GIOBBE. PERCHE' SIGNORE?
Roberto Vignolo
Giobbe paziente, ma per poco
Forse che Giobbe serve Dio per niente?
Gli insopportabili "avvocati" di Dio
La "chance" della sofferenza
La risposta di Dio
Dov'è il Padre?
Allegato I
Allegato II
Giobbe paziente, ma per poco (Gb 1-2; cfr 31)
Quando pensiamo alla figura di Giobbe automaticamente gli
mettiamo subito vicino un aggettivo: "Giobbe, il grande paziente..".
La pazienza di Giobbe... proverbiale! Questo attributo di pazienza gli viene
proprio da uno scritto biblico del Nuovo Testamento: dalla lettera di San
Giacomo che addita a noi grandi esempi, grandi padri nella fede e tra questi,
appunto, annovera proprio Giobbe come modello di pazienza (Gc 5,11).
E’ da vedere, però, se Giacomo intende la pazienza proprio
come la intendiamo noi.
Pazienza, nel greco di San Giacomo, significa alla lettera
"resistere sotto un peso, sotto una pressione": pensiamo a qualcuno
che lungo un cammino si è caricato di un peso e deve proseguire in questo
cammino, dve produrre uno sforzo attivo. Noi, invece, di solito, quando parliamo
di "pazienza" pensiamo piuttosto a qualche cosa che dobbiamo subire
supinamente, passivamente, che schiaccia la nostra identità.
Se "pazienza" è intesa così allora, diciamolo
subito, non è roba di Giobbe; e, potremmo anche aggiungere, non è cosa che ha
molto a che vedere con la fede. Tutto è Giobbe meno che supino. Si può
definire in molti modi la fede, ma non certamente come atteggiamento che ci veda
passivi.
E aprire il libro di Giobbe vuol dire sfatare questo luogo
comune, un luogo comune che immediatamente è associato alla sua esperienza:
"Come possiamo affrontare la sofferenza? Subendola!" . Ma Giobbe non
ha affrontato così la sua esperienza.
Giobbe è intrigante per noi già per il nome che porta e che
significa: "Dov’è il Padre?" - una sintesi di "dove" e di
"Padre". "Dov’è il Padre?", il Padre con la P maiuscola:
"Dov'è il Dio che mi è Padre?". Giobbe, inoltre, è nome che in
ebraico si scrive alla stesso modo (cambia solo una piccola vocale) della parola
"nemico".
Giochiamo un po’ su queste etimologie e assonanze
percepibili all'orecchio semitico e quindi in modo adeguato al libro di Giobbe.
"Dov’è il Padre? Dov’è Dio nella sofferenza?"
Forse che questo Dio, piuttosto che il volto di padre mostra
il volto di nemico?
Questa è la domanda - o quanto meno una delle domande - che
percorre tutto il libro e l’esperienza di quest’uomo che attraversa un
cammino lungo il quale - noi potremmo dire - scopre Dio e anche se stesso, come
pure la falsità e la banalità delle persone che ha vicino, degli amici,
proprio nel momento in cui la sofferenza lo isola da loro.
Sempre, infatti, la sofferenza ha questo terribile potere:
chi soffre davvero precipita in una grande solitudine e anche le relazioni più
affidabili su cui noi possiamo fare anche legittimamente più conto, tante
volte, si rivelano assolutamente inadeguate, inconsistenti, deludenti. E anche
dalla parte di chi sta vicino a chi soffre, evidentemente, le cose non sono
molto facili perchè la sofferenza cambia un volto conosciuto in un volto
sfigurato, non più attraente e affidabile come prima.
La vera sofferenza è quella che noi non riusciamo a
prevedere. Tutti quanti noi possiamo fare il conto - come dire - ragionevole che
una quota di sofferenza di un tipo o di un altro comunque ci spetterà. E magari
giochiamo con un po’ di fantasia anticipando quello che potrebbe essere - non
dico l’esito - ma l’esperienza viva della sofferenza. Comunque ci sbagliamo
sempre! Perchè nel momento in cui precipitiamo nella sofferenza siamo spiazzati
... e anche quelli che ci stanno vicino sono spiazzati! La vera sofferenza
sorprende nella maniera davvero più inaspettata. Soprattutto come, nel caso di
Giobbe, quando questa sofferenza interviene del tutto immotivata.
C’è un tipo di dolore che - lo sappiamo benissimo - ci
fabbrichiamo con le nostre mani perchè siamo sciocchi, perchè manchiamo di un
minimo di saggezza, perchè fragili, perchè deboli, perchè pecchiamo, perchè
dopo aver sbagliato ritorniamo a fare gli stessi sbagli.... e questa è una
quota di sofferenza, diciamo così, ragionevole, anche se le conseguenze sono
dure.
Ma c’è una quota di sofferenza che, invece, ragionevole
non è; c’è una quota di sofferenza in eccesso, in sovrappiù: è quella che
non è ai nostri occhi motivata, motivabile.
Giobbe sperimenta questa sofferenza immotivata, immotivabile.
E’ un uomo giusto, integro. E’ un uomo di cui all’inizio del libro Dio
stesso si dice ammirato e, a qualcuno che vorrebbe screditarlo ai suoi occhi,
Dio stesso ribatte: "Guarda il mio servo Giobbe! Integro, alieno dal
male, teme Dio": tutte le caratteristiche migliori che nella Bibbia
possiamo trovare di un uomo autentico che vive nella comunione con Dio e che
vive nel rispetto del suo prossimo!
C’è una pagina magnifica più avanti nel libro, quando
Giobbe protesterà la sua innocenza, un capitolo in cui egli si presenta con
questi tratti più autentici di grande giustizia: è il capitolo 31. Se vogliamo
sapere che cosa è l’uomo giusto secondo l’Antico Testamento, leggiamo
questo capitolo perchè è un vertice, che ci delinea la figura dell’uomo in
accordo vivo con Dio e con il suo prossimo (e non soltanto giusto, perchè non
pesta i piedi a nessuno). Giobbe è un giusto autentico e generoso - e proprio
perchè è uno così - secondo un’antica convinzione biblica Dio lo benedice,
lo retribuisce e cioè gli garantisce una vita felice, invidiabile sotto tutti
gli aspetti: una vita feconda, ricca, rispettata, una vita che gode nel fare il
bene, in tutto e per tutto benedetta.
Siccome Giobbe è un uomo giusto e buono, ecco che la
conseguenza di tutte quante le sue azioni, non può che essere la felicità, non
può che essere avere tanti figli, godere del frutto delle sue mani in modo
molto abbondante, vedere arricchita la sua vita, socialmente onorata.
Tutto questo secondo quella convinzione per cui chi fa il
bene ci guadagna perchè Dio, fin da adesso, premia chi opera secondo il suo
cuore; e chi fa il male, invece, ci perde perchè, anche se apparentemente può
avere vantaggi più immediati, in realtà questo suo male si ritorcerà contro
di lui anzi, Dio stesso lo castigherà, Dio stesso gli infliggerà qualche
malattia, Dio stesso lo punirà e farà insorgere contro di lui degli avversari.
Chi fa il bene ne ottiene il bene, chi fa il male ne ottiene
il male e Dio, rispettivamente già fin da adesso, premia il buono e castiga il
cattivo.
Questa è la convinzione dell’antica sapienza di Israele!
Una convinzione che, evidentemente, lo stesso Giobbe nutriva
e condivideva in pieno. Tant’è vero che nel momento in cui il suo equilibrio,
la sua pace (lo shalom: integrità piena, ricca e felice) viene messo in crisi,
in quel momento Giobbe non perde affatto la pazienza.
Effettivamente nei primi due capitoli del libro potremmo
dire: sì, Giobbe è un grande paziente che accetta le sventure che gli
capitano: privazione di figli, distruzione di tutti i beni e infine una piaga
terribile che lo devasta in tutto il corpo e che lo costringe a vivere
appartato.
Ecco Giobbe è colpito in questo modo e come reagisce?
Con le parole che noi potremmo aver sentito dalla bocca e dal
cuore delle nostre mamme, delle nostre nonne che nelle prove più dure dicevano:
Quel che Dio vuole non è mai basta! Da Dio abbiamo ricevuto il bene,
accettiamo anche il male! Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto
il nome del Signore! Non venga mai in mente a me di accusare il Signore per il
male che, sia pur misteriosamente, mi colpisce!
Questa è la reazione del Giobbe paziente, potremmo dire,
"prima maniera".
La reazione di uno disposto a chinare il capo di fronte alla
sventura che lo colpisce senza nessun perchè, senza che abbia fatto nulla di
male, in forza di una fede grande, pura, semplice (forse però un po' troppo
semplice).
Forse che Giobbe serve Dio per niente?
Ma perchè succedono queste cose?
C’è all’inizio del libro un doppio scenario, come se
avessimo un teatro in cui il palcoscenico è duplice: un piano terreno e sopra
un primo piano. Al primo piano, in alto, si sa quello che succede sotto e non
viceversa.
Sotto sta Giobbe, al primo piano (in cielo) invece sta Dio
che viene interpellato da un personaggio un po’ strano, un certo Satan (il
nome ce lo fa subito associare a Satana, ma non è proprio la stessa figura che
troviamo nei Vangeli).
Satan significa "uno che accusa, uno che denuncia,
uno che sparge infamanti calunnie". Noi diremmo un accusatore
terribile.
Questo Satan, dopo aver gironzolato in lungo e in largo per
tutta la faccia della terra, si presenta a Dio e, quando Dio gli dice "Guarda
il mio servo Giobbe! Uomo integro, giusto, che teme Dio ed è alieno dal
male", risponde: "Bella forza! Sono capaci tutti di vivere così
perchè tu lo premi, tu hai messo una siepe a custodia della sua vita ed egli ti
serve, obbedisce alla tua volontà perchè guadagna la tua benedizione e
protezione.
"Forse che Giobbe" - questa è la domanda, una
delle domande cruciali di tutto il libro e preziosissima per noi - "serve
Dio per niente?"
Su che cosa si basa la fede? Si basa sull’interesse in
vista di una ricompensa? Sul vantaggio che ci procura perchè Dio favorisce chi
lo ama? Ma se si fonda su questo è vera e autentica fede? Non corre il rischio
di essere interessata, opportunistica, un vile 'do ut des'?
Questa è la tagliente domanda sulla bocca dell' accusatore
di Giobbe ma, in realtà, molto più profondamente la domanda che sorge dal
cuore di chi si pone seriamente il problema di Dio: può essere Dio soltanto uno
strumento del mio benessere?
Israele è stato spesso tentato di onorare un Dio proprio con
questa intenzione, l'intenzione di un cuore doppio. E nessuno di noi è esente
da questa tentazione. Il libro di Giobbe - tra le altre sue cose magnifiche - è
certamente una grande domanda in questo senso: qual è la ragione vera per cui
noi siamo attaccati a Dio? E’ un interesse, un vantaggio che ce ne può venire
di qua come nell’aldilà?
E in tal senso il libro di Giobbe è una grande scuola di un
rapporto gratuito con Dio.
Quando noi abbiamo un minimo di certezza - almeno in senso
morale evidentemente - che il nostro rapporto con Dio è vero e autentico?
Quando è appunto disinteressato, quando è costruito non in
vista di altro ma, potremmo dire, pienamente fine a se stesso, e se c’è dell’altro
viene comunque appresso: "Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua
giustizia, tutto il resto vi verrà dietro assieme" dirà Gesù.
C’ è una ricompensa da sperare, certo, ma mettiamola ben
tra virgolette la parola "ricompensa" perchè altrimenti non avremo
mai il senso di un autentico rapporto con Dio.
Ecco, in fondo, quello che ancora non sa Giobbe. Giobbe sa
soltanto di essere un uomo giusto per quello che è possibile ad un uomo. Ma Dio
sa che quest’uomo giusto dovrà essere messo alla prova anzi, accetta che
quest’uomo venga a subire la prova e lascia che questo Satan, questo
accusatore gli tolga ad uno ad uno tutti i beni che rappresentano la
"ricompensa". Allora si vedrà che cosa farà Giobbe.
E la reazione di Giobbe all’inizio è compostissima: c’è
una fede granitica, straordinaria. Potremmo dire che Giobbe assomiglia a una
statua. Sollecitato anche dalla moglie - che rappresenta la reazione esasperata
di una donna che capisce che il suo uomo è colpito ingiustamente e che parla
dall’esasperazione del cuore: "E’ questa la ricompensa del tuo Dio?
Ancora ti accanisci, insisti nel servirlo? Maledicilo e muori!" -
Giobbe rifiuta questo discorso e dice: "No, questa parola è detta per
amarezza, ma è soltanto una sciocchezza perchè comunque noi accettiamo,
dobbiamo accettare fino in fondo, quello che la mano di Dio ci dà e ci
toglie."
E’ bello questo atteggiamento e credo che noi dovremmo
meditarlo seriamente perchè la sapienza antica, nonostante tutto, non era
sprovveduta. Aveva infatti il senso dell'affidarsi incondizionatamente a Dio.
E tuttavia è possibile scovare qualche tratto di ingenuità
in questo atteggiamento di Giobbe. Non possiamo pensare seriamente che la prova
sia automaticamente superata.
Quando noi siamo veramente provati ci sono sottratte proprio
le sicurezze che mai penseremmo potrebbero essere messe in discussione. Anche
questo è caratteristico della Bibbia.
Noi, tante volte, credo, ci facciamo della figura della fede
idee assolutamente disincarnate, astratte; sono prodotti di sublimazione, al
limite vere e proprie "ideologie", sono croste che coprono la carne
viva e pulsante della fede, carne capace di sanguinare, fino a giungere - al
limite - alla totale condizione esangue.
Non è uno scherzo la fede. Quando noi diciamo che "Il
Verbo si è fatto carne e ha messo la sua dimora fra di noi" significa
davvero che non c’è briciola della nostra esistenza, non c'è frammento della
nostra vita - anche il più oscuro, anche il più impensato, anche il più
ambiguo - che non debba essere scosso, toccato dalla presenza di Dio, vagliato
in tutta quanta la sua fragilità e consistenza ed essere contemporaneamente
trasfigurato ma al prezzo di un’esperienza di autentica passione.
Gli insopportabili "avvocati" di Dio
Ed ecco dove inizia la nuova nascita di un Giobbe che smette
di essere paziente e comincia invece a dare voce a tutta una irresistibile
protesta nei confronti di Dio e nei confronti, anche, di quei famosi tre amici:
Elifaz, Zofar e Bildad. Tre grandi sapienti che vengono da lontano avendo saputo
che il loro amico subiva tanta prova e che si sono detti: "Andiamo a fare
il nostro dovere di amici. Andiamo a consolarlo".
E vanno per consolarlo, ma quando lo vedono così ridotto,
quando lo vedono così conciato non ne sono capaci. Stanno lontano, si mettono a
gridare e poi fanno due gesti orribili: si stracciano le vesti e prendono della
polvere, della terra e la buttano in aria sulle loro teste. Sono due segni di
esecrazione, due segni di totale giudizio e presa di distanza. Giobbe per loro
è un infetto, è qualcuno che essi temono non principalmente per un contagio,
ma perchè è infetto di male: se uno è così ridotto, piagato da capo a piedi,
chissà quanti peccati e colpe ha sulla sua coscienza, chissà quante ne ha
fatte!
Guardiamo un po’ la nostra esperienza. Di fronte a qualcuno
gravemente colpito noi - molto facilmente, forse non sempre - siamo tentati di
pensare così. Siamo tentati di aggravare la sua situazione con un giudizio
sulla sua situazione.
"Tu non sei soltanto malato. Tu sei un peccatore. Sì,
la tua vita all’apparenza era la vita di un grande giusto, di uno che faceva
addirittura molto bene, difendeva l’orfano, la vedova, però, dentro le mura
della tua casa che cosa succedeva? Sei sempre stato onesto? Nel tuo cuore come
ti sei comportato? Magari i tuoi peccati ti sono addirittura ignoti perchè
questo succede a noi uomini, facciamo il male e non lo sappiamo o semplicemente
non vogliamo sapere che è male, però può capitare. In ogni caso, cerca la tua
colpa! Da qualche parte della tua coscienza la troverai e lì sta la causa, la
ragione ultima di tutta la tua sofferenza." ... diranno così gli amici
di Giobbe.
Ecco quello che non sopporta Giobbe.
Tutto sommato non è un caso che l’esplosione e la protesta
di Giobbe contro Dio e contro gli amici si liberi proprio alla fine di questa
squallida visita degli amici i quali, per sette giorni e sette notti, stanno in
silenzio di fronte a lui, lo trattano come fosse già morto, un uomo spacciato..
Ecco quello che Giobbe rifiuta a un certo momento: è l’idea
che questa sua sofferenza immotivata sia attribuibile ad una sua colpa o a molte
sue colpe.
Ed allora ecco che nella parte centrale del libro, dal cap. 3
al 27, abbiamo una discussione serrata tra Giobbe e questi tre amici. Di volta
in volta, a turno prendono la parola; di volta in volta Giobbe ribatte a
ciascuno di loro. Per tre volte, senza esclusione di colpi.
In questa discussione si scontrano fondamentalmente queste
due certezze: una molto molto arcaica, ma davvero snaturata anche del suo
significato originario da parte degli amici e la certezza personale di una
coscienza che di fronte alla propria esperienza concreta, non ha nessuna
intenzione di lasciarsi colpevolizzare arbitrariamente.
Tu sei colpevole e proprio per questo soffri" ...
dicono gli amici. Ma Giobbe protesta e ribatte:
"No, io nella mia coscienza certo posso trovare anche
molte tracce di male, ne ho certamente fatti di peccati, ma non rintraccio
peccati che esigano tale sovrappiù di sofferenza. Per questa sofferenza io mi
dichiaro, mi professo innocente".
Ecco il grande scontro che sta al cuore del libro: l’idea
arcaica degli amici che snatura un principio dell'antica sapienza - certamente
anche sano e a suo modo illuminante - facendolo diventare un sistema meccanico e
addirittura un pretesto per mettersi a fare gli avvocati di Dio.
Contro qualcuno che soffre e non sa perchè e chiede a Dio
perchè, ecco che salta sempre fuori qualcuno che ha la balzana idea di mettersi
a difendere Dio... "ma Dio è giusto ... ma Dio è buono. Sei tu che non
sei giusto, sei tu che non sei buono".
Di fronte ad una sofferenza in eccesso ci sia per sempre
tolta questa tentazione.
Il libro di Giobbe è proprio lì nella Bibbia anche per
ripulirci di questa tentazione. Come se Dio avesse bisogno di noi per avvocati!
Come se a chi soffre non dovesse essere lasciato il sacrosanto diritto - anche
se fosse il più grande peccatore di questo mondo - di dare voce alla sua
sofferenza e di farla diventare un luogo in cui ci si apre a Dio con coraggio,
spregiudicatamente, fuori dagli schemi.
Perchè Dio vuole proprio questo.
La "chance" della sofferenza
Non vuole tanto la nostra sofferenza, ma vuole certamente che
nella sofferenza noi impariamo ad essere liberi.
Proprio nel momento in cui siamo più condizionati, quando ci
viene sfilata via la vita - questa è la sofferenza, la malattia - noi abbiamo
stranamente una grande chance, una enorme possibilità, che non consiste nella
sofferenza stessa, ma consiste nel porci domande, nell’avanzare un’
invocazione nei confronti di Dio, con un coraggio mai avuto prima perchè non
eravamo toccati direttamente, perchè stavamo bene e perchè interpretavamo
molto piattamente lo "star bene" quasi fosse qualche cosa che noi
dovevamo ottenere in seguito a qualche nostra "buona azione", come
"premio" per quello che abbiamo fatto e non invece come qualche cosa
per cui eravamo sotto la mano di Dio che gratuitamente tutto quanto ci dona.
Ecco la grande scommessa del libro di Giobbe.
La sofferenza come esperienza che noi non possiamo
interpretare con le formule del catechismo, ma soltanto come traccia che ci
guida attraverso il mistero, come un’esperienza nella quale anzitutto
sperimentiamo fino in fondo la nostra finitezza, e di lì forse anche un nuovo
volto di Dio.
Ci sono delle pagine bellissime in questo libro in cui appare
con grande chiarezza tutto quanto il mistero dell’uomo.
Giobbe è un libro che "butta giù" molto
volentieri le frasi fatte, le idee unilaterali, la faccia lucida e brillante
della medaglia perchè c’è anche quella sporca e meno spendibile.
C’è una pagina magnifica in cui Giobbe sembra voler
smontare una grande affermazione che ci viene dalla Bibbia. Che cosa è l’uomo?
La Bibbia dice:
"L’uomo è l’immagine di Dio. L’uomo è il re dell’universo" (Gen 1).
Che cosa è l’uomo perchè te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perchè te ne curi?
Eppure lo hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani
tutto hai posto sotto i suoi piedi (Sal 8).
Il Salmo 8, magnifica lode al Signore, mette in poesia quello
che il 1° capitolo della Genesi ci racconta in prosa:
"Dio creò l’uomo a sua immagine ;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò"
e a loro affidò in regno l’universo: «Sottomettetelo
e soggiogatelo».
Ma guardiamo che fine fanno il Salmo 8 e Genesi 1 nelle parole di Giobbe:
"Che cosa è l’uomo perchè te ne curi?
(la stessa domanda del Salmo 8, ma come è diversa la
risposta)
"passandolo in rassegna ogni mattina,
scrutandolo senza dargli sosta.
Fino a quando avrò addosso il tuo sguardo
che mi nega la tregua di un respiro?
Ricordati che un soffio è la mia vita,
una nube che il vento disperde."
Che cosa è l’uomo perchè ti interessi di lui?
La domanda che nel salmo 8 faceva trasalire di gioia l’angoscia
che questa domanda contiene, in Giobbe diventa invece una domanda che sfocia nel
tormento: perchè Dio si interessa dell’uomo? Perchè Dio invece di essere il
fedele custode dell’uomo, colui che custodisce i suoi passi "quando esce
e quando entra" (Salmo 121), si fa suo grande inquisitore, quasi qualcuno
che lo perseguita senza neanche dirgli il perchè?"
La grande sofferenza di Giobbe è quella non soltanto di
sperimentare tutta la finitezza della propria vita, ma il fatto che nel momento
cruciale e più oscuro Dio non gli parla. Giobbe lo interpella, grida,
addirittura lo accusa (ci sono parole che, leggendole, ci chiederemmo se siano
invocazioni o bestemmie), Giobbe desidera come nessuna altra cosa che Dio gli
parli: "Va bene questa sofferenza, ce l’ho, pazienza! Ma almeno parla,
almeno una parola me la devi dire, almeno un segno di riconoscimento me lo devi
dare!"
In certi momenti Giobbe - che continuamente si rivolge a Dio
con grande coraggio difendendo la propria innocenza ed accusandolo: "Sei
ingiusto tu, non io!" - perde addirittura la speranza che questo Dio gli
parli e, in un punto, arriva a dire: "Se anche tu mi parlassi, alla fine
non ci crederei che mi hai parlato".
Questo è davvero il livello più profondo che una coscienza
può toccare nel rapporto "corpo a corpo" con Dio. Quella di Giobbe è
una vera e propria lotta che è fatta certo all’insegna della protesta della
sua innocenza, certo di un’accusa veramente spietata nei confronti di Dio, ma
contemporaneamente - e questa è un'altra perla preziosa - è un restare
attaccato a Dio picchiando alla sua porta fino a che questa porta non si apre. E
come ha detto benissimo un commentatore: "Giobbe è uno che attacca Dio
attaccandosi a Lui".
E nel momento stesso in cui denuncia la sua ingiustizia però
continuamente ritorna alla speranza di ricevere una parola da Lui, di incontrare
un Dio il cui volto non è quello che gli hanno presentato insistentemente e
inopportunamente i suoi tre "buoni amici".
"Dio non è così! Dio non è come dite voi! Io so che,
in qualche maniera, se Dio mi parlasse entrerò a confronto con Lui e mi
troverà giusto"
"Ma cosa dici, sei pazzo, nessun uomo può essere giusto
di fronte a Dio."
"No, io so che sarà così."
Certo, non tutte le parole uscite dalla bocca di Giobbe,
dalla sua amarezza saranno accettabili per Dio.
La risposta di Dio
Ci sarà il momento in cui gli risponderà. L’insistenza di
Giobbe costringe Dio ad uscire fuori dal suo silenzio e in quel momento Dio gli
dirà: "Ma chi sei tu che con tutte quante queste parole pretendi di
oscurare il mio disegno?"
Giobbe chiaramente di fronte alla sua presenza si sentirà
come annichilito, non riuscirà più a rispondere e riconoscerà la grandezza di
Dio.
Giobbe avrà da Dio una risposta molto strana perchè Dio non
gli dirà nulla circa il senso di questa sua sofferenza innocente e circa il
senso di tutto il male che è nel mondo.
Giobbe, ad un certo punto nel suo lamento aveva allargato lo
sguardo. Anche questo produce la sofferenza: cominciamo a guardare un po’ più
alla grande, usciamo dai nostri confini privati e cominciamo a vedere che ce n’è
davvero molta di sofferenza, una sofferenza di cui non ci eravamo mai accorti
prima e, soltanto quando siamo stati toccati sul vivo, l'abbiamo riconosciuta.
Anche di questa sofferenza Giobbe ha chiesto conto.
Ma Dio gli dàrà una risposta molto strana. Non si metterà
a spiegare il perchè di questa sofferenza.
C’è un perchè alla sofferenza? Forse istintivamente,
saremmo portati a dire: "Sì, c’è un perchè". Ma in che senso? Non
certo nel senso che si dia una ‘spiegazione’, ma piuttosto nel senso che la
sofferenza, il dolore è l’occasione più grande che noi abbiamo di libertà,
l'occasione più grande in cui abbiamo la possibilità di cercare noi stessi e
di cercare Dio, riscoprendo la gratuità dell'esistenza.
La sofferenza non è qualche cosa rispetto cui ci sia una
risposta prefabbricata, c’è un'esperienza che dobbiamo costruirci con le
nostre mani: far sì che Dio ci risponda e magari risponde a noi proprio come ha
risposto a Giobbe ... in modo singolare.
Dio farà vedere a Giobbe tutte le meraviglie della
creazione, in discorsi lunghi che sembrano fuori luogo e del tutto
inappropriati. Qualcuno ha detto che questa risposta di Dio a Giobbe è come
quando qualcuno di fronte a neonato che strilla perchè ha fame gli agita
davanti un sonaglio per distrarlo. Ma quello ha fame, non ha bisogno di una
risposta di questo tipo. Sarebbe una risposta estetica ad una domanda etica.
Sì, Dio non dice niente circa la sofferenza, ma fa vedere a
Giobbe con occhi nuovi il mistero della vita, il mistero della creazione, il
mistero di un mondo che ci supera infinitamente come possibilità e che non
potremmo mai ridurre alle nostre logiche, alle nostre leggi, alla nostra piccola
sapienza. E anche il male che domina in tanti casi il mondo viene presentato da
Dio come qualche cosa che comunque rientra sotto la sua potenza.
Ecco la risposta che viene a Giobbe da parte di Dio il quale
mostrerà al "suo servo" - come è chiamato da Dio stesso alla
fine - al "suo amico" l’inconsistenza di un suo pregiudizio
che, tutto sommato, lo faceva troppo simile ai suoi amici. Certo gli amici
dicevano: "Giobbe è colpa tua"e Giobbe diceva: "No, è
colpa di Dio!"
Però c’è un elemento comune a questi punti di vista così
opposti: il pregiudizio per cui dove c’è sofferenza ci deve essere un
colpevole - in basso o in alto non ha importanza - ma qualcuno ci deve essere.
Dio dirà una cosa veramente fondamentale a Giobbe:
"Tu sei veramente innocente, non ho niente da
rimproverarti, se mai qualche parola di troppo che metteva in discussione il mio
disegno. Ma tu per discolparti devi accusare me? La tua innocenza pretende la
mia condanna?"
E aggiunge: «Va bene, cambiamo posto, vieni tu qui al
mio posto, prova tu a creare e a governare il mondo. Allora io sarò quello che
ti applaudirà e che ti darà la lode.»
Giobbe capisce che la differenza tra sè e Dio è enorme e
che comunque, proprio in nome di questa differenza, si tratta di riconoscere con
un’esperienza faticosa, dolorosa e personale l’autentico senso della
onnipotenza di Dio, come onnipotenza buona, anzi migliore di quanto noi povere
creature possiamo capire.
"Adesso io capisco. Solo adesso - dice Giobbe -
capisco che tu puoi tutto e che nulla ti è impossibile. Ho parlato davvero
malamente, ma adesso mi metto la mano sulla bocca e taccio. Prima ti conoscevo
per sentito dire, ma adesso i miei occhi ti vedono e mi ravvedo, mi pento sopra
polvere e cenere."
E’ magnifico il modo con cui Giobbe riconosce: "Sì,
io prima di te ho avuto venerazione, rispetto, ti trattavo bene, seguivo i tuoi
comandamenti, ma ti conoscevo per sentito dire, non ti conoscevo ancora
direttamente. C’è voluto questo tunnel per poterti riscoprire!"
Dov'è il Padre?
Il Padre sta alla fine di un cammino in cui lo si è
invocato, magari qualche volta maledicendolo, ma nella speranza di poterlo
comunque incontrare, e alla fine di un’esperienza coraggiosa in cui la
pazienza e la riverenza sono state messe da parte.
Ma questo libro ci riserva ancora l’ultimo grande colpo di
scena.
Il Giobbe che ha parlato così audacemente, in modo così
blasfemo e anche eccessivo è il Giobbe che comunque ha parlato bene di Dio.
Nella scena finale Dio si rivolge a Elifaz - il più
importante dei tre amici - e gli dice:
Io sono molto adirato con voi
perchè, prendendo le mie difese, non avete saputo dire cose giuste di me, come
ha saputo fare lui, il mio servo Giobbe. Allora prendete questi vitelli, questi
montoni e andate ad offrirli in olocausto. E Lui, il mio amico, il mio servo
Giobbe, intercederà per voi ed io, per riguardo a lui, non vi punirò.
Giobbe si è pentito sopra polvere e cenere e si è
tappato la bocca con la mano. Quello che gli amici non erano riusciti a fare,
finalmente era riuscito a farlo Dio. Sembrerebbe che, tutto sommato, avessero
ragione loro, invece Dio capovolge tutto inaspettatamente: "Giobbe ha
parlato bene, anche con qualche sproloquio, anche con qualche eccesso, anche con
arditezza, ma lui ha detto cose giuste e rette di me e ha parlato con me!"
Ma allora chiediamoci: "Dov’è il Padre?".
Il Padre non è solo alla fine del tunnel, ma stava già all’inizio,
non solo nella fiducia concessa a Giobbe (Dio non crede alle accuse di Satan).
Egli è già nella sofferenza di Giobbe che lo invoca. Dio è già lì.
E viene istintivamente davanti agli occhi il Venerdì Santo,
la Croce del Signore, il grande grido di Gesù: "Dio mio, Dio mio
perchè mi hai abbandonato?" Dio era lì, ma anche lì taceva e
lasciava parlare Gesù e Gesù non ha chiesto di essere tolto dalla croce, ma
chiedeva come Giobbe un po’ di riconoscimento, una parola che era già
arrivata due volte: al Giordano e alla Trasfigurazione: "Tu sei il mio
figlio prediletto, il figlio tanto amato, in te mi sono compiaciuto".
Ma sulla Croce quella parola non è arrivata e invece è
sgorgata la domanda, il lamento del figlio: "Perchè mi hai
abbandonato?" . Una parola desolata, anche un po’ fredda perchè
Gesù di solito non pregava dicendo "Dio mio ...", ma diceva "Abbà,
Papà mio..." e fino al Getsemani aveva questa invocazione molto calda
in cuore. Ma sulla Croce il Figlio è come costretto a scendere nell’esperienza
più comune di tutti noi - quella in cui è già tanto dire, nel momento
cruciale, "Dio mio...", è già tanto se riusciamo ad avanzare
un "perchè?".
In quel "Perchè? e in quel "Dio mio" si
rivela Dio. Il centurione sotto la Croce, "vedendolo morire in quel modo
dice: Costui veramente era figlio di Dio!". E lo dice non per
una manifestazione miracolosa, ma per la trasparenza di questo abbandono di
Gesù sulla Croce, un abbandono in Dio e anche un abbandono da Dio, una
rivelazione capace di brillare nel massimo dell'oscurità dell'infamia.
Lo stesso è per Giobbe. Dio è presente già nel suo
lamento, già nella sua invocazione se davvero egli può dire di lui "Il
mio servo Giobbe ha detto cose giuste di me".
Il coraggio di saper parlare così con Dio nel momento più
cruciale potrebbe essere davvero un’esperienza-chiave per la nostra Quaresima
e per la nostra Pasqua, tempo prezioso per chiederci: "Dov'è il
Padre?", e per riscoprirci davanti a Lui "Figli nel Figlio".
Allegato I
Per leggere il Libro di Giobbe
Come, dove, quando si
è formato il Libro di Giobbe. Un libro secolare per un personaggio ancora più
antico ed eterno. L'esperienza dell'esilio.
1. Le grandi questioni del Libro:
- può l'uomo servire Dio in modo disinteressato, "per
niente"?
- di che cosa è "segno" la sofferenza, la
sofferenza innocente? Dove c'è sofferenza, c'è sempre colpa, e di chi?
- c'è nel mondo una "giustizia", un senso, un
disegno divino che lo regge?
- come parla (agli altri, a Dio) chi soffre? Come si parla
(di Dio) a chi soffre?
- a che serve soffrire?
2. Prologo della storia (Gb 1-2): Giobbe, il giusto,
prima ricompensato, poi provato da Dio. L'Accusatore (Satan). La prima reazione
del Giobbe "paziente". L'intervento della moglie, poi degli amici -
Elifaz, Zofar, Bíldad – «venuti per consolarlo».
3. La trasformazione del Giobbe "ribelle" (Gb
3-27). Il grande dibattito con gli amici e con Dio, nei tre cicli di discorsi
(4-14; 15-21; 22-27). Gli amici attaccano, Giobbe contrattacca loro e Dio.
Gli amici: «Se soffri, è certo per colpa tua! Chiedi
perdono, convertiti e lui ti farà grazia!».
Giobbe: «Se soffro è colpa sua! lo sono innocente! E
Tu, perché mi infliggi tanta sofferenza? Perché non parli?».
4. Un intermezzo (Gb 28): l'inno alla sapienza
inaccessibile agli uomini.
5. Il giuramento di Giobbe (Gb 29-31).
6. Una quarta voce inattesa: i discorsi di Eliu (Gb
32-37).
7. Finalmente la risposta di Dio (Gb 38-41): una risposta
molto strana. La reazione di Giobbe, che conosce Dio direttamente, non più solo
«per sentito dire» (40, 3-5; 42,2-6).
8. Conclusione (Gb 42, 7-17). La risposta di Dio agli
amici: chi aveva ragione, loro o Giobbe?
9. Qualche messa a fuoco ulteriore: Giobbe e il Servo
sofferente di Is 52-53; Giobbe e Gesù morente (Mc 15, 33-39).
Allegato II
Strumenti e piste di ricerca
sulle domande di Giobbe
e la cultura contemporanea
Commentari
L. Alonso Schökel - J.L. SICRE DIAZ, Giobbe. Commento
teologico e letterario, Borla, Roma 1985. Commentario di grande respiro, con
ottima discussione particolareggiata delle scelte testuali e di traduzione.
G. CERONETTI, Il Libro di Giobbe, Adelphi, Milano 1985
(ed. riveduta rispetto a quella del 1972). Solo traduzione, suggestiva per
l'afflato poetico. Riserve per scelte di traduzione molto personali.
J. EISENBERG - E. WIESEL, Giobbe o il Dio nella tempesta, SEI,
Torino 1989. Commento assai godibile per la singolare forma di intervista a E.
Wiesel: Un punto di vista ebraico "dopo Auschwitz ".
P. PEDRIZZI, Il libro di Giobbe, Marietti,
Torino 1972.
G. RAVASI, Giobbe, Borla, Roma 1979. Commento con
diversi pregi: particolarmente notevole e utile il capitolo su "La
tradizione Giobbe" nella cultura.
ID., Il Libro di Giobbe, Rizzoli BUR, Milano 1989.
Versione più divulgativa, sintetica ed economica rispetto a quella del 1979.
S. VIRGULIN, Giobbe, Paoline, Roma 1980. Commentario
breve, attento al testo.
A. WEISER, Il Libro di Giobbe, Queriniana, Brescia
1975. Commento di un noto e apprezzato esegeta luterano di linea pietista.
Studi
A. BONORA, Il contestatore di Dio, Marietti, Torino
1978. Breve, ben fondato e accessibile.
G. GUTIÈRREZ, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza
dell'innocente. Una riflessione sul Libro di Giobbe, Queriniana, Brescia
1986. Una prospettiva a partire dalla teologia della liberazione.
C.G. JUNG, Risposta a Giobbe, Il Saggiatore, Milano.
Sulla linea dei propri assunti delinea l'evoluzione di Dio nel Libro di Giobbe.
Su questa linea un ulteriore più interessante sviluppo ben
fondato sul testo offre in tre articoli W. VOGELS, Job a parlé correctment.
Une approche structurale du Livre de Job, in «Nouvelle Revue Théologique»
102 (1980) 833-852. The Inner Development of Job. One more look at psychology
and the Book of Job, in «Science et Esprit» XXXV (1983) 227-230; The
Spiritual Growth of Job. A psychological approach of Job, in «Biblical
Theological Bulletin» 11 (1981) 77-80.
J. LEVÊQUE, Job et son Dieu, Tomes I-II, Gabalda,
Paris 1970. Monumentale studio, con ottima base linguistica e documentazione
sullo sfondo del Medio Oriente Antico.
Id., Job, le livre et son message, Cahiers Evangile
53, Paris 1985 (prezioso e agile strumento divulgativo).
Aa. Vv, Giobbe e il silenzio di Dio, in «Concilium»
19 (1983). Monografico con buoni contributi di diversi autori e con diverso
taglio di lettura.
S. NATOLI, L'esperienza del dolore. Le forme del patire
nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986. In una prospettiva
ermeneutica (diagnostica e terapeutica) le due grandi forme del soffrire
"tragico (greco) " e "biblico (cristiano)" intese come forme
alternative e incompatibili. Per un apprezzamento critico cf A. BERTULETTI, Senso
e verità dell'esperienza del dolore in un saggio recente sulle forme storiche
del patire, in «Teologia» XI (1986) 298-303.
Nel volume di C.M. MARTINI, Cattedra dei non credenti. Rusconi,
Milano 1992, gli interventi pregnanti sempre di S. NATOLI, Giobbe, lo
scandalo del dolore, pp. 35-51; Perché il male? Il senso cristiano del
dolore, pp. 69-77, e di P. SEQUERI, Giobbe, l'incontro con il
dolore, pp. 52-68; Perché il male? Il senso cristiano del dolore,
pp. 78-87.
P. NEMO, Giobbe e l'eccesso del male, Città
Nuova, Roma 1981. Lettura di uno dei nouveaux philosophes: l'eccesso
del male denuncia l'assurdo che frattura l'ordine e la legge necessaria delle
cose, e apre inaspettatamente sul mistero della trascendenza.

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