GIUSEPPE PONTIGGIA
FEDE: FUGA O CONQUISTA?
Vi ho sollevato su ali d'aquila (Es 19,4)
La verità in gioco
Cambiare gli occhi
Dalla normalità all'unicità
L'occhio solidale
Mistero del bene: il volontariato
La fede non è fuga ma conquista
L'introduzione di don Mirko Bellora
Tutto è nato da un libro: il romanzo "Nati
due volte". Questo libro mi ha folgorato e ha fatto nascere in me
un desiderio forte e intenso di incontrare il prof. Giuseppe
Pontiggia, sognato e cercato come una miniera di sapienza, e di
farlo conoscere alla mia parrocchia.
Ho trovato poi un articolo del professore sul Sole
24 ore del 4.2.2001 dove stava scritto:
Hanno chiesto a due nani gemelli, divenuti manager
tra i più importanti degli Stati Uniti, qual è il
segreto della loro ascesa. "Pensare in grande", hanno risposto.
Che per due nani deve comportare qualche invenzione
ulteriore.
La tendenza comune è infatti di pensare in
piccolo, atteggiamento che viene considerato prudenziale.
Nani che pensano in grande! Che bello! Ma proprio questo
è uno dei contenuti più forti che volevo fossero
presenti nel mio slogan per l'anno 2001-2002 "Su ali
d'aquila".
Pontiggia mi sono detto è l'uomo giusto al
momento giusto. Così l'ho chiamato.
Ma perché questo titolo: "Fede: fuga o conquista?"
Perché c'è nel romanzo "Nati due volte" un capitolo
splendido dal titolo "Preghiere" che mi ha colpito e scolpito -
l'ho riletto, penso, una decina di volte.
Lì c'è questa frase formidabile: "La fede non
è una fuga ma una conquista".
Una frase, una pagina potente che ha fatto riaffiorare alla mia
memoria un'altra pagina altrettanto potente e scomoda - letta,
riletta e mai dimenticata - di Oriana Fallaci nel suo libro
"Lettera a un bambino mai nato", dove sta scritto:
Tuo padre mi ha scritto di nuovo.
L'invidia verso coloro che credono in Dio mi ha talmente
assalito in questi ultimi mesi da diventar tentazione, ed ho
ceduto alla tentazione. Lo riconosco ammettendo la mia
stanchezza. Dio è un punto esclamativo con cui si
incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che
è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da
sé. Tu non sei stanca perché sei l'apoteosi del
dubbio. Dio è per te un punto interrogativo, anzi il primo
punto interrogativo di infiniti punti interrogativi.
Fede: punto interrogativo o punto esclamativo? Fede: fuga o
conquista? Il professor Pontiggia ha scritto: "La fede non
è una fuga ma una conquista".
Attendo su questa frase, su questo capitolo, su questo romanzo,
sulla vita, attendo "avec gourmandise", con ingordigia le sue
splendide riflessioni.
*****
La verità in gioco
Sono grato a don Mirko e anche un po' imbarazzato:
mi ha sognato e cercato come una miniera di sapienza
Se
potessi attingere alla miniera della sapienza vorrei rendere
più equilibrato il mio comportamento che nella vita, come
traspare anche nel romanzo, è forse solo lucido
intellettualmente. Mi rendo conto dei miei comportamenti
squilibrati, persino patologici, nello stesso momento in cui li
vivo. Ho anche costituito per qualche psichiatra un caso un po'
singolare perché mi rendo conto, mentre lo faccio, di fare
qualche cosa di strano. Mi rendo conto degli aspetti comici,
anche in momenti drammatici e mi accorgo di viverli quasi
simultaneamente, contemporaneamente. L'equilibrio è una
finalità che perseguo anche scrivendo, passando nel corso
della stessa pagina dal registro drammatico al registro
satirico-ironico e addirittura a quello comico. L'ho fatto
perché ho cercato di fare soprattutto un romanzo
possibilmente bello, possibilmente forte, possibilmente vero.
Pensavo che una delle modalità che mi potevano consentire
di realizzare questo obiettivo poteva essere proprio quella di
una visione caleidoscopica, non una sola dimensione drammatica,
angosciata, oppure ironica, satirica, ottimistica, ma l'insieme,
la mescolanza, la contemporaneità, la
simultaneità.
Volevo fare un romanzo, un romanzo forte su un tema importante.
Scrivendo mi sono reso conto che, se fossi arrivato radicalmente
alla verità, avrei fatto una cosa utile per il lettore. Ho
anche notato che quando ci si impegna sulla verità, si
supera il gioco delle parti. Man mano che facevo il libro, lo
leggevo a mia moglie e a mio figlio: ci sono dei passaggi duri,
complicati, tormentati. Non volevo assolutamente fare una
autobiografia, però l'intreccio con la vita è molto
forte, così ho potuto notare che quando è in gioco
la verità, quando lo scrittore si impegna ad andare in
fondo alla verità, la verità umana, questo fa
superare anche alle persone che sono coinvolte il gioco delle
parti, la preoccupazione in sé.
Sfoglierò con voi il mio romanzo "Nati due volte"1e ne
commenterò alcune pagine.
Cambiare gli occhi
Quando mi sono liberato dall'idea di fare un
racconto autobiografico ho capito che potevo raccontare una
storia. Non come storia di una sofferenza, ma come una storia di
maturazione, allora ho immaginato il primo capitolo del libro che
avviene nel luogo più avverso della disabilità: le
scale mobili. E' stata la chiave liberatoria che mi ha aperto
l'accesso al romanzo. L'importante è cambiare gli occhi
con cui si guarda un'esperienza. Inizialmente avevo vissuto
l'esperienza dell'handicap in maniera negativa, come qualcosa di
inaccettabile. Poi ho cambiato sguardo il cambiamento di
sguardo è davvero importante in un'esperienza e le
cose mi sono apparse in una luce diversa.
Scale mobili
La scala mobile sale al terzo piano tra scale che
discendono, gradini che spariscono in alto tra le luci, pavimenti
che si allontanano ai due lati, la folla che circola lentamente
nel brusio.
«Ti piace?» gli chiedo in un orecchio, alle
spalle.
«Sì» risponde senza voltarsi.
Aggrappato con la sinistra al corrimano di gomma, si lascia
cadere indietro, sentendo che ho le braccia aperte.
Sto curvo in avanti per sorreggerlo. Quando arriviamo in cima e
i gradini di ferro scompaiono nella feritoia, si arrovescia con
le spalle.
«Non aver paura!» gli dico, sollevandolo a fatica
perché non inciampi.
Si posa, con le gambe rigide, i piedi tesi, sulla moquette oltre
la piastra metallica. Riesce a non cadere. Cammina. Mi guardo
intorno, asciugandomi la fronte con il palmo della destra. Una
signora ci guarda accigliata vicino a un ombrellone giallo,
piantato in un rettangolo di sabbia che simula una spiaggia.
Anch'io la guardo, sono stanco delle persone che ci guardano. Ma
ecco che lancia un grido, portandosi la mano alla bocca, mentre
si sente un tonfo pesante. Paolo è caduto su un fianco e
ora, troppo tardi, si volta sul dorso, come gli è stato
insegnato. Ha il viso contratto dal dolore, le palme inutilmente
aperte sul pavimento.
«Ti sei fatto male?» gli sussurro, piegandomi su di
lui.
Mi fa segno di no.
Lo aiuto a rialzarsi, puntandogli i piedi contro i miei e
tirandolo per le braccia.
Una piccola folla, occhi di curiosità sgomenta, ha fatto
il vuoto intorno a noi e si ritrae per lasciarci passare.
«Non è niente» dico.
Lo sorreggo per alcuni passi.
«Va meglio?»
«Sì»
Gli indico, tra le piccole palme dentro vasi di argilla, un bar
riparato da un tetto spiovente di canne, contro un mare blu di
cartone.
«Vuoi che beviamo qualcosa?»
«Sì»
Ci sediamo a un tavolo di legno greggio, su panche rustiche.
Vicino a noi un padiglione a forma di enorme squalo spalanca le
fauci per racchiudere articoli di pesca. Guardo i suoi denti
aguzzi che ci sovrastano in alto.
Sono stremato e infelice.
Gli chiedo:
« Vuoi una coca-cola?»
«Sì»
Gli reggo il bicchiere mentre beve.
Quando ci rialziamo, gli dico:
«Cammina bene. Sta' attento.»
Lui procede ondeggiando come un marinaio ubriaco. No, come uno
spastico.
Si volta per dirmi con la sua voce stentata:
«Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non
preoccuparti per me.»
Dalla normalità all'unicità
La fotografia
"Fermo così!" gli intimo, mentre si volta,
le braccia tese, aggrappato all'asta dell'ombrellone, i piedi
immersi nella sabbia, il corpo diagonale che forma una ipotenusa.
Ma già la bocca si contrae, il sorriso è diventato
una smorfia. Cade all'indietro a palme aperte, mentre premo il
pulsante fuori tempo.
c"Ricominciamo" gli dico.
Lo rovescio bocconi nella sabbia e gliela cospargo
sulla schiena fino a sommergerlo, come la nostra vicina di
sdraio, una ottantenne raggrinzita dall'età e dai raggi
ultravioletti. E' convinta che il sole sia la fonte della salute
e che quanto più le penetrerà nella carne
avvizzita, tanto più sarà prossima
all'immortalità. Morirà l'anno dopo, come una
scolopendra fulminata in una fornace.
"Reggi la faccia con le mani" gli dico.
Lo fa, ma i gomiti scivolano nella sabbia e il mento vi
affonda.
Lo aiuto a rimettersi in posa. Quando però accosto
l'occhio all'obiettivo, lui è di nuovo disteso.
"Non riuscirai mai a riprenderlo in questa posizione" mi dice
Franca sollevandolo per le ascelle e scotendogli via la sabbia.
"Sarebbe difficile anche per noi."
Ecco una frase che ricorre di continuo in chi assiste i disabili.
Noi come termine perenne di confronto, simbolo di una
normalità suprema, traguardo irraggiungibile quanto
comune.
Insiste:
"Perché vuoi fotografarlo in questa posizione?"
Non lo so neanch'io, avevo in mente un putto appoggiato con i
gomiti alla cornice di un quadro rinascimentale. Come mai cerco
modelli così remoti e assurdi?
Lo faccio accovacciare nella sabbia e gli scavo intorno una buca.
Lui cade in avanti sporcandosi la faccia. Non piange
perché capisce che sono io il responsabile dei suoi guai e
mi rivolge uno sguardo tra il rimprovero e la protezione. A volte
con me è paterno, è uno dei tratti che mi
commuovono.
Lo ripulisco in fretta, lo rimetto seduto con le gambe
accosciate, come un piccolo Buddha.
"Ecco, fermo così, non muoverti!"
Ripeto la frase tipica di mio padre, tra i pochi che in
villeggiatura, prima della guerra, possedeva la leggendaria Zeiss
tedesca, quando mi fotografava sui prati di Caglio.
Il piccolo Buddha vacilla prima di precipitare in avanti. Premo
il pulsante mentre alza il viso intimorito verso di me. Nella
fotografia ha acquistato un'aria seria, preoccupata, normale.
"Scegliamo questa!" punta il dito Franca, inserendola nel quadro
di vetro che è a metà del corridoio.
A mio figlio, dopo questo capitolo sulla fotografia, ho chiesto:
"Ti dispiace che io adoperi continuamente la parola "normale" per dire
che Paolo il protagonista del libro non lo
è? La preoccupazione del padre nel libro è la
ricerca maniacale, anche futile, anche stupida della
normalità
ma non è così importante la
normalità, non è un miraggio importante, se
pensiamo agli stupidi che ci assediano.
Essere normali non è così importante. Ai giovani
vengono proposti ideali di normalità, che sono tutto
fuorché normali. Persone che pensano esclusivamente alla
palestra
Donne fenicottero che sfilano in passerella: ma
quali donne si riconoscono, quali uomini desiderano quelle donne?
La normalità è molto funzionale ai consumi, alla
moda, ma non è affatto ciò che risponde alle nostre
vere esigenze. Noi sentiamo l'esigenza di realizzare noi stessi,
di essere noi stessi e ci accorgiamo di non coincidere affatto
con la normalità che ci è proposta.
Possiamo capire che un giovane voglia essere normale: il giovane ha
paura di essere diverso e se è diverso ne soffre in una
maniera smisurata. Io ho fatto in tempo a vivere gli ultimi anni
di fascismo e mi ricordo che mia madre per le sfilate mi aveva
confezionato un fez che, anziché avere un fiocco, aveva
una sorta di bandoliera. Nessuno l'aveva e io stavo male. Tutti
mi guardavano. Mia madre mi diceva che era più bello degli
altri, ma a me non interessava, non volevo essere più
bello degli altri, volevo essere come gli altri. Il giovane vuole
essere riconosciuto dal gruppo a cui appartiene, non vuol essere
normale rispetto a quello che vogliono i genitori o i professori, ma
vuole essere normale per il gruppo che lo accoglie. A volte è
una normalità pericolosa, sinistra, però è
quella la normalità che vuole.
Ma l'uomo andando avanti si accorge che non è affatto
uguale, scopre di essere diverso. Si accorge che i suoi gusti non
coincidono affatto con quelli degli altri. Il percorso che l'uomo
fa invecchiando è quello di scoprire la propria radicale
unicità.
Hillman (grande psicologo allievo di Jung) ha scritto un libro
molto bello in cui analizza la vecchiaia come scoperta del
proprio carattere, come consolidamento del proprio carattere e
della propria radicale diversità. Il vecchio scopre che la
sua vita ha un senso solo se la riconosce, se la difende, se
difende la propria unicità e diversità. È
maturo quando prende atto di questo. Hillman mostra che la
maturità della vecchiaia è proprio in questa
consapevolezza. Purtroppo la si conquista tardi, ma dobbiamo aver
sempre presente la futilità del traguardo che la
società ci propone continuamente: la normalità.
Potremmo, al contrario, difendere lo statuto della nostra
diversità: ognuno di noi è diverso, abbiamo uguali
diritti, ma siamo molto diversi. Il problema è quello di
incontrare la diversità.
Così mentre leggevo a mio figlio il capitolo e dicevo: "Ti
dispiace che io dica che Paolo non ha una faccia normale?", lui mi ha
risposto: "Sono io il primo a saperlo, di che cosa ti
preoccupi?".
Aveva capito molto bene anche qual era il gioco della finzione e
della verità, aveva capito molto bene di essere
l'ispiratore di molte battute. Però ha anche capito che
questo non è un gioco vincolante, che la cosa più
importante è la verità del personaggio. Lo stesso
è valso anche per mia moglie, che ha una parte non facile,
complicata e anche dura. A parte qualche inevitabile
difficoltà, a me interessava andare oltre le verità
normali di cui ci accontentiamo.
Per fare un esempio ad un certo punto il narratore, il padre,
scopre che Paolo ama trascorrere le vacanze con i disabili e con
i volontari, preferisce stare con loro, mentre non vuole stare
con i genitori. Allora il padre, che durante tutto il libro
è in un certo senso sorpreso dalle reazioni del figlio,
pensa che avrà le sue ragioni, poi comincia a pensare
quali possano essere queste ragioni. Scopre, ad esempio, che
quando si dice a un disabile di quindici anni: "cammina diritto",
si fa una esortazione, una preghiera, si dà un consiglio
di cui si sa in partenza la totale inutilità, oppure
è un alibi per continuare a sperare, oppure una forma di
ritorsione, di vendetta, di punizione, oppure tutte queste cose
assieme. "Cammina diritto" - che noi abbiamo detto e che tuttora
diciamo a nostro figlio - non era semplicemente un invito dei
genitori a migliorare la deambulazione, era qualcosa di
più complesso. Quello che ho voluto rappresentare è
che la letteratura può andare di là, oltre le
verità di cui ci accontentiamo.
L'occhio solidale
La sfera di cristallo
È l'immagine prediletta da quei medici che
dicono di non averla, quando non vogliono pronunciarsi sul
futuro. "Avessi la sfera di cristallo!" sospirano, corrugando la
fronte con una perplessità che immaginano sapiente.
Oppure: "Mica abbiamo la sfera di cristallo!", con una
intonazione più rozza e corporativa.
Li ho odiati per anni. Si rifugiano dietro una metafora
proverbiale, stremata dall'uso, svuotata di ogni
attendibilità anche fiabesca, come dovessero difendersi da
pretese insensate, mentre sono solo richieste di aiuto, appelli
alla speranza, fughe nel futuro per liberarsi dalla disperazione
del presente. E ricorrono a una frase imparata magari da un
primario (le fatuità dei migliori sono le testimonianze
che ricordano più tenacemente), per annettersene, in
incognito, l'autorità. L'alibi della deontologia
professionale dovrebbe mascherare questa interruzione del
dialogo. Ma i pazienti e i loro parenti non vi hanno mai creduto.
Nella sfera di cristallo intravedono non l'aleatorietà di
divinare il futuro, ma la viltà di sottrarsi a una analisi
penosa e dura, a un confronto impegnativo e doloroso. Quei
medici, più competenti e umani di loro, che sanno
affrontarlo, non se ne sono mai pentiti.
Ricordo il professore che, tre mesi dopo il parto, dietro la
scrivania del suo studio, ci aveva rivelato la verità,
ovvero quello che pensava. Aveva riflettuto a lungo prima di
rispondere, in una penombra carica di angoscia. Non era ricorso
alla sfera di cristallo. Più esperto di medicina e di
uomini di tanti suoi colleghi, ci aveva detto, con voce pacata e
ferma, guardandoci negli occhi:
"Non posso prevedere come diventerà vostro figlio. Posso
fare alcune ipotesi ragionevoli.
"La più ottimistica. La sofferenza cerebrale, dovuta al
forcipe e alla scarsità di ossigeno al momento della
nascita, si riassorbe. Non ha lasciato tracce consistenti. I
disturbi possono essere marginali. Non è l'ipotesi
più probabile.
"Vediamo l'ipotesi mediana. Le lesioni cerebrali, anche se non
profonde, hanno intaccato i centri motori e quelli del
linguaggio. Il bambino tarda a parlare, se a tre anni un suo
coetaneo usa mille parole, lui ne sa dire cento. L'andatura
sarà imperfetta, la manualità difettosa.
Però è intelligente, presenterà solo forme
di immaturità dovute alla parzialità della sua
esperienza.
"Passiamo all'ipotesi più negativa.
L'elettroencefalogramma è troppo precoce per essere
attendibile e non ha rivelato la gravità delle lesioni. Le
alterazioni della motilità e dell'intelligenza sono
più forti del temuto. Non è l'ipotesi più
probabile, secondo me.
"Però posso sbagliarmi. Voi dovete vivere giorno per
giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà
una esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete
migliorati.
"Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in
un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La
seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due
volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla
fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno
è la mia esperienza. Non posso dirvi altro."
Grazie, a distanza di trent'anni.
Anche qui si affronta uno dei temi centrali del libro: la
prospettiva in cui accettare, vedere la diversità.
La tendenza in generale della società è una
tendenza riduttiva nei confronti del bene. Il professore del
libro dice ai genitori: "Sarà una esperienza dura, ma vi
arricchirà. Questo posso dirvi sulla base della mia
esperienza". Il suo non è un discorso edificante, è
un discorso realistico, però la società tende a
rifiutarlo, perché tende a delegare il dolore al disabile.
I disabili sono quelli che soffrono, sono quelli che incarnano la
sofferenza. Durante il Giubileo il mio libro è stato
citato da un giornalista importante, cosa che mi ha fatto
piacere, che però poi ha aggiunto che nella Chiesa c'era
il corteo degli infelici
Ma quali infelici! Avrei voluto
dirgli: come osi chiamarli infelici, che diritto hai tu di
chiamarli infelici? Qual è la tua prospettiva? Avrei
voluto chiedergli se era felice sua moglie, se i suoi figli erano
felici, se lui era felice. Il disabile soffre naturalmente di
molti problemi, ma non incarna l'utilità marginale del
dolore sociale, come vorrebbero gli economisti della sofferenza.
I disabili hanno, vivono difficoltà, ma la prospettiva
riduttiva consiste nell'attribuire loro un ruolo di sofferenza
dovuta e di discriminarli rispetto agli altri. Quello che noi
dobbiamo assumere, invece, è un occhio solidale. Siamo
tutti sulla stessa barca
il corteo degli infelici comprende
molte persone, direi tantissime. Quindi la disabilità
è un problema che riguarda non solo i disabili, ma tutti.
La tendenza, però, è sempre riduttiva,
riduzionistica.
Allo stesso modo il bene che si riceve dal disabile non è
una verità edificante, è una verità
sperimentale. Costa. Però è anche vero che il
dolore fortifica, che il dolore, la difficoltà sono una
esperienza fondamentale. Però come reagisce attualmente la
società? Affermando che quel professore dice così
solo per consolare, come se loro vivessero in una condizione di
privilegio. Purtroppo, o fortunatamente, la difficoltà
riguarda ciascuno di noi, la disabilità riguarda il
giovane, che vive forme di disabilità emotiva,
psicologica, fisica, sessuale. Allora prendiamo atto che la
disabilità è la nostra condizione.
Mistero del bene: il volontariato
La recita
Recita annuale dei disabili nell'oratorio di Paolo.
"Secondo te posso non venire?" chiedo a Franca con disinvoltura
disperata.
"Ma certo!" mi risponde lei, noncurante.
"Come?" la guardo riconoscente.
"E' il terzo anno che recita e non l'hai mai visto." Ostenta una
serietà neutrale. "Puoi continuare così."
"Lui come è rimasto?" le chiedo.
"Malissimo."
"Te l'ha detto lui?" insisto.
"No, lo sai che è orgoglioso. Mi ha chiesto solo se
quest'anno venivi."
"E tu?"
Perché faccio domande? Mai fare domande.
"Non so, gli ho detto. Lo sai come è fatto il
papà."
"E come è fatto?" le chiedo.
"Malissimo" risponde lei, come se rispondesse a Paolo.
Mi sto arrendendo.
"Qual è il titolo della recita?"
"Ulisse."
"Di Joyce?"
"No, di Omero."
Mi sono arreso.
Eccomi in questa sala disadorna, cosparsa di sedie metalliche che
accerchiano un palcoscenico di legno. Dietro un tendone nero, che
scorre con gli anelli lungo un bastone orizzontale, si irradia un
chiarore intenso. Fari mobili prioettano sul soffitto di cemento
luci colorate che si intersecano.
"Sembra un rifugio antiaereo" dico a Franca, che però, per
età, non condivide il ricordo e, per tendenza, il
paragone. Si guarda intorno nella sala gremita di visi accaldati,
c'è un'atmosfera festosa, una massa calda, accogliente,
che applaude ogni tanto per sollecitare lo spettacolo, ma lo fa
con una distrazione benevola e complice. Lo spettacolo in effetti
è già cominciato, lo si sta vivendo in platea, in
questo incontro di parenti disperati, sorridenti, rassegnati,
allegri, seri. Un ragazzo Down sporge la testa da
un'estremità del tendone, guarda la sala, ride, si ritrae.
Subentra una ragazza, anche lei scappa, si sente un trapestio,
accompagnato da grida, sulle assi del palcoscenico. Mi balenano
recite della mia infanzia, quando il palcoscenico non era quello
dove pronunciavamo battute memorabili, ma la platea punteggiata
di pupille e di luci. Per noi il teatro era il pubblico, verso il
quale strabuzzavamo gli occhi in gesti per noi comicissimi. Mai
ho sentito il teatro come allora, quando la linea che divideva
gli attori dal pubblico appariva aperta nei due sensi. Eppure
rimaneva invalicabile, una magia che ci soggiogava e
stregava.
Cerco di trattenere la commozione, Franca mi chiede:
"Ti piace?"
"Sì, molto" rispondo.
Apro una breve parentesi che ha come oggetto il male.
Noi siamo abituati al male. Il male conferma la nostra
superiorità o conforta la nostra debolezza. Ci è
così familiare che il bene ci sconcerta e cerchiamo di
ridurlo al male, commutandolo di segno e assimilandolo ai modelli
negativi che ci sono noti.
L'ho osservato nelle reazioni più comuni, compresa la mia,
di fronte al volontariato. La tendenza è di interpretare
l'altruismo come controfigura dell'egoismo, la generosità
come gratificazione di chi la esercita, la solidarietà
come aiuto provvidenziale a se stessi, il sacrificio dell'Io come
ricatto di un Super-io tirannico. Non si impara neppure dalla
etologia, saccheggiata per spiegare l'aggressività, ma mai
il suo contrario. Gli animali che si sacrificano per la prole o
per gli altri sono anche loro vittime di un Super-io? No,
dell'istinto, risponde l'etologia. Ma dell'uomo si nega questo
istinto positivo, per dotarlo invece di tutti gli altri.
Il male contrariamente a quanto si pensa è
rassicurante, lo veneriamo nei mostri, giustifica le vendette,
mobilita le difese, rafforza la durezza del cuore. Il bene
è un esempio inimitabile (vogliamo confrontarlo con il
male?), supera fossati e mura che approntiamo contro il nemico,
elude gli infiniti cavilli della intelligenza, disorienta
l'astuzia perché la ignora, è disarmato e semplice.
Il male ci incuriosisce e ci eccita, stimola l'investigazione, si
cela nell'ultima stanza, quella del segreto infame. Il bene apre
le porte, non nasconde nulla, si apparta solamente per non farsi
notare. Il male promette misteri, il bene è un mistero
luminoso, una presenza inaccettabile.
Sto parlando con cognizione di causa, ma sono in buona o
almeno numerosa compagnia. Per molti uomini nulla è
più edificante che la distruzione e nulla più
ripugnante che la edificazione. Che le ideologie abbiano nel
nostro secolo generato stermini non è perché
additavano un paradiso remoto, ma perché prima dovevano
realizzare un inferno immediato. Certo è più
confortante e soprattutto etico capovolgere le
gerarchie. E' un alibi di cui tutto si può dire tranne che
non se ne sia approfittato.
Sto esagerando? Ma solo le esagerazioni ci restituiscono, nella
caricatura, l'immagine in cui riconosciamo l'originale.
Ho sempre immaginato il volontariato senza conoscerlo,
naturalmente, solo la non-conoscenza favorisce la certezza
un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la
consolazione di sé. Finché ho conosciuto amici e
amiche di Paolo. Questi giovani che lo accompagnano nelle
pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista,
a prezzo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi (chi
salverà le tradizioni se non i giovani, i migliori, si
intende?), sono gentili, misurati, discreti. In cambio non si
aspettano nulla. Non si aspettano doni né ringraziamenti.
E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno
più bisogno quando non la sentono mai, la simpatia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze. Non
ho ancora capito come le consideri e non intendo approfondire.
Immagino che abbia solide ragioni. Quando ancora gli si dice,
dopo quindici anni di ingiunzioni, "Cammina dritto!", che cosa
gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un
alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero,
una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di
diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla
pazienza. Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo
di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo
cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L'imperativo
occulto dell'educatore, secondo Droysen, viene compendiato da
poche, silenziose, concilianti parole: "Tu devi essere come io ti
voglio, perché solo così io posso avere un rapporto
con te". C'è da stupirsi che Paolo sia felice quando non
viene più educato?
L'aiuto agli indigenti, ai malati, ai carcerati è stato il
comportamento che, alle origini, ha turbato milioni di pagani.
Oggi che viene esercitato anche dai laici (ma che cosa c'è
di laico nella religione dell'uomo?), si tende, più che a
farne un modello, ad approfittarne.
Nel male, fingendo di non riconoscerlo, ci si rispecchia, nel
bene un po' meno. Per un narratore il male è la salvezza,
il bene la perdizione. L'elogio del bene ha inquietato perfino il
sonno dei classici ed è stato l'incubo della loro veglia.
Manzoni, per farselo perdonare, ricorre all'ironia, Cervantes
alla follia, Dickens alla stupidità, Dostoevskij alla
idiozia, Melville alla innocenza. Solo Hugo non esita a edificare
al bene una cattedrale, ma a lui, ahimè, si perdona
tutto.
Parlare bene del bene è imperdonabile. Infatti non me lo
perdono. Ma dovevo pagare di persona l'impagabile aiuto di
parenti, amici e sconosciuti.
Si apre nel brusio il sipario: il tendone scorre sul bastone di
ferro finché il ragazzo che lo sospinge piomba contro il
palo che lo sorregge. Una risata, quasi una ovazione, si alza
dalla platea dei disabili e dei loro parenti. Non so se la regia
il responsabile figurava nella locandina con nome e
cognome l'avesse previsto. Certo non poteva cominciare
meglio. Il resto è peggio.
Dire che è capitato tutto è dire solo una parte.
Ulisse, gigantesco, le gambe ispide sotto il gonnellino bianco,
sembrava uno scozzese in sandali sceso in Asia Minore. Calipso
piangeva sul cocuzzolo di un'isola, tra onde di legno che
scivolavano come in un cartone animato. Telemaco era l'unico non
disabile presente sulla scena, ma non si notava la differenza.
Studente di farmacia, mi aveva informato Franca, rivolgeva ad
Atena frasi che non si capiva, tanta la chiarezza
dell'intonazione, se erano domande o risposte. Di Paolo avevano
sfruttato la voce cavernosa, per trasformarlo in un Poliremo
laconico. Confesso che il suo dialogo con Ulisse-Nessuno aveva
acquistato strane suggestioni, tra levantine e metafisiche, ma
forse ero stato tradito dalla emozione.
Pezzi forti della regia erano Nausicaa, tutta vestita di bianco
in riva al mare (la figlia Down di un avvocato seduto, gli occhi
spiritati, in prima fila) e il banchetto dei Proci, con le loro
compagne che attingevano senza risparmio da boccali di aranciata
e addentavano panini farciti. Ho sempre provato insofferenza nel
vedere gli attori mangiare: sia perché non partecipo alla
loro occupazione, sia perché mangiano come si dice
con una metafora precisa in punta di forchetta, triturando
a bocca ermeticamente chiusa porzioni microscopiche. E non
finiscono mai, educati, sensibili, impettiti. Bene, era un
particolare ignoto alla recita. Restava invece inappagata
l'invidia per una voracità famelica che gli attori non
avevano ritegno a mostrare, ridendo con il pubblico mentre
inghiottivano fette di torta o divoravano pezzi di cioccolato.
Solo Penelope, ricoperta da un saio marrone (forse simbolo della
fedeltà coniugale), conservava per tutto lo spettacolo una
austerità straniante, degna di Jonesco.
L'ovazione meritata, entusiasta, riconoscente, alla fine premia
tutti, attori e pubblico. L'unanimità, sogno infantile a
occhi aperti, intramontabile utopia di chi non cresce, diventa
qui un Eden malinconico.
Aspettiamo che Paolo esca dal tendone. Finalmente appare
trionfale in cima alla scaletta, scende, sudato e rapito, i primi
gradini, rifiutando con un gesto perentorio mani soccorrevoli, e
scivola sugli ultimi due precipitando in avanti. Per fortuna
eravamo ad aspettarlo in fondo alla scaletta, come ai genitori
piace e ai figli no. E lui si è slavato tra gli ultimi
applausi del pubblico, colpito questa volta dalla
realtà.
Per me il volontariato è stato una esperienza emozionante:
prima condividevo il pregiudizio intellettualistico che i
volontari fossero persone che aiutavano, ma che in fondo lo
facevano anche per gratificarsi. Buona parte degli intellettuali
pensa questo: la generosità è una forma di
autocompensazione. Chi aiuta gli altri lo fa anche perché
obbedisce ad un super io tirannico, che gli pone come ideale
l'assistenza.
Io mi sono chiesto come mai dal comportamento degli animali
impariamo tutto sull'aggressività, però non
impariamo niente per quanto riguarda i comportamenti solidali:
madri che aiutano il figlio, animali che addirittura si
sacrificano per gli altri.
Nel libro la figura della madre è molto più dolce,
generosa, appassionata che quella del padre. Anche qui per il
narratore è una scoperta. Se vogliamo uscire dalla figura
del narratore e parlare in prima persona, io ho constatato che
nella prima metà della vita si accumulano pregiudizi che
poi la seconda metà della vita serve a dissolvere. Nella
seconda metà della vita in molti casi vi è come lo
smantellamento di assurdità accumulate nella prima.
Così anche nei confronti delle donne: fino ai trenta,
trenta cinque anni ero convinto della superiorità
maschile. Gli uomini lo hanno sempre pensato fino a pochi anni
fa: mi ricordo che non c'era nella mia classe maschile al liceo
Carducci di Milano chi non pensasse che se una moglie avesse
tradito il marito, lui aveva il diritto di ammazzarla. Non
eravamo una classe criminale: eravamo convinti. Quindi io ho
creduto nella superiorità maschile finché ho capito
che i punti su cui la poggiavo, per esempio le qualità che
consideravo tipiche dell'uomo come il coraggio, la lealtà,
non erano poi molto diffuse tra gli uomini. Così come non
era diffusa neanche l'intelligenza: non era una merce così
a buon mercato, era abbastanza rara e più spesso si
trovava nelle donne che negli uomini, perché gli uomini
sono anche condizionati dagli ideali normali della performance,
dalla prestazione, della sfida, della superiorità. La
donna è più duttile, più flessibile, meno
schematica. Ci sono voluti anni per capirlo
E così anche per capire il volontariato, per capire gli
uomini che aiutano gli altri, per capire che non lo fanno per
compensare le proprie lacune ma lo fanno per uno slancio profondo
che possiedono, per un loro ulteriore percorso culturale,
religioso, etico. Perché dobbiamo pensare che il bene lo
si fa solo perché si ha paura a fare il male, solo
perché si vuole compensare? Ho dovuto arrendermi
all'evidenza che i giovani che aiutavano mio figlio, e lo
racconto, non erano dei sinistrati che volevano gratificazioni,
erano animati da uno slancio positivo: una scoperta emozionante,
perché noi siamo abituati al mistero del male, il
Misterium iniquitatis, che sta al centro anche del dibattito
teologico da migliaia di anni di cristianesimo e non solo di
cristianesimo. Ma il mistero del bene è altrettanto
fondamentale. Purtroppo noi o la tendenza sociale lo diamo per
acquisito in forme riduttive. Il bene è difficile da
avvicinare. In un'intervista mi hanno chiesto se per aiutare i
disabili bisogna essere buoni. Non lo penso affatto. Cristo
quando è stato chiamato buono, ha detto: "Perché mi
chiami buono? Buono è il Padre mio che è nei
cieli". La bontà è una conquista. Così come
la fede è una conquista. Certo ci sono persone miti, ma
l'atto buono è un atto sorprendente, è un atto
generoso, è una invenzione, è una scoperta,
è una conquista.
Il disabile non deve essere aiutato da uomini buoni, ma da uomini
intelligenti, uomini che amano il bene: è tutta un'altra
cosa. Il bene è quello che dà e produce bene. Un
grande filosofo americano, William James, che ha studiato il bene
anche nell'ambito religioso, diceva che anche l'esperienza
religiosa importante è quella che si comunica agli altri,
che produce bene. Con questo non voleva dire che un anacoreta non
facesse una esperienza religiosa, ma che se l'anacoreta fosse
entrato in società, allora l'esperienza religiosa si
sarebbe rivelata dal bene che produceva. Faceva l'esempio curioso
di una suora che in un convento lasciava le varie attività
per andare a pregare in cappella, dove diceva di avere
appuntamento con Gesù
ne aveva tanti, per cui non
faceva più nulla. Quando tornava da questi colloqui con
Gesù diceva che erano colloqui privati, non ne parlava
così le altre suore non imparavano niente. James usa una
parola inglese "flirtation": aveva una lunga "flirtation" con
Dio, ma la sua non era una esperienza religiosa, perché
questa la si capisce dai frutti che produce. dal fatto che
diventa bene per gli altri.
Anche nell'ambito della disabilità noi riconosciamo che il
volontariato è importante per il bene che fa. Ho
constatato che mio figlio preferiva i disabili e i volontari a
noi. Stava bene. Quello che il volontariato dà ai vecchi,
per esempio, non è solo l'aiuto materiale, ma una cosa di
cui il vecchio ha un enorme bisogno: la simpatia. Il disabile ha,
dà simpatia perché lo fa gratuitamente,
perché non lo fa per professione, perché dare aiuto
è una conquista. E direi che la simpatia è persino
più importante dell'amore. Certo l'amore è
fondamentale, ma non è così facile, non è un
dato anagrafico.
La fede non è fuga ma conquista
Preghiere
La guarigione, finché Paolo ha avuto due anni, doveva
essere completa. Era la mia richiesta quando pregavo, la
domenica, durante la messa. Avevo ripreso ad assistervi dopo anni
di distacco e, supponevo, di congedo. Ero convinto da una voce
interiore (la udivo distintamente, direi fisicamente, e non mi
sembrava la mia) che sarei stato esaudito.
In seguito ho diminuito la richiesta. Ho abolito l'aggettivo
completa. Mi bastava che la guarigione fosse parziale. Ero
disposto, in quella trattativa appassionata quanto squilibrata
con chi può tutto, ad accettare qualche minorazione in
Paolo. Concessioni (non so se a me o all'Onnipotente) che una
volta mi sarebbero parse atroci; ma che ora poiché
le sue condizioni si rivelavano più gravi, almeno rispetto
alle nostre aspettative mi sembravano accettabili. Sentivo
la voce, dopo un silenzio prolungato, che mi rispondeva
sì, lo otterrai.
Uscivo da quell'appuntamento rinfrancato. E anche confortato
dalla mia accortezza nella trattativa. Non promettevo cose che
non avrei saputo mantenere. No, non avrei lasciato lei, questo
non lo promettevo. Non potevo perderla per una mia decisione,
né ero pronto per una amputazione cui non avrei saputo
rassegnarmi. Neanche l'Onnipotente del resto me lo chiedeva. Mi
sentivo abbastanza sicuro della sua tolleranza, anche se
preferivo non sottoporlo e sottopormi alla prova
del sì. Che cosa avrei fatto se mi avesse risposto di
no?
Mi rendo conto che quel modo di pregare può apparire
assurdo o irresponsabile. Posso solo rispondere che era il mio.
Taccio però il trasporto, il fervore e il rapimento con
cui pregavo. Lo lascio come dicevano una volta i narratori
quando volevano sottrarsi al rischio di una caduta
immaginare al lettore. Altri invece, oggi soprattutto, lo
raccontano, ma non so se il lettore ci guadagna. L'emozione
è insidiata dalla commozione, che vela gli occhi e
ostacola la voce. Basta che il lettore attinga alla sua
esperienza e non avrà difficoltà a capire. E' certo
che nessuno prega l'Onnipotente con le mani in tasca.
Facevo invece concessioni sugli incontri con lei. L'avrei vista
una volta in meno alla settimana, benché questo
comportasse trattative anche con lei, che ignorava le mie
trattative con l'Onnipotente. E promettevo inoltre sacrifici
della gola, non privi di ricadute positive sulla dieta, che da
sola non sarebbe bastata a impormeli. Forse contavo, per questo
compromesso utilitario, sulla longanimità e l'indulgenza
del io Interlocutore. Non sulla sua distrazione, data
l'onniscienza.
Questa bilancia paranoica del dare e dell'avere non so dove
l'abbia appresa. Può darsi da bambino nelle scuole
religiose, dove una giustizia finalmente divina garantisce la
remunerazione dei fioretti. Era comunque un progresso rispetto ai
comandanti romai, che per non vedere, prima di una battaglia,
segnali sfavorevoli degli dei, chiudevano le tende della
portantina, sperando di indurli a un cambiamento di programma. Io
forse, ammaestrato dai secoli, non seguivo un legalismo formale,
ma una linea più morbida.
Chiedevo una guarigione miracolosa, ricordando che nei Vangeli la
fede l'aveva spesso ottenuta. Ma com'era la mia fede?
Intermittente e ondulatoria: alta nelle occasioni del bisogno,
tenue e circospetta nelle altre. Quando ci chiediamo se gli
antichi credevano veramente, dovremmo chiederci come crediamo
noi.
C'era però qualcosa di invincibile nel bisogno di pregare,
una necessità non meno ineluttabile di quella in cui mi
dibattevo. E che la ragione la considerasse irriducibile a
sé non mi inquietava, perché la sua evidenza era
maggiore. Vivevo questa percezione solo quando pregavo, come la
luce abbagliante di un falò a pochi metri di distanza. A
mano a mano che mi allontanavo, il chiarore diminuiva nella notte
e si dissolveva nella luce del giorno. La frase che nei Vangeli
congeda chi crede alla guarigione, "Va', la tua fede ti ha
salvato", io la sentivo quando ero vicino al fuoco. Ma non mi
accompagnava più mentre rientravo a casa, trasformata in
una palestra nevrotica per progressi troppo lenti. Solo adesso,
trent'anni dopo, comincio a capire: ovvero ad acquistare, almeno
retrospettivamente, più pazienza. Da giovani chiediamo a
Dio tutto e subito, perché Dio è giovane come noi.
Poi invecchiamo e anche Dio diventa più lento. Del resto
ci ha lasciato il tempo per maturare. In questi giorni sono stato
visitato, per un mio disturbo, da un giovane omeopata, cui ho
chiesto incautamente: "Guarirò?". Mi ha guardato perplesso
e mi ha risposto: "Lei parla di guarire? Se pensa alla morte
vedrà che il verbo guarire non può più avere
il senso che lei gli attribuisce".
Ho annuito, stupito a mia volta che un giovane, di trent'anni
minore di me, avesse riflettuto così proficuamente sul
tema della guarigione. Comunque ho cambiato medico.
La sua frase mi ha per altro aiutato a capire che neanche dalla
stupidità guariamo completamente. E sulla preghiera ho
cambiato idea, come sulla guarigione. Forse preghiera e
guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal
male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si
è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente.
Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non
so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce
di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io, per riscoprirla
nei momenti più difficili. E non era un'eco.
Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va
incontro alla sconfitta. Ma ho rinunciato da tempo alla
contabilità celeste, al bilancio del dare e dell'avere,
alle aspettative fiscali del divino.
Mi accontenterò (mai verbo più malinconico e
più lucido) di un ultimo appuntamento con la voce. Quando
tutto mi mancherà, lei non mi mancherà.
Un disabile crede per compensazione. Questo almeno è
ciò che credono gli altri. L'interpretazione astuta e
caritatevole, non manca di una sua coerenza. Se ci si rivolge
all'Onnipotente quando se ne ha bisogno (la cosa accade anche nei
rapporti tra gli uomini), chi, più del disabile, che vive
nel bisogno di assistenza, ha bisogno di Lui? Questo
confermerebbe tra l'altro che i miei rapporti con l'Onnipotente
non sono poi così anomali rispetto alla media.
"Che fortuna!" dicono della fede di Paolo. "Altrimenti, nelle sue
condizioni
" aggiungono i più sensibili, senza
finire, per delicatezza, la frase. "Che aiuto formidabile!",
commentano i più euforici. I più cinici, che si
sentono anche i più lucidi, riprendono Voltaire: "Se non
ci fosse, bisognerebbe inventarla". Non pensano a se stessi,
pensano a lui. E' l'utilità marginale dei disabili, come
direbbe un economista del dolore sociale. Hanno una delega
collettiva a soffrire per gli altri. E il loro carico si
ingigantisce perché vi si occulta quello universale. La
realtà però è lievemente diversa. Abituati a
convivere con la minorazione e a sopportarla , i
disabili non ne hanno l'immagine insopportabile di chi è
sano. E la fede non è una fede, ma una conquista.
I poveri avranno il regno dei cieli, non è un cambio
sfavorevole. Chi ha il regno della terra, ovvero di una sua
particella, non ha di che commiserarli, ma lo fa ogni volta. E'
l'aspetto grottesco di un rapporto dove chi commisera è il
primo che dovrebbe essere commiserato. Guai però a
dirglielo. Chi ostenta pietà non sospetta di ispirarla
negli altri. E' anzi il suo modo di esorcizzarla e di tenerla
lontana. Mentre è la via più breve per
meritarla.
So che Paolo ha una attrazione particolare per le cerimonie.
Preferisce quelle festose, come battesimi, cresime e matrimoni,
ma anche quelle funerarie lo riempiono di gratificata
compunzione. Glielo ho fatto notare cercando di essere lieve e
ironico, ma non ha gradito.
E' bravo mi riferiscono voci di quartiere anche
nelle consolazioni per la perdita di parenti e amici, un genere
classico che sembra caduto in disuso. Lui invece impiega le
risorse di un linguaggio lento e roco per dire parole che
sembrano arrivare da lontano ed emozionano chi le ascolta. La
cosa mi fa piacere e mi turba. Non vorrei ne sopravvalutassero la
forza perché espressa dalla debolezza.
Decido di essere sincero con lui (ossia ho bisogno di lui) e gli
confesso che resto, a queste notizie, sia contento sia
sconcertato. Lui mi guarda, a sua volta, rassegnato e deluso. Mi
dice con la sua voce affaticata:
"Sei stupito, vero?"
Una volta mi ha detto, con una gravità sorridente, una
frase di assonanza evangelica:
"Non sei solo tu il maestro."
Mi capita di ricorrere a lui come intermediario. Si vede che
condivido, a mia insaputa, l'idea che la minorazione abbia un
accesso speciale presso l'Onnipotente. E che l'Onnipotente sia a
sua volta sensibile alle raccomandazioni. Sono talmente colpito
dall'assurdità di questa prospettiva che cerco di
difendermi pensando a quanti la condividono. Il risultato
è soltanto che la ingigantisco di scala e che una
assurdità collettiva getta la sua ombra (o la sua luce?)
anche su di me.
Lui mi guarda e intuisce di quali percorsi tortuosi è
frutto la mia richiesta. Mi risponde con una frase che forse ha
sentito in chiesa o all'oratorio (nel giudicare obiettivamente i
figli oscilliamo tra la megalomania compensatoria e la
sottovalutazione apprensiva). Ha comunque il merito di farla sua
al momento giusto, che è un modo in cui si manifesta
l'originalità:
"Guarda che la preghiera non è magia."
Il capitolo delle preghiere è un capitolo in cui si sono
riconosciuti molti laici. Mi ha molto sorpreso la scoperta che
molte donne e molti uomini che si professano atei in
realtà pregano
io non li chiamerei atei,
perché non penso affatto che si preghi quando si scopre la
propria debolezza, ma quando si scopre la verità del
nostro rapporto con l'esperienza e con Dio. Che poi questo
avvenga nei momenti di debolezza, è semplicemente
perché l'euforia non favorisce l'intelligenza. La fede,
per collaudarsi, ha bisogno anche di momenti duri, ma non sono i
momenti duri che spiegano la fede, sono i momenti duri che ne
rivelano la latenza, la presenza sotterranea e la fanno
emergere.
Anche nel capitolo "Le preghiere" io ho mostrato il modo
paradossale in cui si prega, in cui molti pregano, credenti
oppure finti non credenti. In realtà ho scoperto che
moltissime persone hanno avuto il coraggio di ammetterlo dopo che
io avevo raccontato che si prega in modi apparentemente assurdi,
entrando in trattative col Signore, facendo fioretti, anche
abbastanza arrischiati. Il narratore ha un'amica il cui pensiero
lo assillava anche nel momento in cui nasceva il figlio: in
cambio di un miglioramento delle condizioni del figlio, chiede al
Signore, contratta col Signore, compie una sorta di
patteggiamento. Questo è parso a qualcuno una cosa
assurda. Nel romanzo ho detto solo a che cosa corrisponde il mio
modo di pregare. E ho scoperto che molti pregano in questo modo,
entrando in una sorta di trattativa. Dentro c'è tutto un
percorso teologico perché sono millenni che l'uomo si
interroga sui modi in cui pregare. Io l'ho raccontato da un punto
di vista esistenziale, dentro l'esperienza di un uomo, un uomo
debitamente squilibrato, ma come è squilibrata la maggior
parte degli uomini.
In un'intervista una ragazza mi ha chiesto: "Ma perché
quell'uomo, proprio nel momento in cui nasce un figlio è
preso da un'altra donna, dal pensiero di un'altra donna?
Perché l'ha raccontato?": L'ho fatto per molte ragioni,
l'ho fatto perché narrativamente è efficace,
statisticamente è frequente e perché da un punto di
vista ideale l'handicap non è uno squilibrio che irrompe
negli equilibri delle famiglie, è uno squilibrio che
irrompe nello squilibrio delle famiglie. La maggior parte delle
famiglie ha problemi, tra genitori, genitori e figli, suocere,
nuore. Noi dobbiamo acquistare coscienza di questo se vogliamo
capire anche la complessità dei rapporti con l'handicap.
Dobbiamo accettare di vedere l'uomo anche nel suo squilibrio e la
famiglia quasi sempre come squilibrata. Naturalmente non voglio
negare che ci siano famiglie straordinariamente forti dentro, ma
ci sono sempre comunque tensioni, conflitti: questa è la
verità che dobbiamo aver presente se poi vogliamo andare
più a fondo, non coltivare una immagine falsificante.
Anche per l'handicap non possiamo accettare questa immagine del
buio che irrompe nella luce. No, è un disordine che si
aggiunge ad altri disordini e se abbiamo la consapevolezza della
nostra inadeguatezza, allora possiamo cominciare ad
affrontarlo.
Un grande studioso della fenomenologia delle religioni, Van der
Leeuw,ha definito l'ateismo fuga da Dio, fuga da qualcosa che si
teme: non è che l'uomo, anche l'ateo, non creda in Dio,
è che fugge. La posizione di Van der Leeuw è
scientifica, in realtà. È difficile che l'ateismo,
come scelta speculativa, come conclusione di un percorso
intellettuale, sia così neutrale. In realtà
è presente una spinta emotiva alla fuga: l'ho constatato
in molti che all'apparenza sono atei.
In un rifiuto radicale c'è una condizione ulteriore di
dramma, non perché la fede sia un aiuto in soccorso di chi
ha bisogno, ma perché è in soccorso all'uomo:
l'uomo ha bisogno di credere. La teologia poi parla anche di un
bisogno di Dio: Dio ha bisogno dell'uomo. Chi rifiuta totalmente
questo dialogo, anche nelle forme paradossali che io ho
raccontato, certamente vive il dramma in modi più
duri.
Ciò che io rifiuto è che la fede sia un aiuto al
disabile. La fede è un aiuto all'uomo ed è
conquista dell'uomo. Tutti noi siamo disabili e abbiamo bisogno
della fede. C'è la chi la rifiuta, ma non perché
sia abile o disabile. Anche un disabile potrebbe non credere.
Quello che mi ripugna è l'idea che il disabile abbia
più bisogno degli altri: il disabile, come gli altri,
può avere una fede che si rivela come ricchezza, come
capacità di dare, come capacità di coinvolgere.
Avevo in mente di fare un romanzo bello, possibilmente, in cui
fosse presente la bellezza, anche nei modi più
sconcertanti, più drammatici. Penso che la bellezza faccia
parte del mondo e aiuti a sopportare il mondo e penso che la
bellezza ci sia anche nel dolore, anche nella tragedia. I greci
facevano della tragedia un momento di bellezza.
Io penso che il compito dell'uomo, e in questo sento molto
l'ideale dei greci, sia quello di far fronte alla
difficoltà, di fronteggiarla, di sopportarla, di
sopportarla con forza. Il cristianesimo dà una speranza
grandiosa e questo è un aiuto ulteriore, potente, immenso.
Ma anche chi non ha una fede certa, una fede come io racconto,
chi ha una fede sottoposta ad alti e bassi, una fede
intermittente, a volte potente, a volte meno, comunque crede, non
deve secondo me abbandonarsi alla disperazione.
Ho dedicato il mio romanzo ai disabili che lottano e già
nella lotta c'è una idea positiva. La vita va affrontata
con coraggio e poi questo coraggio sarà anche
ricompensato.
Naturalmente chi ha una fede continua ha una ricompensa
più alta, piena. Chi ha una fede intermittente ce l'ha
meno forte, ma ce l'ha anche lui. Perfino chi non ha fede, ma
crede in un uomo che deve saper affrontare il suo destino, deve
volerlo senza non subirlo, volerlo perché è suo,
questo ideale etico lo aiuta molto.
Quando hanno annunciato a David Hume, filosofo inglese del
Seicento, filosofo per eccellenza dello scetticismo che avrebbe
avuto un periodo molto limitato da vivere, lui ha detto
(così sta scritto nella sua autobiografia, che poi
è terminata con la morte): "Devo riconoscere che è
stato uno dei periodi più sereni della mia vita". Aveva
fatto fronte all'angoscia, alla paura e si era riconosciuto,
aveva riconosciuto se stesso in questa capacità di far
fronte, nella capacità di fronteggiare il male. Anche se
è una cosa difficile, molto difficile.
1
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Mondatori, 2000

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