QUALE BELLEZZA SALVERA’ IL MONDO?
Pierangelo Sequeri (*)


Sorpresa e affetto: un ingresso "brahmsiano"
La bellezza perduta
L'incanto perduto del Cristianesimo
La cosmesi del Cristianesimo
La bellezza ritrovata
Uno splendore che genera forza
L'amabilità
L'armonia necessaria


Sorpresa e affetto:
un ingresso "brahmsiano"

Grazie per questa sorpresa! Abbiamo appena ascoltato da don Carlo Seno un brano di Johannes Brahms (1833-1897, Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98, I° movimento: Allegro non troppo, scritta nel 1885) al quale sono molto affezionato, di un autore al quale sono molto affezionato e del quale non ho soltanto stima. Ho stima e grandissima ammirazione per Mozart e per Beethoven, ma a Brahms sono affezionato: c’è qualcosa di diverso. Ognuno ha i suoi affetti ... Quando Brahms scrive questa sinfonia ha raggiunto le sue certezze negative. La musica è capace di elaborare il dolore: ci consente di evitarne il racconto, eppure riesce a farlo sentire ad altri. Così noi, mentre musichiamo il dolore e lo cantiamo, possiamo non morirne, mentre nello stesso tempo gli altri, attraverso la musica, possono partecipare, senza però essere invasi dal racconto dei nostri mali, sentendo soltanto l’eco dolente e le ferite che abbiamo subito, ma anche l’eco incantevole degli affetti che in queste ferite erano racchiusi. Questo brano inizia così: sinfonia senza introduzione. Comincia subito in argomento. Se qualcuno di voi ha provato a cantare in Quaresima "Noi ti preghiamo, Uomo della croce" (Sequeri – Rossi, 1981) si accorgerà che è indubbiamente una citazione affettuosa, voluta. Questo per altro è un modulo armonico, un tipo di progressione ben nota che esiste fin dai tempi di Corelli, è una modulazione, una progressione, una sequenza di accordi tra le più abitabili, una di quelle che formano il grembo della nostra civiltà musicale e nelle quali, difatti, tutti si sentono immediatamente a proprio agio.

Quando Brahms scrive questa sinfonia ha conseguito la certezza che Vienna non lo amerà. Avrebbe fatto qualunque cosa per essere amato da Vienna, città alla quale ha cercato di dare il meglio di sé e che avrebbe desiderato nobilitare con la sua musica. Non solo sarebbe stato onorato dal riconoscimento, ma ne sarebbe stato appagato affettivamente, perché Brahms ha rinunciato a molto per la musica. Ma Vienna preferisce i valzer leggeri e danzanti delle ore del divertimento, cose che Brahms non disprezzava affatto: quella specie di tango che avete sentito e che è il secondo tema è come un impeto di orgoglio, quasi a voler dire: "Anch’io so scrivere musica che danza e ti potrei offrire, Vienna, una musica un po’ più elegante, una danza leggera verso un territorio felice e sconosciuto…". Se vorrete ascoltare tutta questa sinfonia scoprirete l’amarezza di Brahms che, finalmente, giocherà a carte un po’ più scoperte nell’ultimo movimento, molto lancinante, pieno di suoni acuti, quasi un po’ disperati, come tutte le ferite lanciate al cielo; e in sottofondo un basso ostinato che ricorda una antica danza, la "passacaglia", che è diventato uno strumento di composizione, un basso ostinato sul quale si producono infinite variazioni, ma che ti tiene ancorato alla ripetizione della sua gravità e della sua pesantezza. Ad un certo punto risuona come fossero colpi di maglio.

Brahms ha conseguito poi un’altra certezza: non avrà mai una famiglia sua. Già la sua famiglia d’origine era "in prestito", era la famiglia degli Schumann che l’ha teneramente ospitato e di cui ha vissuto le pagine felici e i drammi.

Brahms infine consegna a questa sinfonia un’ultima certezza: non accadrà più - e fu profeta - che la musica, e con essa un’intera civiltà, possa trovarsi a suo agio nell’imparare a trar fuori dal tesoro delle esperienze passate, per sé ma soprattutto per i figli che devono venire, cose vecchie e cose nuove e tutto il buono che può venire dall’incontro fra i tesori migliori della tradizione e le invenzioni del nuovo. Brahms rappresenta l’ultimo momento nel quale il romanticismo non perde la testa e la forma, diventando, come noi lo viviamo adesso, una specie di sguaiata esibizione di sentimenti indecentemente manifestati senza alcuna eleganza. Non succederà più che la tradizione, la grande forma della musica, riesca ad ospitare la tenerezza di sentimenti profondi, di affetti penetranti, senza perdere forma, mantenendo tutta la sua eleganza, il suo decoro, come ha da essere quando si comunica. Perché quando si vuole comunicare non ci si può sfogare soltanto, si deve saper dare una forma amichevole, affettuosa, non invadente alla propria comunicazione. Brahms è l’ultimo a saper fare questo. Lui sa che nessuno vuole più ereditare questo compito faticoso. Così quando i due aspetti si separeranno, la cura per la forma diventerà formalismo, espressione scolastica, compito, ripetizione, conformismo, semplice galateo, non ci sarà più la bellezza, non più l’estetica. Nella musica come nella vita le forme senza sentimenti, senza affetti, senza ciò che fa vibrare l’anima, diventano semplici calcoli, semplici conformismi, semplici abitudini. Così i sentimenti e gli affetti senza le forme incominceranno una loro strada autonoma, diventeranno semplici emozioni o addirittura sgangherate forme di sfogo individuale e di eccitazione collettiva. Si avrà più la percezione di una specie di sfogo, immediato, apparentemente eccitante, ma in realtà anche molto disperato, che non ha più una forma nella quale dare bellezza e comunicazione. Così anche una relazione bella, una relazione affettuosa, il gioco, il divertimento, la letizia dello stare insieme festeggiando non avranno più la capacità di generare frutti.

Noi, diversamente da Brahms, speriamo di non avere certezze negative, ma tuttavia da questo ingresso brahmsiano, sul quale ho voluto indugiare per onorare il vostro pensiero affettuoso che mi tocca personalmente, possiamo trarre uno spunto per incominciare la nostra conversazione.

La bellezza perduta

Indubbiamente la bellezza è una faccenda difficile. Lo diceva già Platone, grande filosofo dello spirito, che un po’ è stato maestro anche dei primi teologi cristiani: non lasciatevi ingannare dalle apparenze.

Brahms che era molto schivo, molto timido, facilmente feribile e che come tutti i timidi, i delicati appariva a volte burbero e scostante, ha scritto in una lettera ad un amico: "Tutte le volte che devo comporre mi sento un po’ come Gesù nell’orto degli ulivi, capisco che devo patire qualcosa per arrivare a capire esattamente che cosa la musica vuole da me". Più o meno come Gesù nell’orto degli ulivi, prima di andare in croce, dovette patire qualcosa per capire esattamente che cosa Dio Padre voleva da lui.

Credo che il primo invito che ci viene dall’intenzione dell’Arcivescovo che ci assegna un po’ stranamente, come tema pastorale, come tema di riflessione cristiana, il tema della bellezza, sia proprio questo: accettare umilmente di confrontarci con questo argomento, portarci al di là dei luoghi comuni, apprezzarne la complessità e fare qualche sforzo per riconoscerla, anzitutto.

Può darsi che le apparenze dicano il contrario, ma nella realtà le questioni che riguardano la bellezza nell’esperienza dell’uomo sono questioni importanti, abbastanza vitali e che non hanno niente a che fare con la frivolezza. Spero di riuscire a darvi qualche buon suggerimento per entrare in questa consapevolezza e riaffezionarvi così all’importanza di questa frequentazione.

La prima osservazione introduttiva è questa: nel costume, nella forma abituale del cristianesimo occidentale moderno, e anche nella nostra abitudine, c’è un eludere, uno svicolare dall’importanza di questo tema, suggerendo che riguardi semplicemente l’arte. Per il resto riteniamo la bellezza un tema un po’ frivolo: è il tema dei concorsi di bellezza, è il tema della cosmesi, è il tema della moda. Non sono osservazioni sbagliate, ma in realtà avere congelato questo tema su queste due idee - da una parte l’arte e dall’altra la bellezza intesa come superficiale, non importante per la vita vera - credo ci abbia reso insensibili a due fatti.

L’incanto perduto del cristianesimo

Il primo: lo stile cristiano, sotto questo profilo, appare mediocre, indipendentemente dalla nostra buona volontà. Il tratto che qualifica il cristianesimo in occidente è un po’ goffo, comunica più facilmente l’immagine di una "praticaccia", di una confidenza di basso profilo, un po’ grossolana, comunica l’idea del collo torto e dell’occhio un po’ obliquo. Ma noi siamo così? No, non siamo così eppure il cristianesimo appare così. Ci sarà una ragione. Si riesce a comunicare molto, eccetto che una qualche impronta di stile, anche di stile spirituale. La spiritualità cristiana non consiste semplicemente nel vestirsi molto di nero, con vestiti molto lunghi, nel tenere molto bassa la testa e nello stare soprattutto tra casa e chiesa. Noi forse non siamo così, ma certo lo stile capace di affezionare a quel qualcosa di luminoso, di snello, di elegante, di acuto, persino con quel pizzico di ironia che hanno le grandi figure bibliche dei credenti come Giobbe, Qoelet, Mosè, Gesù ... questo stile ci manca.

Perché mai? C’è qualcosa di folgorante in un felice incontro con Dio che non è capace di mostrarsi. C’è qualche cosa di intrigante, di segreto, come una musica alla quale devi andare dietro per scoprirne la profondità e l’eleganza, che non riesce a manifestarsi. E c’è un’abitudine a cercare la rendita, la resa, l’efficienza del cristianesimo: quanti siamo, quanto abbiamo raccolto, quanti sono venuti, quanto è stato importante … che finisce per soffocare un po’ lo spirito danzante dei legami, che comunque dovrebbero mettere lievità tra noi, che fossimo due, venti, duecento, duecentomila.

E questa eleganza dovrebbe essere come una musica che chi è fuori sente, una musica non solo da intrattenimento, o per festeggiare e stordirsi, ma la musica di rapporti che hanno guadagnato una certa leggerezza nel muoversi, nonostante la fatica della vita e tutti i problemi dei quali ci si deve occupare.

Dovrebbe vedersi un incanto in coloro che pregano, un’intensità nel loro sguardo, non il vuoto di chi ha perso tutti i treni e perciò aspetta Dio: noi non aspettiamo Dio perché abbiamo perso tutti i treni …

L’idea invece che il cristianesimo su tutto debba avere una ragione, che tutto debba servire per la causa, che tutto sia evangelizzazione, testimonianza, impegno - tutte cose buone… - porta di fatto a una impressione di grevità. Si comunica una fede non come un incontro felice, un legame. La fede invece è una relazione riuscita con Dio, che si prende la forma di tutte le altre, quelle che a Brahms sono state negate. La fede è una relazione riuscita, prima di essere un’adesione alla causa.
E quando il tuo bambino, dice il racconto dell’antica epopea della Terra promessa, ti domanderà: "Babbo, perché mai dobbiamo mettere le candele, stare in piedi, vestirci così, mangiare queste cose amare?" Tu risponderai (invece di non rispondere, come sembra esserci scritto tra le righe, perché questo è la religione: bellezza): "Figlio, perché una volta i tuoi genitori e prima di loro i tuoi nonni, e prima di loro i tuoi bisnonni, non erano nessuno, nessuno li voleva, nessuno offriva loro una terra, nessuno dava loro una casa. Si dovevano crescere i bambini in viaggio, non avevano certo una tavola come ce l’abbiamo noi adesso per celebrare lietamente la festa del ringraziamento. E in quel momento, quando non eravamo nessuno, e tutti gli altri erano più bravi, più forti e più organizzati e ci disprezzavano, Dio invece si è preso cura di noi. Per Lui abbiamo capito, non mi chiedere bene come perché non lo so, ma ho imparato dai miei vecchi, che per Lui eravamo qualcuno e quando pensavamo a questo ci si drizzava la testa, non andavamo in giro mendicando con la nostra piccola arca sulle spalle, quasi strisciando per i muri. Ci sembrava di essere quasi più belli, quando pensavamo che per Lui eravamo belli. Poi finalmente una terra l’abbiamo trovata, una casa l’abbiamo trovata, possiamo crescere dei figli in un posto decente e metterci l’abito della festa e festeggiare anche noi ... Perciò, figlio, se il Signore attraverso l’antica tradizione dei nostri Padri ci avesse comandato di camminare sulle mani, noi oggi cammineremmo sulle mani, perché Lui ci ha dato fiducia, ci ha fatto sentire che eravamo importanti, siamo diventati qualcuno e quando pensavamo a Lui ci sentivamo qualcuno. Ora, quello che Lui ci dice noi siamo pronti a farlo, perché non ci arrivò prima il comandamento e poi la bellezza di questo rapporto, ma prima la bellezza di questo rapporto e poi il comandamento. E così non ci pesa, come tutti i comandamenti che sono preceduti dalla bellezza di un rapporto affidabile, che rende lieve il comandamento".

 
La cosmesi del Cristianesimo

L’alternativa, perché c’è una alternativa, che dobbiamo evitare, è sempre simile alle alternative che circolano nel costume di vita - i difetti del cristianesimo non sono mai semplicemente difetti del cristianesimo, ma sono i difetti degli esseri umani che non sempre sono all’altezza delle cose belle che loro accadono - è quella di forzare questa situazione attraverso la cosmesi, l’imbellettamento, il far apparire il cristianesimo bello, a tutti i costi.

C’è un sorriso, quello professionale degli intrattenitori, che qualche volta anche noi sacerdoti ci sforziamo di assumere, sempre pronti all’accoglienza … C’è un’enfasi della parola che dice della bellezza di Dio quando siamo intervistati in televisione, che ci fa dire che abbiamo scelto il meglio, proprio come si fa con i prodotti … Invece di scegliere le cose del mondo, abbiamo scelto Dio, come se invece di prendere marito o moglie avessimo preso Dio: mi sembra offensivo e inelegante per entrambi, anche perché chi prende marito o moglie deve necessariamente abbandonare Dio? Mi sembra non renda giustizia di quanto accade a un uomo, a una donna che percepiscono da Dio la richiesta di vivere in deroga al comandamento della creazione. È sì elegante e coraggioso ma c’è qualcosa di terribile in questo e la sua bellezza sta proprio in questo. Sarebbe bello se si potesse comunicare che cosa succede e come diventa bellezza di Dio obbedire ad un comando che chiede a te, non in generale, ma proprio a te, in deroga al comandamento della creazione, di stare da solo, dentro l’amore di Dio che invece è inderogabile per chiunque. Sono cose che avvengono dentro l’amore di Dio che deve essere tale per tutti, un amore che non ha alternativa se non dentro l’amore stesso di Dio.

C’è una qualità troppo leggera della bellezza che "arreda" il cristianesimo, più detta e rappresentata quasi come un dovere: si parla di Dio e si sente per dovere di raccontarlo con un sorriso di rappresentanza.

E c’è dall’altra parte un’avarizia nella ricerca della bellezza del cristianesimo: non ci si impegna abbastanza nell’onorare la bellezza di ciò che si è ricevuto in dono da Dio.

La spiegazione della felicità del cristianesimo è troppo rapida per essere autentica e, senza volerlo, diventa troppo falsa.

Si fatica infatti a trovare tracce reali nel modo con cui i cristiani si vogliono bene, pregano, fanno i sacerdoti, accudiscono alla comunità, di questa facile, troppo facile bellezza del cristianesimo raccontata nei momenti di esposizione.

Non c’è bellezza in questo cristianesimo dalla bellezza facile.

Dov’è allora la bellezza che tiene, la bellezza che salva?

Si deve mostrare di aver attraversato col ferro e col fuoco le forze della vita e anche le potenze che si oppongono a essa. Solo allora la bellezza del cristianesimo risplenderà di autenticità e forse potrà essere ritrovata, anche quando si spengono i riflettori della propaganda.

 
La bellezza ritrovata

Vi illustrerò adesso tre caratteristiche che la forma della bellezza impegnativa, il concetto della bellezza profonda, ha accumulato nella sapienza antica che viene fino a noi e che ha generato la nostra civiltà, che intercetta e deve di nuovo intercettare la parola biblica. Una Parola che ha un suo modo molto originale, molto speciale, molto profondo di interpretare la bellezza.

Sono caratteristiche della bellezza seria - il che non significa non fascinosa - che possiede una profondità spirituale che la ricollega ultimamente al divino, anche nella tradizione dell’antica civiltà greca dalla quale noi veniamo.

 
Uno splendore che genera forza

Il primo tratto di questa tradizione della bellezza non frivola, non superficiale, non puramente eccitante, è il tratto dello splendore che genera forza, capace di sostenere il legame con ciò che è degno dell’uomo in qualsiasi forma, di qualsiasi cosa si tratti, rapporti, opere, modi di vita.

Uno splendore, cioè, che non produce semplicemente un incantamento, che non ha a che fare semplicemente con una visione del bello, con l’apparire bello di qualche cosa, ma uno splendore della bellezza autentica che ha la forza di confermare i nostri legami, i nostri affetti, il nostro attaccamento per ciò che è degno di ammirazione, degno di onore, di rispetto, di amore, di lealtà, persino di sacrificio.

C’è una bellezza nel gesto della madre che si mette tra il pericolo e il suo bimbo: lì non c’è semplicemente una forma estetica, un’apparenza bella, ma uno splendore che ci lascia esterrefatti perché è qualcosa che ci comunica la forza che c’è dentro i legami degni dell’uomo e che appaiono degni di ammirazione, di affetto, di commozione.

Nel mondo extrabiblico - Nell’universo extra biblico e precristiano questa figura antichissima dello splendore è più vicina all’eroe di Omero, al cavaliere medioevale, che non alla sacra rappresentazione dello splendore degli ori e del cielo e delle nuvole. Splendido è il cavaliere che protegge i deboli, valoroso in battaglia, che mantiene a tutti i costi la parola data, leale con gli amici e con i nemici, capace di compassione quanto è capace di forza, in grado di resistere al male con la stessa tenacia con la quale è in grado di proteggere una creatura piccola e, apparentemente, non meritevole di uno speciale apprezzamento.

Nell’Antico Testamento - Il Dio della Bibbia, della grande epopea della storia della salvezza, il Dio dei profeti ha questo splendore, non quello della forma bella che incanta per incantare, ma quello di uno splendore che scende nel campo delle relazioni e ci lascia ammirati per il modo con cui esprime attaccamento, e ce lo fa sembrare bellissimo, per cose degne dell’uomo, perché scende sul campo della terra per liberare i suoi figli dalla schiavitù, per dare una casa a chi non ce l’ha, per tuonare attraverso la voce dei profeti contro quelli che persino della religione fanno uno strumento di ricatto. E noi rimaniamo ammirati dalla bellezza, dallo splendore di questa forza che emana dalla figura di Dio che stringe questi legami.

In Gesù di Nazareth - In Gesù questo splendore è al massimo grado. E’ lo splendore bellissimo di Gesù quando si mette in mezzo fra gli uomini religiosi, devoti, saggi, conoscitori delle Scritture e il samaritano, il lebbroso, la donna con una "malattia teologica" un po’ ambigua. Permettetemi una digressione su quest’ultima: l’essere donna è una prima disgrazia, l’avere una malattia un po’ teologica è una seconda disgrazia, l’aver toccato l’uomo di Dio alle spalle è la terza … siamo quasi alla lapidazione. Dopo essersi sentito toccare Gesù si gira, bellissimo e maestoso come un cavaliere antico, e chiede: Chi mi ha toccato? E la bellezza è scoprire Gesù che dice: Bene donna, adesso che so chi sei, questo avevo da dirti: la tua fede, che si è lasciata attrarre dalla forza, dallo splendore delle parole e dei gesti che io vado dicendo e facendo, la tua fede, che ha realizzato questo attaccamento, ti ha salvata.

Questa bellezza inedita non è la bellezza della divinità che arriva in un cielo di incensi, puro splendore, pura forza. La sua bellezza sta in questo: la sua grandiosità è collegata ad alcuni affetti, ad alcuni legami che per noi sono questione di vita e di morte.

Nel fatto che un essere umano possa sperare in qualche cosa, che possa chiedere a Dio di proteggere il proprio figlio, anche se figlio di un samaritano, noi vediamo qualche cosa di grandioso: ecco la maestà!

Ecco la prima forma dello splendore. C’è un vigore bello, una forza virtuosa, che è tuttavia capace di incanto. Un incanto che va restituito e che è la prima parola dell’evangelizzazione. E’ la rivelazione di Dio.

"Che cosa dobbiamo dire a Giovanni?" "Andate da Giovanni e ditegli: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono consolati". Quando uno vede questo resta incantato dalla bellezza di Dio.

Questo dovrebbe essere il "costume" di base, la figura, la forma di una comunità cristiana, dove tutti diventiamo belli e possiamo diventare belli in modo da onorare Dio, assumendo precisamente i tratti di questo splendore: lo splendore del legame degno di essere onorato, che avviene in una forma che incanta proprio perché non ci si aspetterebbe che tanto splendore, che di solito circonda oggetti preziosi e di grande valore, possa irradiarsi in relazioni apparentemente così piccole e semplici.

Questa prima figura è, tradizionalmente, la figura del tratto maschile della bellezza. È lo splendore che irradia la forza di legami degni dell’uomo e che ci incantano.

L’amabilità

La seconda figura della bellezza è più femminile. Qui la bellezza fa venire al mondo un tratto, un aspetto della vita, che altrimenti non nascerebbe mai. C’è solo se appare nella forma della bellezza, perché non si può comprare, non si può fabbricare, non si può inventare, non si può costruire, non si può clonare.

E’ l’amabilità dei legami degni dell’uomo: non semplicemente il piacere o la capacità di procurare piacere, nemmeno la capacità di suscitare il dovere, il senso di responsabilità nei confronti di ciò che deve essere amato.

Amabile è ciò che né la legge né il comandamento possono produrre. Il piacere, l’eccitazione, la soddisfazione che si trae o si spera di trarre dalla legge, dal comandamento possono essere motivo dell’agire, ma non porteranno a quell’esperienza che non ha altro nome se non quello della bellezza, quello dell’amabilità.

Amabile è ciò che è capace di persuadere la libertà di qualcuno ad apprezzarlo proprio perché è bello, non perché è comandato, non perché è utile, non perché è una sorgente di godimento, ma perché c’è una sua amabilità che, coltivata, dà un senso di finezza, di profondità, e di preziosità ad un legame che altrimenti non l’avrebbe. Può essere un legame molto forte, molto profondo, oppure anche un legame semplice ed occasionale, in cui però la bellezza sta in questa amabilità, nella sua gratuità e nel valore profondo che ha, a dispetto, anzi grazie al fatto che in esso è quasi scomparsa ogni traccia di vantaggio, come anche ogni traccia di obbligo.

Quando accadono esperienze di questo genere, noi tutti sappiamo di aver avuto un incontro bello, un rapporto bello, una esperienza felice e c’è solo la bellezza per dirlo, per riconoscerlo, per farne capire la qualità.

Rispetto al Vangelo, questo è lo sbaglio: credere che sia anzitutto comandamento e quel che resta va abbellito.

Sta proprio qui l’errore: pensare all’abbellimento senza rendersi conto della forza persuasiva e della capacità di rendersi amabili da sé che si sprigiona da certi preziosi legami, come quello con Dio. Dio esige di non essere subito, desidera essere amato, desidera essere desiderato … E’ questa la bellezza dell’Evangelo!

E questo è quello che dovrebbe capitare: venire all’Evangelo non con la percezione di un ricatto, ma attratti, esterrefatti per la forza, la grandiosità, la bellezza, lo splendore di un legame, bellissimo e tremendo, con Dio che come un cavaliere ti afferra e si prende cura di te. Senza chiedere nulla in cambio.

Nel Cristianesimo non si casca come in qualche piano inclinato, come in una trappola … c’è una bellezza che lo rende amabile, c’è una forza che si sprigiona che ti fa sentire degno, fiero e, come in uno specchio, fa sentire anche tu bello, non più a collo torto.

Se percepito così il Cristianesimo ridiventerà bello come duemila anni fa.

Nelle Scritture è declinata questa figura femminile della bellezza: basta pensare al Cantico dei Cantici, alle profezie, alla Genesi.

Ricordo qui Ezechiele, quel mirabile capitolo 16. Così dice Dio: sono passato per strada, ti ho vista. Eri un grumetto di sangue, col cordone ombelicale ancora arrotolato, che dice la fretta con cui ti hanno scaricata. Ti ho presa, ti ho pulita, lavata, ti ho coperta col mio mantello. Ti ho portata a casa, ti ho riscaldata, ti ho nutrita. Poi sei cresciuta e sei diventata ogni giorno più bella, bellissima. Ti ho dato tutto quello che avevo e tu stavi con tutti, eccetto che con me …

Quanta tenerezza raccontata dalla bocca del profeta! Se si pensa poi che Dio Padre era immaginato come un maschio e i maschi - si sa - non sono tanto pratici in tutto questo …

E ricordo la Genesi. Comincia già qui il tratto femminile della bellezza di Dio, in quel dimenticato versetto 21 del capitolo 3: "Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì". Ad Adamo ed Eva, peccatori, che giocavano nello scaricarsi le colpe, a loro che neppure erano capaci di vestirsi, Dio cuce delle tuniche di pelle. Tratto femminile dell’amabilità, che da solo è un Evangelo.

Il simbolo di questa figura della bellezza è femminile. C’è una sapienza iscritta da Dio nel femminile, che spontaneamente rende facile il prendersi cura di questo tratto della bellezza. C’è una speciale idoneità del femminile ad essere esperto nel rendersi amabile. Naturalmente sul filo del simbolo, perché poi ciascun essere umano deve imparare sia il primo che il secondo tratto della bellezza.

L’armonia necessaria

Infine ecco il tratto profondo della bellezza associato alla forma della proporzione, dell’armonia, insomma dei buoni legami nei quali si vede la necessità delle parti: l’impressione, l’incanto è che ognuna è dove dovrebbe essere, sia le grandi, apparentemente più vistose e importanti, sia le più piccole. Ciò che conta è l’insieme - metafora usatissima nelle lettere apostoliche per dire il modello della comunità cristiana - non fatto di uguali, ma dove ciò che colpisce è il legame. Come nella grande polifonia della nostra storia di occidente dove molte voci, pur cantando insieme con il loro profilo, non si confondono come capita quando parliamo: la musica ha questo incanto, è l’unico strumento attraverso il quale possiamo parlare tutti insieme dicendo cose diverse senza confonderci, ma creando una armonia che fa risuonare ancora più profondamente il senso delle parole.

Elementi apparentemente eterogenei, apparentemente diversi, che forse non avremmo combinato insieme, dove non si sa bene se sono le parti piccole che reggono le grosse o viceversa, formano un disegno forte e incantevole, un legame: ecco la bellezza che ci incanta.

Quest’ultima figura è propria di quella dimensione della bellezza nella quale non soltanto il maschile e il femminile, ma ogni parte trova il suo legame. L’incanto è nel capire come stiano insieme. Come nelle opere d’arte dove si vede il colpo di genio che sa "mettere insieme" e comunicare la potenza dell’insieme.

C’è una sfida simile nei legami fra i credenti di cui parlano tutto l’Antico e il Nuovo Testamento. Qui si esprime effettivamente una bellezza che fa la storia, che rende abitabile la terra e non solo frequentabili le chiese, perché la bellezza di questo legame incantevole, in cui ognuno è necessario, una volta percepita, anche una sola volta, è percepita per sempre.

Se crescendo un ragazzo ha la fortuna di vederla una volta, non se la dimenticherà mai più, perché se c’è una cosa a cui noi esseri umani aspiriamo è proprio questa. Non di essere l’uno come l’altro, o l’uno a differenza dell’altro. Questo è ciò che desideriamo quando fallisce il legame che invece desidereremmo. Ciò a cui aspiriamo e che, pur sembrandoci un miracolo, a volte nella vita effettivamente facciamo, è l’esperienza dell’incanto di legami che ci appaiono come una necessità, una scommessa vinta, come qualcosa nella quale ci sembra di abitare da sempre. E’ esperienza che non si dimentica più, esperienza che dobbiamo augurarci di essere capaci di restituire alla sua eleganza e alla sua trasparenza, proprio vivendo insieme come credenti.


(*) La relazione è stata ripresa dalla registrazione e non rivista dall’autore.

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