili, assolutamente dimessi, tant'è che ad accorgersene sono soltanto i piccoli, i semplici, i sapienti, mentre i dotti hanno altro a cui pensare, per esempio come riuscire a zittire questo scomodo profeta che viene da Nazareth. I piccoli fanno festa, stendono i loro mantelli, in segno gioioso di accoglienza: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!». E' già dentro questo il duplice colore della Pasqua. Da una parte la percezione che si tratta di un dono assolutamente luminoso: l'entrare definitivo nella città degli uomini, dove uomini e donne sono nel cammino della vicenda della loro vita e della loro attesa, della loro speranza. Dall'altra gli strumenti assolutamente disadorni, inadeguati, umili: Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un'asina, in una modalità che non evoca certo i linguaggi della potenza.
A che cosa ci vuole introdurre una vicenda di Passione come quella che celebriamo, che inizia con questi tratti? Troviamo qui un'intuizione di una freschezza incredibile, quella che ci dice che Dío non ha paura delle cose piccole, che sembra addirittura farne conto. Una parola come questa fa diventare un'esperienza di ascolto un possibile iniziale coinvolgimento, che ci porta a dire: «Farà conto anche di me, anche se sono tra i piccoli e tra i poveri. Se non ha paura degli strumenti inutili e inadeguati, forse c'è posto anche per me».
Mentre cominciamo a guardare la Pasqua di Gesù potrebbe iniziare così la nostra Pasqua, potrebbe cominciare il nostro assenso alla Pasqua di Gesù.

Il Giovedi santo: lo scandalo di una consegna

Un secondo passaggio è quello che vedo inscritto nel linguaggio, nella simbologia, nel clima complessivo del Giovedì Santo. Annoto poche cose, ma decisive per chi è in ricerca di uno sguardo penetrante e ha sete di comprendere la profondità di un dono che ci è messo tra le mani, così che diventi sorgente di un'esperienza spirituale che continuamente si rinnova.
Il portale d'ingresso della messa «in Cena Domini» è sorprendentemente, nella liturgia ambrosiana, il racconto di Giona: questa scelta di un linguaggio ameno, quasi da fiaba, può apparire provocatoria all'interno di una celebrazione drammatica per ciò che evoca, per il memoriale che celebra.
Consegno una sottolineatura su questa pagina, una di quelle pagine che ci consegna il germe di una speranza.
Al di là della disinvoltura con cui Giona decide prima di fuggire, poi di lamentarsi, poi di contestare durissimamente quel Dio che continuamente lo chiama dicendogli: «Alzati, va' a Ninive, la grande città e annuncia il segno della misericordia», Giona è un uomo assolutamente smarrito. La ragione del panico che assale questo profeta, un uomo della Parola, non un uomo qualunque, è l'incredibile volto benevolo di Dio, la sua bontà esageraia. Un Dio che si preoccupa per la gente di Ninive con cui non ha crediti, che non distingue la mano destra dalla sinistra, un Dio così scandalizza Giona. Per questo prima scappa il più lontano possibile, poi dice che non è disposto a pagare per la gente di Ninive. Quando si accorge che Dio è implacabile e non muta di una virgola l'intenzione di raggiungere la gente di Ninive con un segno di condivisione e di solidarietà, Giona sputa fino in fondo il rospo che ha dentro: «Ma tu perché perdi tempo per la gente di Ninive?». Ed è qui che matura una delle risposte che costituiscono il mosaico eccezionale della Pasqua cristiana: «Che diritto hai tu di impedirmi di volere bene alla gente di Ninive? I confini dell'amore li metto io, non me li dici tu! Scelgo io fino a dove arrivo, scelgo io. Tu alzati e vai raccontare la parola della misericordia».
All'origine dello smarrimento di Giona è la bontà di Dio.
Questo è uno scandalo che bisogna accettare, altrimenti non si entra nella Pasqua. Bisogna entrarci e, lasciarci misurare da questo volto incredibilmente buono di Dio.
Man mano che il cristiano entra in questi testi, prega e si lascia accompagnare dai simboli, dai canti, dai silenzi della liturgia, istintivamente avverte di entrare nel territorio della confidenza: se questo è il volto di Dio ci provo a parlargli, ci provo a cercarlo perché è probabile che abbia uno sguardo anche per me. Qui lo smarrimento via via conduce in una prateria di speranza, quella cui questa bellissima parabola dischiude.
Nel Giovedì Santo non si attenua per nulla questa tensione. E' un volto a scandalizzare, quello del Maestro, quello definitivamente riconosciuto in quella cena come volto di uno che perde la propria vita, che ormai non ha più parole da regalare, se non una ultima, definitiva: quella del perdere la vita, come segno gratuito dell'amore.
Questo è il sigillo del Vangelo: non è più una parola ma un gesto, un dono, una consegna di sé.
Il volto del Maestro è detto nella liturgia del Giovedì Santo con una plasticità e profondità davvero straordinarie: lo puoi legare al gesto della lavanda dei piedi, al dialogo a tavola con i discepoli, quando è svelata la singolarissima modalità di essere maestro, diventando il più piccolo e servendo.
Tutto questo domanda, in chi si avventura in una vicenda spirituale così, un passo di libertà: ci si accorge che si deve scegliere di andare a quella cena, di diventare commensale con il Signore. Si deve scegliere perché questo è un volto affascinante, ma insieme capace di inquietare, perché mettersi a tavola per la Pasqua con un volto cosi, con un Maestro così, vuol dire accettare una comunanza di destino e di ideali, quelli che esattamente configurano la possibilità di un rapporto tra discepolo e maestro.
Io sento questo passo tra quelli più onerosi in assoluto della mia vita. Faccio fatica a immaginarne di simili come ímpegnatività e profondità. Ma i segni della Pasqua cristiana, che prende volto nella liturgia della messa «in Cena Domíni», portano dentro una capacità di regalarci comunque un augurio. Se questo coraggio di libertà ci fosse, sarebbe comunque ampiamente ripagato con un senso profondo di pace: «Voi siete coloro che avete perseverato con me nelle prove».
C'è un linguaggio di estrema amicizia tra Gesù e i dodici in quella vigilia che davvero aveva il tono palese del testamento e del congedo drammatico e definitivo.
C'è smarrimento e speranza e io non guadagno la seconda se non percorro il primo. Se non percorro lo smarrimento potrei guadagnare solo uno stato d'animo provvisorio; una speranza a radici grosse.

Il Venerdi Santo: dal silenzio a una preghiera interminabile

Delle tante cose che il Venerdì Santo potremmo meditare e approfondire, gustandole, mi piace evocarne una soltanto, facendomi interrogare dal titolo di questa conversazione: Vedendo quell'uomo moríre così.
La liturgia del Venerdì Santo non celebra semplicemente la morte di Gesù, ma qual è la morte di Gesù.
Quella morte è la morte di un povero portato fuori dalla città come i lebbrosi, come gli emarginati, in una situazione di totale solitudine, senza nulla addosso, perché si compissero le profezie. E' veramente il morire di un povero.
E' questa la morte che noi celebriamo, questa incredibile morte che dice l'altrettanto incredibile condiscendenza di Dio.
Mi piace leggere a questo riguardo un testo inscritto nel racconto dell'Esodo, riascoltato nella liturgia del Venerdì santo che ci restituisce qualcosa di grande: uno sguardo luminoso e lungimirante con cui vorremmo aiutarci a celebrare la Pasqua.
Dice cosí Esodo 22,25-26: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola copertura. E' il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?». Ora, la celebrazione del Venerdì Santo va molto oltre: Dio stesso assume la pelle dell'uomo e si lascia derubare dal prepotente e al tramonto, al Golgota fuori dalle mura, dorme scoperto, muore umiliato, sperimenta nel corpo il terribile freddo dell'odio e dell'indifferenza degli uomini: si è privato del mantello che anche a un povero spettava, perché lo potessimo avere noi. Come un esodo che continua nella sua interiore forza di libertà.
Una cosa in particolare mi colpisce profondamente nella liturgia ed è l'unica che vorrei proporre all'attenzione per continuare a inoltrarci nel sentiero della Pasqua: come viene celebrato il momento dell'annuncio e della morte? Con il silenzio. E questo capita in ogni tradizione liturgica: nell'oríente e nell'occidente, nelle chiese della riforma, nella chiesa anglicana, nella tradizione luterana, calvinista, romana, ambrosiana.
La casa capace di ospitare quella parola che dice la morte di Gesù è il silenzio. Il silenzio di chi ascolta, di chi accoglie, di chi si lascia raggiungere da una parola così.
Ma la liturgia del Venerdì santo non termina nel silenzio, anzi. In tutte le tradizioni liturgiche proprio tutte, antiche e recenti, la liturgia del Venerdì Santo termina con un'amplissima preghiera universale, per i vicini e per i lontani, per i credenti e per i non credenti, per i cristiani e per i non cristiani, per chi è nella prova, nella fatica, per le invocazioni più diverse, per i ministeri più differenti, per tutti.
Si avverte che il senso di questa preghiera è di non farla finire più, perché di fronte a uno che muore cosà, di fronte a un volto di uno che muore così, non si può dimenticare nessuno. Nessuno! Bisogna raccontargli di tutti e dire il nome di tutti, la storia di tutti, la tragedia, la speranza di tutti.
Dal silenzio a una preghiera interminabile: è la dialettica del Venerdì Santo.
E tutto questo nasce unicamente dall'aver intuito che il volto di Gesù ispira il linguaggio della confidenza, ti fa sentire solidale con tutti, ti fa sperare che ciascuno sia affidabile. Questa è una parola grandissima della Pasqua cristiana.
Qualcun altro l'aveva intuita subito: i buon ladrone. Nel dialogo raccontato da Luca al capitolo 23, prima c'è contrasto e ironia su Gesù che muore: «Noi ce la siamo meritata questa condanna, noi siamo dei disgraziati, ma questo era uno puro, un giusto». Poi il buon ladrone si rivolge direttamente a Gesù dicendogli: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno». Ci dicono i biblisti che questa è l'unica volta che nei Vangeli ci si rivolge a Gesù chiamandolo Gesù. A chiamarlo cosi era uno che non lo conosceva, un estraneo, un poveretto, come se lo conoscesse da sempre. E' il volto di Gesù a ispirargli la preghiera della confidenza e della fiducia.
Poi si dice che il Venerdì santo è un giorno di tristezza! Difficile dire una sciocchezza più grande di questa. Solo chi sta fuori può giudicare così, perché non entra, perché dà tutto per scontato.
Se uno entra, avverte che questo è un giorno capace di generare una speranza incredibile.
Uno che muore cosi, di diritto diventa di tutti. Non c'è nulla che si frapponga tra noi e lui, visto che non ha trattenuto nulla per sé. E' davvero di tutti, basta volerlo.

La Veglia pasquale: la parola decisiva

La Veglia pasquale: la parola decisiva

Voglio fare solo una sottolineatura sulla liturgia della Veglia: anche qui i simboli esuberanti e bellissimi potrebbero davvero condurci su tanti sentieri per imparare lo sguardo penetrante di chi intuisce il volto che Dio ci regala nella Pasqua del Figlio suo.
Basterebbe pensare che i quattro grandi simboli della Veglia (la luce, la Parola, l'acqua, il pane) costituiscono nel Vangelo di Giovanni quattro definizioni di Gesù.
Gesù si è definito così: luce del mondo, parola definitiva del Padre nel prologo, l'acqua zampillante per la vita eterna, il pane della vita.
Basterebbe questo per dire che siamo di fronte a un'esperienza profonda di prossimità con il Signore e di comunione con Lui.
Ma una cosa che sembra estranea e un po' margínale mi pare meritevole di essere commentata, proprio nella lunghezza d'onda del sentiero che ho scelto di intraprendere tra smarrimenti e speranze.
Mi riferisco precisamente alla parola decisiva, forse la più bella, la più affascinante: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?».
Questa parola è l'esperienza cruciale dell'esperienza cristiana, è la parola cruciale per quella piccolissima comunità che dalla Pasqua era chiamata a nascere, è la parola cruciale della fede.
A questo Paolo ha dedicato un capitolo straordinario nella prima lettera ai Corinzi (cap. 15): «Senza la risurrezione vana sarebbe la nostra fede».
Questa che è la parola decisiva, l'arco portante di tutta l'esperienza cristiana, la certezza su cui l'insieme poggia, anche questa parola decisiva è affidata a discepoli fragili e a donne confuse dall'emozione e dalla gioia.
Che anche questa parola, da cui dipendono le sorti del futuro, di un'immagine di senso della vita, non sia imposta con potenza, con forza, non sia affidata a gesti o a scenari che la impongano, che sia affidata alla fede fragile. di uomini che già avevano ceduto e sia consegnata allo stupore, ancora confuso e incredibilmente vivo di donne che hanno trovato scoperchiata la tomba, rivoltata la pietra, è veramente una cosa incredibile.
Anche qui la logica della Pasqua del Signore non si smentisce: è dono straordinario affidato alla libertà di uomini e di donne, affidato alla loro fragilità.
Dentro una Parola così si intravede realmente la possibilità di una chiamata. E si intuisce seriamente che ha senso porsi la domanda che poi nella vita si potrebbe rivelare come decisiva, indipendentemente dalle scelte di vocazione che si compiranno.
Questa Parola è affidata anche a me perché io torni in città di corsa e la racconti e la condivida con altri. Anche a me che sono tra questi uomini o donne fragili. Anche attraverso di me può correre di bocca in bocca la parola della Risurrezione, la consapevolezza che l'avvenimento di Gesù di Nazareth si consuma con un sepolcro vuoto, con una pietra ribaltata, con un ritorno definitivo alla vita.
Questa è veramente la parola che merita il massimo dell'accoglienza e dell'ospitalità.
Occorre uno sguardo penetrante per accogliere il senso della Pasqua cristiana, per intravedere che cosa vuol dire lasciarsi coinvolgere dai segni, dai ritmi in una liturgia carica di suggestione e di profondità.

Attorno all'icona del sepolcro vuoto

Ritorno a quell'autore da cui ero partito. Ragíonando a partire dall'esperienza dell'arte sui grandi temi della Pasqua di Gesù, parlando ai responsabili della vicenda sociale e politica, culturale di molte città dell'Europa, scrive:

Le nostre città europee non sono semplicemente continuazioni del concetto e della realtà dell'urbanesimo greco-romano. C'è stata una interruzione a un determinato momento della storia. Babilonía la grande è caduta, c'è stata una fuga, un esodo verso la pace, verso forme di convivenza diverse, cristiane, non pagane, basate sull'amore del prossimo. Le città che si ricostruirono dalla fine del Medioevo in poi, le città di Firenze, Londra, Parigi, la stessa Roma, avevano nel cuore il ricordo del deserto, la pace della Gerusalemme mistica, vera meta del peregrinare dell'uomo, vera forma del convivere umano. Andrebbe perciò gelosamente conservato e coraggiosamente difeso questo segno della città abitata dalla vita. E' compito impossibile? Lo era anche alla conversione del mondo ellenistico e romano due millenni orsono. Andrebbero privilegiati i luoghi antichi e nuovi nelle città e vicino alle città, dove l'uomo e la donna possano recarsi con il loro dolore interiore, possano cercare uno che ha conosciuto anche lui la sofferenza, possano rendersi conto che oramai la tomba è vuota. Da questi luoghi della fede si guarda al mondo con altri occhi, si ritrova quel mondo interiore che l'altra città, quella basata sullo sfruttamento, afferma che non esiste. In questi luoghi ci saranno ancora degli angeli che ci insegnano a non fissare l'attenzione sulla tomba perché colui che stiamo cercando non è tra i morti ma lassù, nella luce.

A me piace immaginare così anche una parrocchia nel cuore di una città e vorrei augurare che anche la vostra parrocchia abbia questo luogo del convergere interiore del cuore, sia spazio, ambito, dove si è aiutati a riconoscere che c'è una tomba vuota, cui continuamente ritornare perché la speranza si rigeneri. E la Pasqua di Gesù questi miracoli li sa fare. Come in quel giorno, come nel giorno dopo il sabato, esattamente quando un altro tornante, nuovo, inedito della vita e della storia dell'umanità ha cominciato a scorrere nel ritmo del tempo.
Convergere attorno all'icona del sepolcro vuoto, rigenera la fede di fratelli che poi vivono una voglia incontenibile di raccontare ciò che hanno visto, ciò che hanno sperimentato.
Ci vogliono occhi penetranti per gustare a fondo il dono della Pasqua di Gesù e la liturgia è traccia autorevolissima perché lo sguardo si affini e perché la capacità di vedere diventi davvero praticabile. Speriamolo anche per noi, anche nella Pasqua di quest'anno, anche in questa comunità.

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Vedendo quell'uomo morire così
I capitoli:

Quelli del giorno dopo
Tra smarrimento e speranza
La domenica delle palme e l'ingresso a Gerusalemme
Il giovedì santo
Il venerdì santo
La veglia pasquale
Attorno all'icona del sepolcro vuoto

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