SE NON DIVENTERETE COME GUFI
Come sperare la Chiesa che verra'

Aurelio Mottola

Occhi di gufo... il nascondimento

Vorrei approfondire, prima di occuparmi in maniera precisa del tema "Come sperare la Chiesa che verrà", la suggestiva metafora del gufo.

Il titolo, Se non diventerete come gufi, evoca il detto di Gesù: "Se non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli". Si allude così a un passaggio obbligatorio per accedere alla pienezza della vita di cui il Regno è simbolo. Il gufo ha occhi grandi per poter vedere nella notte. Questa caratteristica costituisce pertanto un passaggio obbligato per poter entrare nel Regno. La notte è il tempo nel quale non si vede, si è incapaci di prendere una direzione e il cammino si fa insidioso. La notte è un momento inquietante, nel quale ci è nascosto l'essenziale, magari quello che più ci serve per vivere. Nella tradizione cristiana essa è il simbolo per esprimere lo smarrimento dello spirito, l'impossibilità di cogliere ciò che deve orientare i nostri passi. La notte è tuttavia un'immagine ambivalente, perché, in qualche modo, evoca anche un tema centrale, e "positivo", nell'economia della Scrittura, quello del nascondimento.

Per esprimere in forma suggestiva il senso del nascondimento, mi riferisco a un brano molto noto, ma con un passaggio rivelativo sempre disatteso: il racconto della creazione di Eva, così come ce lo consegna il capitolo 2 del libro della Genesi. Dio crea l'uomo e dice: "Non è bene che l'uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli sia simile". Comincia allora a plasmare dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche, ma pur con tutto questo, potremmo dire, ben di Dio, l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora, dice la Scrittura: "Il Signore fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò. Gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto dall'uomo la donna e la condusse all'uomo. E allora l'uomo disse: "Questa volta è carne della mia carne e osso delle mie ossa". Vorrei richiamare l'attenzione su un particolare: Dio fa scendere un torpore sopra Adamo. Adamo non vede la nascita di Eva dalla sua costola. Adamo non vede Dio all'opera. Mentre Dio agisce, Adamo dorme. E cosa significa, fuori di metafora, questa parola? Significa che le realtà più importanti della vita, e in questo caso la realtà più importante per Adamo è Eva (tanto è vero che subito dopo Adamo erompe in un canto di gioia), accadono nel nascondimento. Noi non vediamo Dio all'opera quando suscita sul nostro cammino gli eventi più importanti.

Che questa caratteristica di Dio e della sua relazione con l'uomo, cioè il nascondimento, sia essenziale nella Scrittura, lo vediamo anche in un'altra immagine, anch'essa particolarmente efficace, questa volta tratta dal Nuovo Testamento, dal vangelo di Marco, al capitolo 4,26 ss., ove si parla di quel Regno di Dio che abbiamo appena evocato attraverso il titolo. Diceva: "Il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra. Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come egli stesso non lo sa, poiché la terra produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga e poi il chicco pieno nella spiga e quando il frutto è pronto subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura". Gesù utilizza, per spiegare ai suoi la realtà misteriosa del Regno di Dio, un'immagine bella ed efficace, quella di un uomo che getta il seme nella terra. Il seme penetra nel buio della terra, dove accadono cose che il contadino non sa come effettivamente avvengano. Accade il dispiegarsi del dinamismo vitale del seme a prescindere dal contadino (che dorma o che vegli il seme germoglia e cresce).

Alluderei anche a un altro momento notturno: la Pasqua di Gesù. Questo passaggio decisivo che la storia dell'uomo conosce, avviene in una notte, la notte dell'abbandono, del silenzio, del nascondimento di Dio.

Potremmo moltiplicare a dismisura gli esempi. Io li ho soltanto citati ed evocati per esprimere una preoccupazione fondamentale: non dobbiamo avere paura della notte. La notte è il luogo privilegiato in cui Dio agisce, ed è anche l'ambito più vero in cui l'uomo può incontrare Dio stesso, perché nella notte, nel momento della crisi, di una difficoltà della quale non riusciamo a venire a capo, proprio nella notte il Signore si fa trovare sorprendentemente vicino. E l'uomo è in grado di accoglierlo, perché allora si sente impotente, non si sente il protagonista della propria vita, colui che costruisce il proprio cammino, ma è come obbligato a riconoscere che colui che tesse la vita nelle viscere della storia è soltanto Dio.

A nessuno viene risparmiato il passaggio nella notte. E' un passaggio necessario per ogni uomo e per ogni donna, in forme tragiche talvolta, ma sempre nella forma ineluttabile di quel grande passaggio notturno che sarà la nostra morte. Occorre avere occhi di gufo per intuire la vita nascosta nella notte.

Questo è un esercizio particolarmente difficile oggi. Oggi i nostri non sono occhi di gufo. Nella civiltà dell'immagine è come se fossimo diventati incapaci di leggere nella notte i segni della vita. Nella nostra cultura, lo dico estremizzando, esiste solo ciò che appare. Esiste ciò che si vede in televisione, tanto che taluni, scorgendo se stessi sullo schermo hanno come la sensazione di essere di più. La civiltà dell'immagine, di una luce che quasi non vuole lasciare residui, che vuole illuminare tutto, ogni angolo della vita, segna il vissuto quotidiano, ad esempio dei nostri figli, che si abbeverano alle immagini della televisione, dei videogiochi, dei cartelloni pubblicitari, delle merci. Siamo vittime dell'immagine invasíva che plasma il nostro occhio; a poco a poco, insensibilmente, diventiamo incapaci di vedere nel buio, di cogliere il chiaroscuro della vita, di leggere i segni che sono disseminati sul nostro percorso, che sono soprattutto i segni di coloro che ci stanno accanto. Questa finezza dell'occhio che sa cogliere, e sa cogliere perché non è abbagliato dalla luce, ed è capace di vedere il chiaroscuro della vita, quest'occhio noi non lo abbiamo più. E' come se, per riacquistare la capacità che il gufo ha di guardare nel buio della notte, dovessimo riesercitarci a vedere oltre le apparenze, a intuire. Questa è un'arte che richiede sensibilità, finezza d'animo, capacità di attendere e fiducia.
 

Come sperare la Chiesa che verrà?

Quanto ho appena detto è preambolo importante, per poter trattare con frutto il difficile tema della Chiesa del futuro. Come sperare la Chiesa che verrà?
 
Crisi e transizione

Se l'esercizio del gufo è un esercizio notturno, mi pare che il titolo alluda a una notte della Chiesa in riferimento al suo futuro. Oggi tra gli addetti ai lavori si parla molto del futuro del cristianesimo. Che immagine, che volto, che forma avrà in futuro il cristianesimo? Non si tratta di una domanda oziosa. E' piuttosto la domanda che responsabilmente si pongono persone che avvertono questo come un tempo di transizione per la Chiesa, come un tempo, potremmo dire, di crisi. Abbiamo la netta percezione che i modelli concreti, le forme di Chiesa nelle quali siamo cresciuti, non siano più praticabili: intuiamo che funzionano sempre di meno. E' come se avvertissimo la fine della forza vitale che animava quei modelli e che ora si va come spegnendo. Diventa più viva l'attesa di un tempo nuovo nel quale la Chiesa avrà una forma diversa, perché la Chiesa è il popolo di Dio che, camminando nella storia, sempre si deve riformare.

Non lasciamoci abbagliare dalle immagini del Giubileo. Questo grande evento che ci ha aiutato a riscoprire gli aspetti fondamentali della vita della Chiesa ha segnato duemila anni di una storia, di un'epoca che si sta chiudendo, per aprirne una nuova: ma ci vogliono occhi di gufo per capire che cosa sta succedendo in questa transizione.

Pensate per esempio a un gesto, uno dei più eloquenti che Giovanni Paolo Il ha compiuto, quello della richiesta di perdono ai piedi del crocifisso. Il Giubileo è una istituzione penitenziale, è un tempo nel quale il popolo di Dio è chiamato a convertirsi. Si pensi quanto sia dirompente rispetto all'immagine di Chiesa forte, depositaria di un'infallibiIità su ogni cosa, di una Chiesa che è potente e rispettata nella società, quanto sia dirompente rispetto a tale immagine, la richiesta di perdono che il Papa ha fatto a Gesù crocifisso. Quanta sapienza c'è in questo gesto e quanto è gravido di futuro. Al pari dei gesti dei profeti che rivelano il loro senso via via che la storia scorre, più di tutti i pronunciamenti, delle encicliche, questi segni marcheranno la storia che verrà. Si pensi poi a quell'altro commovente segno di un Papa vecchio che va a Gerusalemme e depone la richiesta di perdono nel Muro del pianto. Questo è un gesto straordinario che sgretola l'immagine "forte" di Chiesa nella quale ancora non pochi si riconoscono.

Una parola anche sulla Giornata Mondiale della Gioventù. Un evento abbagliante, e insieme un evento che chiede alle chiese locali di farsi concretamente carico dei cammini attraverso i quali i giovani in concreto vengono plasmati all'esistenza cristiana così com'è ferialmente, macinata giorno dopo giorno, soprattutto nel momento in cui allo slancio della giovinezza subentra la responsabilità della vita adulta. Quindi non lasciamoci rassicurare troppo da queste immagini, ma comprendiamo il compito che esse ci assegnano. Lo Spirito, quando dà dei segni, edifica e nello stesso tempo istituisce un compito, una responsabilità.
 
Fine della "Chiesa forte"

Alludevo prima a un tempo di crisi e di transizione. Ma quale volto concreto ha questa notte della Chiesa? Per spiegarlo, facciamo un esempio, che è evidentemente avulso dal contesto di questa parrocchia. Parlo della normalità, della consuetudine. La figura di Chiesa che ci accingiamo a superare fa perno su un'immagine "forte" del clero. Pensate alla parrocchia tradizionale, e più segnatamente, al suo punto di riferimento, il prete, persona riconosciuta nella sua leadership, dal temperamento granitico, plasmato da buone abitudini, dalla lettura del Breviario, da un forte spirito di organizzazione. Un prete che comanda, nel senso migliore del termine. Oggi invece il clero giovane non ha questa figura, ma è profondamente caratterizzato dalle comuni dinamiche culturali. In questa prospettiva, ad esempio, il prete giovane spesso si pone in un rapporto tendenzialmente paritario con i giovani affidatigli, mentre tradizionalmente la relazione era più di tipo asimmetrico; il prete aveva un preciso ruolo di guida ed era conscio dei contenuti del proprio ministero. La corrispondente figura dei laici era di impronta subalterna, con una formazione più o meno solida, capace comunque di orientare la vita in senso cristiano.

Anche questa figura di laico comincia ad acquisire contorni più sfumati. Oggi chi vive la responsabilità della famiglia, del lavoro non trova del tutto facile dare un orientamento stabilmente cristiano alla propria esistenza. E' come se fossero venuti a mancare stili di vita, modelli di comportamento: è come se ci si dovesse arrangiare in un brícolage che non di rado ha un esito improbabile, non riuscito.

Il modello di una Chiesa forte, ben strutturata, dove ciascuno aveva un profilo ben definito, oggi sembra giunto a esaurimento.
 
La difficoltà nel trasmettere la fede

La caratteristica secondo me più eloquente di questo passaggio di epoca, è la difficoltà a istituire la trasmissione della fede. Di fronte alle nuove generazioni avvertiamo tutta la delicatezza e la difficoltà di questa transizione, perché è in crisi il concetto stesso di trasmissione. Oggi è come se mancassero le condizioni di base per cui una generazione insegna all'altra il mestiere di vivere. Nella nostra cultura il modello dominante è l'invenzione della vita, il rifiuto di raccogliere il testimone da chi ci precede. Non si accetta l'esperienza di chi ha accumulato riflessioni, capacità di capire come
orientarsi nella vita. E' difficile dire alle nuove generazioni: "Ecco, ti do questo, poi tu lo riplasmerai, perché ogni generazione ha il suo compito specifico; so che a te per vivere serve quanto ti trasmetto, perché così limiterai gli errori, non dovrai ogni volta ricominciare da capo".

Che fare? Inseguire escamotage, colpi di genio, dedicarsi a iniziative che fanno colpo, affascinano, seducono? Queste sono spesso le nostre tentazioni. Ci si affida talvolta a schemi corrivi nei confronti della società dell'immagine e dello spettacolo, a eventi magari seducenti, ma che non incidono sulla vita feriale.
 
Cercate prima il Regno

Che fare allora? Come sperare la Chiesa che verrà? Non possiamo rassegnarci perché è assolutamente estraneo allo spirito di un cristiano il pessimismo. Il cristiano non si lascia mai cadere le braccia. Può perseverare soltanto se si esercita a vedere nella notte, se non si arrende all'evidenza delle immagini e dei fatti.

C'è una splendida immagine dal libro del profeta Isaia, al capitolo 7: si parla di un tempo "notturno", è un periodo di grande crisi politica in cui Israele patisce l'offensiva dei nemici, degli Aramei. Il Signore manda Isaia da Acaz, il re di Giuda, mentre i nemici sono alle porte. Isaia dice al re: "Se non- crederete, non avrete stabilità "Se non crederete", cioè se continuerete a fidarvi della potenza dell'esercito, se confiderete in voi stessi, nelle illusioni religiose di avere Dio sempre a vostra disposizione, non avrete stabilità. E' un paradosso: si pensa di aver stabilità, di aver la terra sotto i piedi soltanto fidando in se stessi, nella propria forza, in quello che si sa fare.

Questa frase la pongo come punto prospettico della parte finale della riflessione. Dobbiamo avere il coraggio di porci questa domanda radicale, cíascuno di noi e ciascuna Chiesa: di che cosa viviamo? Cos'è che ci tiene in vita, cos'è ciò in cui riponiamo fiducia, speranza? "Là dov'è il tuo cuore, è il tuo tesoro" dice il Vangelo. Su che cosa poggiamo i piedi? Su che cosa facciamo affidamento? Porci con coraggio e nello stesso tempo con fiducia queste domande ci aiuta ad aprire gli occhi, toglie il velo delle illusioni e ci dispone al futuro.

Di fronte al tema "come sperare la Chiesa che verrà", devo dirvi che diffido delle immaginazioni e programmazioni a tavolino: sono regolarmente disattese dalla realtà dei fatti, la quale manifesta che il corso degli eventi non è governato da mani di uomo. Il titolo piuttosto evoca in me l'immagine della Gerusalemme celeste che viene dal cielo, da Dio, che non è opera nostra. In questo senso l'immagine che suggella la Scrittura è assolutamente eloquente: sempre dobbiamo sospettare dei discorsi in cui appare questa espressione che nella Bibbia non ricorre neanche una volta: "costruire il Regno di Dio". Il Regno di Dio non lo si costruisce, il Regno di Dio lo si eredita, lo si accoglie, il Regno viene. Grazie a Dio, non siamo noi a costruire il suo Regno ma è Lui. E allora è per questo motivo che occorre diffidare di coloro che dicono: pensiamo, immaginiamo, programmiamo. Questo espone all'affanno, all'illusione, a un protagonismo ínsano per un cristiano.

La via maestra per la Chiesa del futuro mi parrebbe invece la seguente: "Cercate prima il Regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in più". Il tempo della transizione è il tempo nel quale non ci dobbiamo preoccupare di creare delle figure, delle forme concrete di Chiesa. E' il tempo nel quale dobbiamo porci di fronte all'essenziale. Penso che se vogliamo consentire alla Parola di fare la sua corsa tra gli uomini di questo tempo attraverso la Chiesa, dobbiamo coltivare tre preoccupazioni fondamentalí che nomino così:

° Indugiare presso la sorgente.

° "I poveri li avrete sempre con voi".

° L'appassionata lettura della condizione comune degli uomini e delle donne di questo tempo.

Queste sono, a mio avviso, le tre grandi prospettive che dovremmo coltivare. Poi lo Spirito Santo susciterà nuove forme di Chiesa. Non dobbiamo avere noi la presunzione di costruire la Chiesa, Dobbiamo avere invece la preoccupazione di incentrare i nostri pensierí e il nostro cuore su questi tre grandi temi nei quali si concreta la ricerca del Regno di Dio.

° Indugiare presso la sorgente.

Ciò attraverso tre modalità tipiche che l'ininterrotta tradizione di generazioni e generazioni di cristiani ci ha consegnato: ritornare a Gesù e al suo Vangelo, vivere l'Eucaristia e riconoscere il primato di Dio nel cuore a cuore della preghiera.

- Ritornare a Gesù e al suo Vangelo - Questo indugiare presso la sorgente deve essere libero da preoccupazioni, deve essere come la distesa, riconoscente accoglienza di ciò che veramente ci serve per vivere. E' quel primato di Dio che lo Spirito Santo ha chiesto alla sua Chiesa di riconoscere con rinnovato nitore nel Vaticano II. E' come se lo Spirito Santo avesse soffiato con straordinaria forza ed efficacia per dire: "Il tempo, la storia sta cambiando; se tu vuoi essere fedele alla storia che erediti, devi riscoprire con particolare nitore il primato di Dio e della sua Parola". Ritornare a Gesù con semplicità, ritornare alla storia che i Vangeli ci raccontano, capirne il senso, capire qual era la preoccupazione fondamentale di Gesù e che proprio questa preoccupazione lo ha portato a quella fine. Capire che lui aveva come indistruttibile punto di riferimento della sua missione quello di rivelare la verità di Dio, perché noi, soprattutto noi uomini e donne religiosi, abbiamo una straordinaria capacità di camuffare Dio, di cambiarne i connotati, di immaginare cose su di lui che sono assolutamente offensive nei suoi confronti. Gesù ci riconsegna nel sigillo definitivo della sua morte l'immagine di Dio che, nella nota espressione di un teologo milanese, è dedizione incondizionata, di un Dio che è appunto dono di sé senza riserve, che si mostra unilateralmente vicino soprattutto a coloro il cui desiderio di vivere è minacciato: i peccatori, coloro che soffrono, gli storpi, i ciechi. Vi ricordate quando i discepoli di Giovanni il Battista - la cui predicazione era così minacciosa - incontrano Gesù? Giovanni Battista intuisce che Gesù è colui che doveva venire, ma il suo comportamento è strano: mangia con i peccatori, si mostra vicino, senza complessi, alla vita di coloro che sono compromessi, è chiamato mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori; allora i discepoli del Battista, incaricati dal loro maestro, vanno da Gesù e gli dicono: "Giovanni ci dice di chiederti se sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro". In quello stesso momento Gesù comincia a guarire lebbrosi, ciechi, storpi e dice ai discepoli di Giovanni: "Andate e riferite a Giovanni quello che vedete". Che cosa vuol significare questa immagine? Vuol dire che Dio è unilateralmente vicino al suo popolo. Voi non trovate nel Vangelo, nel Nuovo Testamento un miracolo o un intervento prodigioso di Dio che fa del male agli uomini. E' rigorosamente unilaterale per il loro bene. Dio è così, non lo si deve immaginare nella forma di un faraone davanti al quale strisciare o contrattare, offrire il sacrificio più raffinato per tenerlo buono e nel frattempo fare i propri interessi. Dio non è così. Ritornare a Gesù e riscoprire l'incanto del Vangelo, questa freschezza del volto di Dio sulla quale Gesù non è arretrato di un millimetro al punto tale da morire sulla croce.

- Vivere l'Eucaristia - L'Eucaristia è il luogo dell'íncontro con questo Dio, il segno in cui Gesù ha voluto essere ricordato per sempre: "Fate questo in memoria di me". L'Eucaristia è il pane, il cibo di un popolo in cammino nella storia, che ogni settimana ha bisogno di ricordare e di farsi ricordare da Dio chi lui veramente sia attraverso il gesto della frazione del pane e della distribuzione della coppa, gesto che anticipa la Pasqua, segno eloquente del passaggio di Gesù. Quanto è importante celebrare l'Eucaristia come momento altro e diverso rispetto alla ferialità dei nostri giorni, tempo nel quale ci è ridonata la Pasqua di Gesù, la sua storia, quel Dio che lui ci ha rivelato una volta per sempre come Padre. Quanto dobbiamo prenderci cura di una celebrazione sapiente dell'Eucaristia, perché lì troviamo la sorgente nel tempo e nella modalità del rito, così come ritroviamo la sorgente e indugiamo nella sorgente nella modalità del racconto, quando ci riaccostiamo al Vangelo di Gesù e alla sua storia.

- Il cuore a cuore della preghiera - Poi il cristianesimo del futuro dovrà riconoscere sempre più nitidamente la preghiera, lo stare cuore a cuore con Dio. Dio desidera solo questo. Magari non lo troviamo, magari i nostri occhi non sono propriamente quelli del gufo, ma di persona che íncomincia a esercitarsi nell'aguzzare lo sguardo. Abbiamo bisogno, però, del tempo della preghiera, di riconoscere il suo primato nella vita per dare una qualità veramente evangelica ai nostri giorni.

Questa è la questione più radicale, la questione di Dio, e per porcela dobbiamo indugiare presso la sorgente, ma non al modo di un dovere, bensì al modo di chi si dispone a ricevere il dono più prezioso, quello che non verrà mai tolto.

° "I poveri li avrete sempre con voi".

La Chiesa del futuro deve porsi di fronte a questa parola come davanti a un punto intrattabile. La Chiesa non deve venire a patti con i potenti, non è quello il suo luogo. La Chiesa non deve cercare la gloria di se stessa, la Chiesa deve mostrare la dedizione di Dio attraverso questa compagnia dei poveri. E' come se lì fosse il suo luogo naturale. E la carità è la forma della Chiesa, ci dicono; la carità, cioè questo gratuito stare presso i poveri, plasma la Chiesa, le dà una figura, un'immagine riconoscibile. Stare presso gli svantaggiati della storia, quelli che non hanno niente da sperare, gli sconfitti, quelli che la prepotenza delle dinamiche politiche e sociali mette ai margini. Questi sono i poveri. I poveri sono in genere tutti coloro che hanno bisogno, non sanno dove andare. La Chiesa deve indugiare lì.

° L'appassionata lettura della condizione comune degli uomini e delle donne di questo tempo.

E da ultimo la Chiesa del futuro deve avere anche l'acuta percezione di che cosa c'è dentro il cuore degli uomini. Deve saper leggere, capire, al punto che la parola rivolta all'uomo di questo tempo deve suscitare la riconoscenza di chi sente interpretato il proprio vissuto, di chi è aiutato a leggere il senso dei propri giorni e a trovare una direzione affidabile per il proprio cammino. La Chiesa deve diventare il popolo di coloro che hanno gli occhi acuti per capire chi sono gli uomini e le donne di questo tempo, per aiutarli a riconoscere se stessi. Si tratta di una delle forme più alte di carità.

Sciogliere le vele

Vorrei chiudere con una pagina evangelica che esprime, secondo me, l'icona più bella per dire che cosa ci attende: è il capitolo 21 del vangelo di Giovanni, uno dei racconti della Risurrezione: "Dopo questi fatti Gesù si manifestò di nuovo sul mare di Tíberiade e si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. E disse loro Simon Pietro: "Io vado a pescare". Gli dissero: "Veniamo anche noi con te". Allora uscirono e salirono sulla barca, ma in quella notte non presero nulla" (ritorna l'immagine della notte, dell'inutilità dell'opera delle proprie mani). "Quando era già l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù [il nascondimento]. E Gesù disse loro: "Fíglioli, non avete nulla da mangiare?". Gli risposero: "No". Allora disse loro: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. E allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "E' Il Signore! ". Trovo questo brano straordinariamente efficace per tracciarci un cammino. Se confidiamo nelle nostre forze, se ci lambicchiamo il cervello sul futuro da dare alla nostra Chiesa, non prenderemo un pesce nel mare aperto che è questo tempo e da questa storia non sapremo cavar nulla. Oggi è il tempo in cui la Chiesa deve navigare in mare aperto, senza più certezze riposte in se stessa: la Chiesa è come chiamata a sciogliere le vele, a fidarsi del suo Signore, della Parola. Nella versione lucana della pesca miracolosa, si dice: "Signore, sulla tua parola getteremo le reti". Ritengo che questa sia la cosa più bella che come Chiesa possiamo dire a Gesù. Che cosa succederà allora? Succederà quello che infallibilmente accade a chi si fida del Signore: una impressionante sovrabbondanza di doni. "E' il Signore": lo riconosceremo misteriosamente presente nella nostra storia. Nella notte i nostri occhi di gufo diventeranno capaci di riconoscerlo, perché avremo cominciato a fidarci della sua Parola.

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I capitoli:

Occhi di gufo...
Come sperare la chiesa che verrà
crisi e transizione
fine della chiesa "forte"
difficoltà nel trasmettere la fede
cercate prima il regno
sciogliere le vele

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