LE RADICI DEGLI OCCHI
SONO NEL CUORE Gli altri... da inferno a speranza
Stefano Guarinelli
Cultura e sviluppo
Che cosa si potrebbe dire dell'influsso della cultura sullo sviluppo? Il tema è complesso,
evidentemente; tanto complesso da scoraggiare tentativi di comprensione pacata e non ideologica.
Infatti, nella vita di tutti i giorni l'interpretazione di fatti di cronaca che per la loro gravità
ed efferatezza sembrano chiamare in causa presunte stranezze nel funzionamento psichico di qualcuno,
non riesce sovente a non oscillare fra le generiche accuse rivolte alla società, o alla cultura,
appunto, del nostro tempo, da un lato, e la pur ineliminabile responsabilità del soggetto individuo,
dall'altro. Come se la psicologia, emancipatasi da un sospetto debito deterministico nei confronti
del dato biologico, pretendesse di ritrovarne uno, formalmente identico, nell'ambiente.
Non si esce dal dilemma se non assumendo sul serio la prospettiva interazionista
(K.S. Berger Lo sviluppo della persona, Zanichelli, Bologna 1996, 11-12), e non soltanto
a parole. «Sul serio» significa che la vicenda di ciascun essere umano di questo pianeta è veramente unica,
originale e irripetibile e che per «capire» occorre «interpretare», cioè entrare in relazione con quel
soggetto specifico; e non già limitarsi a rivestire un avvenimento di un modello teorico più o meno sofisticato. Altrimenti, alla fine, le letture degli avvenimenti che capitano attorno a noi e perfino dentro di noi, rischiano di salvare i modelli, di perpetuare le teorie; non di farci accostare realmente le persone e l'irriducibile originalità delle situazioni.
Cosa risponderebbe la psicologia psicoanalitica alla domanda di partenza? Qualcuno potrebbe storcere il
naso all'idea di ricondurre la psicoanalisi in una prospettiva interazionista. Ritengo, tuttavia, che
costituirebbe un'indebita semplificazione, quella di inquadrare la psicoanalisi, soprattutto quella contemporanea,
in un determinismo naturalistico. In un certo senso la soluzione psicoanalitica è piuttosto semplice.
L'influsso della cultura sta nel giungere a penalizzare la possibilità di un libero soddisfacimento
dei bisogni. La cultura, infatti, con le sue norme morali e le sue regole sociali, sarebbe la vera
responsabile di quella istanza intrapsichica detta super~io che rappresenta l'introiezione operata
dal soggetto di tutti gli impedimenti posti all'individuo e alla collettività e, correlativamente,
di tutte le rappresentazioni ideali dell'individuo e della collettività.
Anche in questo caso tuttavia si può rilevare come la prospettiva psicoanalitica sia profondamente
influenzata dal suo punto prospettico, dal suo assunto di base, che è fondamentalmente l'interesse
per il campo intrapsichico(R.D. STOLOROW - G.E. ATWOOD, I contesti dell'essere, Bollati Boringhieri,
Torino 1995. Cfr. anche P. CATTORINI, La morale dei sogni, EDB, Bologna 1999).
Una prospettiva intersoggettiva, al contrario, mette in luce come
l'aspetto strutturalmente relazionale delle primissíme configurazioni comportamentali dell'individuo
sia culturalmente connotato, precisamente perché le strutture del singolo, anche del bambino di pochi
mesi o addirittura di pochi giorni di vita prenatale, appartengono al rapporto con un «altro» che
lo accudisce in una modalità che non può essere sganciata dalla sua collocazione epocale, ovvero
culturale. Per la strutturazione di un sé coeso, ovvero di una personalità non disorganízzata,
sono decisivi alcuni apporti materni che non possono non risentire degli influssi ambientali:
la capacità empatica, la disponibilità fisica, il grado di ansietà, la sollecitazione emotiva,
e cosi via... Così, se è pur vero che i bisogni fondamentali di un individuo nelle primissime
fasi dello sviluppo sono in un certo senso transculturali, ovvero mantengono una certa invariabilità
da cultura a cultura, sarebbe ingenuo o riduttivo ritenere codesta invariabilità assoluta, ovvero
ritenere che all'interno dell'itinerario di sviluppo il soggetto incontri i valori
soltanto da un certo punto in poi, e specificamente quando si trova nella condizione di
poterli riconoscere come tali, concretamente almeno in quelle fasi dello sviluppo cognitivo in cui
è all'opera un'intelligenza rappresentativa, in grado cioè di sostenere una capacità almeno
embrionale di simbolizzazíone.
L'originario etico
Lo sviluppo della persona umana potrebbe essere pensato come la storia delle risposte alle molte
domande aperte del soggetto. Le differenti teorie dello sviluppo psicologico si focalizzano ora su
questa, ora su quella domanda, facendo dello sviluppo la storia delle risposte alle domande psicosociali,
o alle domande di significato, o alle domande cognitive, e così via... Pretese diverse, istanze differenti,
eppure tutte in fondo riconducibili alla categoria della domanda, ovvero della richiesta posta dal soggetto
all'ambiente. I modi in cui il soggetto riceve risposta, o ríesce a ricevere risposta, a quelle domande,
sedimentano una storia di sviluppo che a sua volta diventa un dato con cui il soggetto stesso è posto
costantemente in dialogo nel suo agire e nel suo divenire.
Fatta questa premessa si può allora affermare che se da un lato è pur vero che quelle domande,
che sono in fondo i motori dello sviluppo psicologico, sono domande poste dal soggetto all'ambiente,
dall'altro sembra altrettanto vero che tali domande sono a loro volta non un semplice prodotto del
soggetto inteso come mente isolata, ma del soggetto che le elabora come esito di un processo che è
in origine un processo di interazione. Ciò equivale a dire che le domande del soggetto all'ambiente
sono suscitate dal soggetto e dall'ambiente, simultaneamente.
Vediamo un esempio: una possibile domanda che il soggetto pone all'ambiente è di essere nutrito. E'
facile cogliere subito come la domanda così posta sia transculturale. Tuttavia, soltanto in astratto
possiamo parlare del bisogno di essere nutrito come di una domanda isolata che come tale si presenta
con chiarezza alla consapevolezza del bambino. Essa, invece, è parte di uno schema di comportamento
sensomotorio che coinvolge altre domande del soggetto. Cosi alla domanda di essere nutrito si
sovrappongono altre doman e; e tutte insieme non possono prescindere concretamente, ad esempio,
dalla modalità di accudimento assunta da chi si fa carico di nutrire. Subito si nota come
l'eventuale transculturalità incroci modalità che, a questo punto e con maggiore evidenza,
non sono identiche nel passaggio da una cultura a un'altra, ma pure da un'epoca a un'altra.
Ma c'è di più: la modalità di accudimento è in un certo senso già parte della domanda stessa,
proprio perché il soggetto è strutturalmente in interazione con chi lo accudisce. Ciò equivale a
dire che la domanda non viene caratterizzata dal contesto culturale soltanto perché il contesto
culturale agisce sulla risposta possibile, ma assai di più perché agisce sulla domanda stessa.
In questo si dà una distanziazione dalle intuizioni della psicoanalisi classica che finiva per
collocare il biologico da un lato (l'id) e il culturale dall'altro (il super-io); mediati, quasi
interfacciati, ma non senza difficoltà, da quella funzione di governo omeostatica che è l'io.
La distanziazione consegue alla consapevolezza che questo approccio è in fondo biologista, e
che, al contrario, c'è un originario etico che non è momento secondo rispetto al principio biologico.
Dalla repressione alla depressíone
Dunque i valori sono parte integrante dello sviluppo già dalle sue primissime fasi. Ed i valori
sono implicitamente o esplicitamente offerti dall'ambiente e dunque dalla sua cultura. Se, come
si è detto, i motori dello sviluppo sono le molte domande aperte che il soggetto incontra sul
proprio cammino, è possibile individuare alcune tendenze peculiari della cultura del nostro tempo
in grado di indurre specifiche domande nel soggetto? E' evidente che un approccio del genere
rischia di diventare di una complessità insostenibile o, al
contrario, di una tale genericità da non valere se non in un senso statistico assai approssimativo
e altrettanto impreciso. La necessità di un passaggio a un'analisi sociologica a questo punto appare evidente.
In ogni caso, e in attesa di analisi epocali più raffinate, quali potrebbero essere le domande che
il soggetto contemporaneo pone al suo ambiente, che sono appunto domande indotte o mediate dalla
relazione con l'ambiente e che in un certo senso sono peculiari rispetto a un passato recente o remoto?
Lo studio dei due psichiatri olandesi Terruwe e Baars(A.A. TERRUWE - C.W. BAARS, Amare e curare
i nevrotici, Cittadella, Assisi 1984), redatto nel 1981 per un contesto nordeuropeo e
nordamericano rileva un passaggio interessante. Potremmo sintetizzarne la tesi con la seguente
espressione: in ambito psicologico clinico, la seconda metà del secolo si caratterizzerebbe per
un'evoluzione dalla presenza diffusa di nevrosi repressive a quella di nevrosi da privazione.
Insomma, in uno slogan: si è passati dalla repressione alla depressione».
La «scoperta» di Terruwe e Baars potrebbe essere resa, forse banalizzandola un pochino, nel modo
seguente. La generazione dei nostri padri, ma pure quella dei padri dei nostri padri,
aveva approntato, dal punto di vista psicologico, potenti strumenti difensivi, repressivi appunto,
nei confronti di un mondo affettivo e sessuale verso il quale si accanivano una cultura puritana e
un tantino sessuofoba o, nel migliore dei casi, non particolarmente portata all'espressione libera
del sentimento. Da qui la frequenza di nevrosi repressive prodotte dalla rimozione massiccia del
mondo sessuale-affettivo ad opera di un super-io collettivo moralista e bacchettone.
Al di là del linguaggio, che inclina verso la psícopatologia, come spesso accade ogniqualvolta si
evoca la psicoanalisi, sembra esserci del vero nella affermazione di Terruwe e Baars: i giovani
cresciuti negli anni Sessanta e Settanta, in questo caso nel nostro paese, per il quale non è
azzardato ipotizzare un «ritardo» rispetto al mondo nordeuropeo e nordamericano di almeno dieci
anni, soffrono, ad esempio, di un'educazione sessuale che nel migliore dei casi è stata «tecnica»,
ovvero semplicemente informativa e non certo educativa, e nel peggiore dei casi invece di un'educazione
sessuale semplicemente assente.
In modo assai diverso, invece, sembrano stare le cose per la generazione dei nostri figli.
La generazione dei nostri figli ha dovuto fare i conti con un fatto nuovo, almeno da un punto
di vista statistico: ha dovuto subire una frequente assenza dei genitori nelle fasi precoci
della crescita. Che i padri siano in genere assenti dal vissuto «in diretta» dei propri figli
non era, e non è tuttora, una novità; che lo fossero anche le madri assai di più. La rilevanza
dell'assenza materna nelle primissime fasi dello sviluppo della personalità di un figlio non può
essere paragonata a quella dell'assenza paterna. Gli studi di psicologia dello sviluppo, seppure
con periodizzazioni e compiti evolutivi talora differenti, concordano nel collocare attorno al
secondo e al terzo anno di vita uno dei periodi critici per la cristallizzazione di possibili
disorganizzazioni che, come sappiamo, rappresentano la soglia della patologia psichica. Al di
là della nomenclatura, si potrebbe dire che per questa generazione di soggetti, non si è trattato
di disporre potenti meccanismi di difesa a tutela del mondo affettivo contrastato dalla morale
corrente, ma piuttosto di ovviare alle esperienze di più o meno consistenti deprivazioni affettive.
Parlare di deprivazione affettiva non corrisponde semplicemente ad affermare che i nostri giovani
sono cresciuti senza affetto. La mancanza di figure affettive di riferimento non ha soltanto una
valenza affettiva nell'accezione del senso comune; ha una valenza affettiva, ma intendendo con
questo termine l'organizzazione prettamente affettiva degli stadi di sviluppo che precedono il
secondo ed il terzo anno di vita del bambino. Parlare di deprivazione affettiva dunque significa
assai di più che ipotizzare nei nostri giovani una domanda aperta di affetto, di amore, e via dicendo.
Significa soprattutto riconoscere come questa domanda affettiva aperta supponga una consistente
vulnerabilità all'interno delle primissime configurazioni comportamentali degli individui. Per
questo abbiamo associato al termine «privazione» quello di «depressione»: si tratta in fondo
della presenza di... un vuoto, piccolo o grande che sia.
Vediamo un po' più in dettaglio che cosa ciò possa significare.
Stadi di vulnerabilità
Uno dei compiti evolutivi di maggiore importanza nei primissimi anni dello sviluppo è
il raggiungimento di quello stadio che viene denominato di permanenza dell'oggetto (M.S. MAHLER
- F PINE - A. BERGMAN La nascita psicologica del bambino, Bollati Boringhieri,
Torino 1978; G.J. CRAIG, Lo sviluppo umano, H Mulino Bologna 1995) . Il soggetto è in
grado di conservare rappresentazioni mentali buone dell'oggetto, in questo caso soprattutto
dell'oggetto materno, anche in presenza di consistenti frustrazioni da parte di lui. Un esempio
semplice: quando la mamma esce di casa e va a fare la spesa, il bambino non vive la separazione
alla stregua di una perdita emozionale. Superata positivamente la fase di permanenza dell'oggetto
il bambino può dire che la mamma è uscita, ma che la mamma continua ad esistere, anche se è uscita.
Se il bambino attraversa frequenti privazioni affettive, precedentemente al raggiungimento dello
stadio di permanenza dell'oggetto, al cuore della sua personalità è come se si creasse una frattura,
piccola o grande. E ciò accade anche laddove il comportamento manifesto non mostrasse alterazioni di
rilievo. Nel linguaggio psicoanalítico, abbiamo una prima fissazione, che lascia aperta per lo
sviluppo futuro una domanda notevole.
Nelle psicologíe che si richiamano alla psicoanalisi la fase di permanenza dell'oggetto è
identificata con terminologie differenti, a seconda del rílievo dato a questo o quel compito
evolutivo. Così taluni autori parlano di fase dell'oggetto-sé, altri di fase di coesione del sé,
altri di fase di separazioneíndividuazione, e altro ancora.
Un autore di grande rilievo, il cui contributo suppone una differenza che va al di là della
puntualizzazione terminologica o della semplice sfumatura, è Winnicott (D.W WINNICOTT, Gioco
e realtà, Armando, Roma 1974). La sua fase del cosiddetto oggetto transizionale più che
sostituire, o seguire, o precedere quella della permanenza dell'oggetto,
sarebbe da considerare al suo interno (J.E. GEDO - A. GOLDBERG, Modelli della mente,
Astrolabio, Roma 1975) alla stregua di un suo compito specifico. Se con oggetto
in psícologia psicoanalitica si intende soprattutto la rappresentazione mentale dell'altro, e
dunque ci si colloca, nel campo relazionale, nel positivo riconoscimento dell'alterità, l'oggetto
transizionale costituisce quell'oggetto intermedio che ha in sé contemporaneamente caratteristiche
dell'alterità e dell'ipseità. Possiede caratteristiche dell'alterità, pur senza costituire un'alterità
ovvero senza essere a sua volta una soggettività oggettiva non del tutto disponibile ai
bisogni del soggetto. Possiede caratteristiche dell'ipseità, fondamentalmente il controllo,
pur senza essere parte interna del soggetto. Il termine transizionale allude precisamente a
questo passaggio: dal riconoscimento dell'oggetto materno quale parte integrante di una matrice
indifferenziata, al riconoscimento dell'oggetto materno quale parte esterna, ma pure in un certo
senso estranea, perché libera e ingovernabile da parte del bambino. Il bambino sa che l'orso di
pelucbe, o la bambola, o la coperta non sono parti di sé; allo stesso tempo però riconosce che
non sono soggetti «altri», nel senso che non sono in grado di assumere iniziative proprie; dunque,
l loro controllo è tutto sotto il governo del bambino. Si vede bene come la logica dell'oggetto
transizionale sia la medesima che anima il gioco come esperienza infantile e pure adulta. In questo
senso ilgioco, in particolare nell'età evolutiva, ha come compito quello di istituire uno spazio
preparatorío alla realtà. Lo spazio del gioco si trova al crocevia di un insieme di regole
dettate dal soggetto e di un altro insieme di regole, provenienti dalla realtà, che con il
procedere dello sviluppo tendono ad aumentare e a specificarsi. Le regole «reali» di un trenino elettrico
superano quelle dell'orso di peluche; ed è per questo che i trenini elettrici si regalano ai bambini
più grandi (o ai loro genitori!): la realtà del treno costituisce una transizione adeguata
verso la realtà «reale».
a tutti gli effetti,
Conseguenze
Da queste sommarie indicazioni si dovrebbe intravedere il nesso o l'analogia che intercorrono
fra la permanenza dell'oggetto e l'oggetto transizionale. Un'eccessiva assenza dell'oggetto
affettivo, propriamente dell'oggetto materno, rischia non già di non consentire al bambino di
entrare nello stadio dell'oggetto transizionale, ma propriamente di non uscirvi più, o di non
uscirvi del tutto. Se funzione dell'oggetto transizionale è appunto quella di attutire il
passaggio dal sé all'altro, farà problema ogni storia dello sviluppo senza giochi, ma altrettanto
ogni storia dello sviluppo senza «altro» ad attendere l'uscita dal gioco. L'enfasi, anche,
commerciale, posta sui giocattoli, oggi rende statisticamente improbabili vulnerabilità al
livello di ingresso nello stadio dell'oggetto transizíonale; viceversa l'assenza fisica dell'oggetto
affettivo, vero termine, scopo, della transizione, può rendere quella dell'oggetto transizionale
una sorta di fase senza uscita, fissata dunque, non già per mancanza di una risposta adeguata
dentro la fase, ma per mancanza di un seguito al difuori della fase.
Non tutte le fissazioni nei diversi stadi di sviluppo sono uguali, benché talora presentino
effetti apparentemente simili. Una fissazione da deficit affettivo e una fissazione per eccesso
di gratificazione affettiva, ad esempio, possono favorire fragilità strutturali del tutto simili.
Nel primo caso, però, c'è una fissazione perché in un certo senso A compito proprio dello stadio
non è stato eseguito; dunque il soggetto nel corso della sua vita tenderà a dare una risposta,
una soluzione, a quel problema rimasto aperto. Nel secondo caso, invece, il compito è stato eseguito
talmente bene che è come se A soggetto non volesse fare altro per tutta la sua vita. Così accade per
uno stadio dell'oggetto transizionale: questo non si è fissato per mancanza di risposte proprie dello
stadio, ma si è fissato perché è divenuto una dimora, un nido confortevole, di fronte alle incertezze
del passaggio successivo.
Dunque, a partire dalle considerazioni di Terruwe e Baars e dalle loro possibili conseguenze
all'interno delle strutture e dei processi dei soggetti in sviluppo, sembra di poter giungere
a questa concl usione: la deprivazione affettiva, quel tratto depressivo di cui si diceva, che
caratterizza almeno in un senso statistico le giovani generazioni, favorisce soprattutto una
fissazione negli stadi di permanenza dell'oggetto e dell'oggetto transízionale. Come si è detto
le due fissazioni agiscono simultaneamente, ma sotto la spinta di due dinamismi di segno opposto
e che quasi si richiamano l'un l'altro. In una singola espressione si potrebbe dire che la domanda
aperta suscitata dal mancato consolidamento dello stadio di permanenza dell'oggetto affettivo trova
una sua soluzione nello «stare», nel «mettere radici», all'interno dello stadio dell'oggetto transizionale.
Che ne è di questi dinamismi, presenti dunque con maggiore frequenza nelle giovani generazioni,
quando il soggetto vive l'esperienza dell'incontro con l'alterità?
Proverò a circoscrivere, ancorché in modo esemplificativo, l'esperienza della relazione con tre
diverse alterità: il rapporto con quella alterítà misteriosa che è il mondo religioso; il rapporto
con quel sé che è insieme altro-da-sé che è la propria corporeità; e infine il rapporto con l'altro.
La successione così proposta, dal religioso all'interpersonale passando per la corporeità, trova
la sua ragione nel fatto che nell'ultimo ambito mi pare possano essere raccolte con maggiore
evidenza alcune ístanze emergenti negli altri due.
Il rapporto con l'Altro
Alcuni giovani d'oggi incontrano il «fatto» religioso. E il religioso dei nostri giorni sembra
assumere una tonalità più marcatamente affettiva che in passato; qualcuno la chiama perfino mistica,
(R, MARCHISIO Forme di spiritualità misticbe e contesto culturale contemporaneo,
in «Credere Oggi» 20/3 (2000), 77-89.) o «misticheggiante».
Anche i giovani cristiani che si accostano all'esperienza religiosa sono giovani del nostro tempo
ed è perfino banale ricordare che il fatto stesso che frequentino più o meno assiduamente la vita
della chiesa non li estrania da alcune tendenze epocali, tanto più se queste hanno in qualche misura
agito all'interno di un percorso di sviluppo personale che li ha visti, almeno in quelle fasi che
stiamo esaminando qui, alla stregua di protagonisti tutto sommato passivi.
Sono le loro domande aperte a trovare risposta nel fatto religioso oppure è il fatto religioso che
li conduce a incontrare alcune domande psicologiche aperte? Sarebbe pretestuoso dare una risposta.
Ogni storia personale, ma anche di vita comunitaria, ha il proprio percorso, unico e originale. Mi
pare, però, che a un livello generale possiamo dire che nella generazione «precedente» le domande
aperte rispetto ad alcune tendenze repressive coinvolgevano fortemente il mondo dei valori. Anche
in quel caso i valori erano scelti Sì come validi in se stessi, ma pure assunti come risposte
possibili ad altrettante domande aperte di uno sviluppo psicologico segnato da tendenze epocali.
Così una generazione penalizzata sotto il profilo affettivo, ma in questo caso di un'affettività meno
precoce di quella dello stadio di permanenza dell'oggetto aveva da smaltire una grande tensione
aggressiva e trasgressiva, che poteva essere convogliata in risposte all'apparenza diversissime,
eppure psicologicamente animate da istanze simili o addirittura identiche. L'istanza di base avrebbe
potuto essere quella di ribellarsi alla repressione.
Tale repressione avveniva in nome di alcuni valori; e la risposta ha potuto e ha voluto prendere
anch'essa forma etica, in modi diversi e perfino violenti, ma raramente sganciati da alcune tensioni ideali.
Nella generazione attuale le domande aperte coinvolgono di meno il mondo dei valori, perché l'istanza
in gioco non è esplicitamente etica (Con ciò non siamo in contraddizione con quanto si affermava
all'inizio, riguardo alla rilevanza dell'etico nelle prime configurazioni comportamentali. Qui intendiamo
sottolineare il fatto che il confronto o il conflitto rispetto ad alcuni valori possono avere luogo
nella misura in cui i valori sono conosciuti come tali. Ciò suppone un livello cognitivo adeguatamente
sviluppato; fatto, questo, che è impensabile nelle fasi di permanenza dell'oggetto affettivo o dell'oggetto
transizionale.), quale poteva essere quella in atto nei processi repressivi.
Le domande aperte relative allo stadio di permanenza dell'oggetto e a quello dell'oggetto transizionale
ambiscono ad una alterità affettiva.
In primo luogo, si tratta di un'affettività premorale (Cfr. quanto alla nota precedente),
perché troppo vincolata alle istanze di un narcisismo primario, normale e accettabile nelle primissime
fasi dello sviluppo, ma che in questo caso si è fissato, rischiando di rimanere domanda aperta di
tutta una cultura. E non sembra casuale rilevare come quella del narcisismo sia stata l'etichetta
con cui si è inteso identificare un'intera tendenza epocale (C. LASCH, La cultura del
narcisismo, Bompiani, Milano 198 1). In secondo luogo, si tratta di una
alterità non troppo... «altra», perché l'indisponibifità dell'oggetto affettivo, fuori dal comodo
spazio transizionale, ha reso l'esperienza dell'altro più una minaccia che un incontro atteso e suadente.
Il risultato è che perfino l'inevitabile componente aggressiva e trasgressiva, che scaturisce da
ogni frustrazione, ha finito per assumere modalità tendenzialmente prive di contenuti valoriali.
Un piccolo esempio mi sembra interessante: nel '68 e nel '77 i giovani imbrattavano i muri
con scritte di protesta, che veicolavano un contenuto politico o sociale, che attíngeva a
matrici ideologiche diverse. Negli anni '80, '90 e ancora all'inizio del nuovo millennio,
i giovani imbrattano i muri di graffití che sono l'ossessiva ripetizione di una sigla che
identifica l'autore. La sigla è incomprensibile, in quanto non è il suo contenuto, ma il suo
autore a volersi «dire», in una modalità volutamente trasgressiva, che si impone, talora perfino
in modo distruttivo. Si potrebbe dire che al centro dei graffiti non c'è un quadro o un dipinto,
ma la firma del suo autore. Questo è il messaggio. Riempire la città di «segni di sé» da taluni
è paragonato a una sorta di delimitazíone del territorio tipica del mondo animale; più probabilmente
siamo all'interno di un residuo di narcisismo primario, di un bisogno di affermazione di sé che
dice precisamente la debolezza di una percezione di sé, e che allude dunque al debole consolidamento
di quello stadio di permanenza dell'oggetto.
La persona che vive una domanda aperta che può essere fatta risalire allo stadio di permanenza
dell'oggetto affettivo ha introiettato una debole percezione di sé, perché la non permanenza
dell'altro è un attributo di sé. Non si dimentichi che l'esperienza di permanenza dell'oggetto
è un'esperienza prettamente emozionale. La mancata introiezione di emozioni di presenza rende
il soggetto bisognoso di emozioni che con la loro presenza inequivocabílmente dicano al soggetto
stesso: «Ci sei! ». Un insieme di emozioni forti, intense, perfino violente, può diventare un
surrogato di quella risposta dell'oggetto affettivo che non c'è stata o che c'è stata in modo i
nsufficiente. Come tutte le risposte adulte a domande infantili o primitive, l'intenso vissuto
emozionale se da un lato «risponde», dall'altro lo fa in un modo inevitabilmente parziale,
rilanciando così le domande di partenza, senza mai esaurirle, coinvolgendo il soggetto adulto
in una ricerca del «di píù» che non si accontenterà mai delle mete raggiunte e che lo coinvolgerà
n un circolo vizioso potenzialmente perfino pericoloso.
La discoteca e certa religiosità misticheggíante sono, psicologicamente parlando, risposte
apparentemente diverse a domande simili o identiche? A questo punto si potrebbe rispondere
in modo affermativo. In entrambi i casi si tratta di possibili risposte emozionali, di tipo
diverso, e che tuttavia svolgono una funzione analoga. Si potrebbe dire che nel caso della
discoteca prevale il momento emozionale intenso, quasi violento, in cui al bisogno di permanenza
dell'oggetto si fonde la componente aggressiva conseguente alla sua frustrazione, o la necessità
di una continua reiterazíone dell'emozionale in un crescendo di intensità, riproducendo in
questo modo un processo del tutto simile a quello dell'ossessione. Nel caso dello spazio mistico
prevale invece un emozionale prossimo a quello richiesto come risposta alla permanenza
dell'oggetto: la rísposa invocata dal bimbo è quella di un emozionale tenero, dal tratto lieve,
lontano dalle iperstimolazíoni che, come sappiamo, sono assai problematiche nelle fasi più
precoci dello sviluppo.
Il rapporto ambivalente con il proprio corpo
La relazione con la propria corporeità è complessa e presenta andamentí talora perfino
contrapposti. In un certo senso, mantenendo per analogía con la psicologia dello sviluppo, l'idea
che la cultura promuova una sorta di narcisismo collettivo, ciò non deve stupire: uno dei meccanismi
di difesa caratteristici dei cosiddettí stati limite, o borderline, di cui il narcisismo patologico
è parte, è precisamente quello detto di scissione. Le immagini contrapposte di sé e dell'altro vengono
tenute separate e in fondo «utilizzate» solo per esclusione di quella contraria. Da qui il soggetto
che opera la scissione alterna giudizi contrapposti sulla medesima realtà, la quale, dunque,
in questo modo, viene ogni volta rappresentata come tutta buona oppure come tutta cattiva.
Ciò appare di rilievo. L'esaltazione della corporeità, l'edonismo, l'ossessione per la bellezza
e la sua conservazione, vanno di pari passo con alcune forme estetiche all'ínterno delle quali
il corpo sembrerebbe piuttosto maltrattato, oppure esaltato maltrattandolo: il piercíng è un
simbolo eloquente di ciò e, mi pare che la sua stessa natura non consenta di identificarlo troppo
sbrigativamente con una semplice evoluzione del tatuaggio. Oppure: può essere considerato in
continuità con quello, ma a partire da un salto epocale, senza la comprensione del quale
probabilmente sarebbe difficile coglierne l'eventuale funzione psicodinarnica.
Per quanto sia scorretto procedere seguendo eccessive generalízzazioni, sembra che il dolore
o il disagio arrecato dal piercíng siano, perlomeno con una certa frequenza, parte integrante dell'esperienza
(Cfr. G. PIETROPOLLI CHARMET - A. MARCAZZAN, Piercing e tatuaggio. Manipolazioni del corpo in
adolescenza, Franco Angeli, Milano 2000, 106-107).
Una generazione di masochisti, dunque, quella dei nostri giovani?
Innanzitutto si dovrebbe dire che se A soggetto è comunque alla ricerca di emozioni di
presenza, l'esaltazione della bellezza, il «corpo sognato», si rivela meno in grado di
offrirne la garanzia. Non così il corpo manipolato, che «si sente», forse che addirittura
«disturba», come nel caso del píercing, e non soltanto il corpo decorato, come nel caso del tatuaggio.
Nota Ciaramelli come «il raggiungimento immediato della felicità [sia] il contenuto indiscusso
dell'unico imperativo categorico davvero in vigore nella nostra epoca» (F. CIARAMELLI,
La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell'epoca del consumo di massa, Dedalo, Bari 2000,
5). Con l'intenzione di
venire incontro a una síffatta, narcisistica pretesa, si è mobilitata la civiltà del consumo:
ogni desiderio deve essere esaudito. Ancora Ciaramelli osserva: «La prospettiva coatta della
piena realizzazione [del desiderio] ne minaccia la sopravvivenza. Ridotto a mera tendenza a
ripetere una precedente esperienza di piacere, 9 desiderio soccombe davanti al possesso
pieno del desiderato [ ... 1 Lo « scacco del desiderio" provoca angoscia, insicurezza, perdita d'identità»"
(Ibid., 5-6. Cfr. anche R. Girard, Il risentimento, Cortina, Milano 1999).
In fondo la domanda di identità, che è compito evolutivo di alcuni passaggi chiave dello
sviluppo della personalità, si accompagna sempre con una certa dose di aggressività. In
questo senso si può cogliere la funzione progressiva, evolutíva dell'aggressívità. Essa
potrebbe essere associata al bísogno di «procedere oltre», all'energia psichica «allo stato
puro», all'urlo di guerra che suggestiona e stimola il soggetto a saltare in uno stadio inedito
del proprio sviluppo. In questo caso, invece, è come se l'aggressività rimanesse fluttuante,
non adeguatamente investita in un passaggio che in realtà non si dà, perché il desiderio di «andare
avanti» è svanito. L'individuo ha affondato le proprie radici nello stadio dell'oggetto transízionale.
A questo punto, dunque, assumendo il termine nella sua accezione propria e non in quella del
senso comune, si può dire senza imbarazzo che alcuni fenomeni quali appunto il piercing sono
masochisti. In questa accezione, infatti, masochismo significa semplicemente assumere l'aggressività,
potremmo dire, non utilizzata in modo progressivo, e dunque presente come in modo fluttuante, e
assegnarle un luogo, così da poterla contemporaneamente controllare" (Cfr. E. BECKER,
The Denial of Death, Free Press Paperbacks, New York 1997, 244-248; I. BIEBER, The Meaning of
Masochism, in «American journal of Psychotherapy» 7 (1953)). Inoltre, ma ciò vale soprattutto
all'interno di stadi evolutivi aperti quali l'adolescenza e la giovinezza, nella valenza iniziatica
che il simbolo del píercing conferisce, si ha una sorta di reinvestimento dell'aggressività in modo
progressivo, quale istanza evolutiva.
La prospettiva di Kernberg suggerisce poi un altro percorso possibile. Lo scontro fra la pretesa
narcisistica del desiderio, da un lato, e la consapevolezza della sua irrealizzabilità, dall'altro,
attiva un processo del tutto analogo a quello conseguente all'integrazione delle funzioni del super-io,
così come focalizza la psicoanalisi classica: «Il prezzo pagato per l'integrazione delle normali funzioni
del super-ío è la tendenza a sviluppare sensi di colpa inconsci quando vengono attivati i derivati di
pulsioni infantili rimosse»" (O.F.KERNBERG, Aggressività, disturbi della personalità
e perversioni. Cortina, Milano 1993, 42).
In questo caso se la domanda aperta ha a che fare con il residuo di
una deprivazione affettiva, la pretesa narcísista dell'emozione di presenza conduce a una forma
frustrante che assume una medesima modalità di presenza, la quale «punisce» la pretesa. Ecco il
masochismo. In questo, dunque, la funzione del masochismo del piercing rappresenterebbe una sorta
di risposta meno autofrustrante rispetto a quella di riconoscere l'illusorietà di un'espansione
illimitata del desiderio, con la conseguente morte del desiderio stesso, così come si accennava poco sopra.
Nell'intreccio di questi processi, dunque, possiamo giungere al medesimo risultato, sia partendo
dalla morte del desiderio, sia partendo dalla sua esaltazione narcisistica che è comunque preludio
alla morte del desiderio stesso.
Rimarrebbe aperta, a rigore, una questione non di poco conto: perché proprio il píercing?
Ovvero: come mai l'intreccio di tali processi, evídentemente originali nella vicenda del singolo,
trovano risposta in una «cosa» quale il piercing (e i suoi correlati, quali branding, cutting, ecc ... )?
La questione esula un po' da una riflessione psicologica e, a mio parere, investe la sociologia
e l'antropologia culturale. Mi paiono assai stimolanti, in proposito, ancora le riflessioni di
Ciaramelli il quale, riprendendo Mircea Eliade, individuerebbe l'emergere all'interno della
nostra cultura di «una rinnovata figura della nostalgia delle origíni» (CIARAMELLI,
op.cit., 7). In effetti il fenomeno del píercíng sembra assai vicino ad altre pratiche
iniziatiche della cultura tribale e religiosa. In ciò, assumendo l'analogía psicologica, esso
svela una sorta di regressione collettiva, verso il luogo dell'identità certa, che sono le proprie origini.
Il tema si espanderebbe a dismisura; di un certo interesse mi pare comunque la convergenza di
queste riflessioni con la domanda di identità del singolo, che, come si è detto, è uno dei compiti
fondamentali dello sviluppo, o addirittura il «compito finale» di tutto lo sviluppo.
Ciò che appare di rilievo in questo ritorno alle origini è, nella logica narcisista o
borderline della scissione, che la corporeità all good divenga contemporaneamente la
corporeità all bad: una sorta di nemico fittizio, sempre disponibile, contro cui lottare,
promuovendone un'estetica, a questo punto masochistica, atta a far ritrovare l'illusione di
un'identità smarrita.
Il rapporto con l'altro
Il capitolo del rapporto con l'altro, ovvero il mondo delle relazioni interpersonali, non
è meno ampio dei precedenti, anche cercando di metterlo a fuoco dal solo punto di vista dei
processi rilevati. Possiamo raccogliere comunque le istanze emerse nell'esame del rapporto
con il mondo religioso e con la corporeità, procedendo anche in questo caso in modo consapevolmente
riduttivo ed esemplificativo. L'eccessiva libertà dell'altro e la sua eccessiva diversità diventano
un problema: questa potrebbe essere, espressa quasi in forma di slogan, la conseguenza sul piano
interpersonale di quelle vulnerabilità al livello della permanenza dell'oggetto e dell'oggetto transízionale.
Dall'esame delle domande aperte, come conseguenza di un attraversamento problematico di
quegli stadi dello sviluppo, emerge come difficoltoso ogni rapporto con un'alterità che si
presenti come eccessivamente... altra. E ciò può accadere sia nel senso dell'alterità in quanto
tale, sia in quello dell'agire «altro».
La prima, correlativa a una domanda aperta di rispecchiamento narcisista, ad esempio, rischia di
rendere i rapporti con l'altro sesso estremamente ambivalenti. Da un lato essi si candidano ad
assumere la funzione di gratificare, almeno apparentemente, primitive domande di intimità; dall'altro,
non corrispondendo se non in modo simbolico alle domande aperte, possono diventare l'ambito di
attivazione di difese di scissione ogniqualvolta la frustrazione delle domande aperte fosse
consistente. Così, appunto, sotto l'effetto della scissione, in poco tempo si passa dal «tu sei
tutto per me!» al «non ne voglio più sapere di te!». L'instabilità delle relazioni affettive,
uomo-donna, con il conseguente rischio che i legami matrimoniali giungano più frequentemente
che in passato a una rapida dissoluzione, mi pare una conseguenza possibile di quella domanda
aperta, infantile, tanto più insidiosa quanto meno riconosciuta dai diretti interessati.
Un tentativo previo, diverso, ma in fondo procedente nella medesima direzione, che sembrerebbe
avere come obiettivo quello di attenuare l'eccesso di alterità nella differenza sessuale, è
quello operato dalla cultura dei media, nell'appiattire la figura maschile su quella femminile:
nella moda, come nel cinema, o nella pubblicità, accade sovente che lo stereotipo del maschio
sia meno... maschile, rispetto allo stereotipo di vent'anni fa.
La seconda, correlativa a una domanda aperta creatasi per una fissazione nello stadio dell'oggetto
transizionale, teme la possibilità che l'altro non sia, in un certo senso, come il pupazzo di
peluche; e che invece, più realisticamente, sia capace di ribellarsi, oppure di presentare a sua
volta le proprie richieste. La diffusione massiccia della realtà virtuale, dal videogioco alla
navigazione su Internet (Cfr. T. CANTELMI - M. DE MARCO - M. TALLI - C. DEL MIGLIO, Internet
Related Psycopathology: aspetti clinici e recenti acquisizioni, in «Attualità in Psicologia» 15
(2000), 186-195; J. GACKENBACH - E. ELLERMANN, Introduction to Psycbological Aspects of Internet Use,
in J. GACKENBACH (ed.), Psychology and the Internet, Academic Press, San Diego CA 1998, 1-26),
risponde a un livello adulto a una domanda di relazione che riproduce qualche possibile vulnerabilità
al livello transizionale.
Conclusioni
L'evidenza di una relazione strutturale fra la cultura dell'ambiente e lo sviluppo del singolo
non ci consente facili soluzioni. Ipotizzare percorsi educativi che pretendano di estraniarsi
dalla cultura sarebbe come pretendere di non insegnare a un proprio figlio l'italiano in attesa
che, al raggiungimento della maggiore età, egli scelga liberamente quale lingua riesce a esprimere
più adeguatamente la propria esperienza del mondo. Un tale figlio, a diciott'anni, non potrà
scegliere nulla e non sarà in grado di apprendere nessuna lingua. Come si dà una circolarità
necessaria fra linguaggio ed esperienza, così si dà una circolarítà del tutto simile fra cultura
e personalità del singolo.
Inoltre, in questo scritto abbiamo cercato di focalizzare soprattutto alcune derive, alcuni
aspetti problematíci che scaturiscono da una «cultura della deprivazione affettiva». Sappiamo
tuttavia come ogni domanda aperta dello sviluppo, anche laddove si producono vulnerabilità
«sopportabíli», che non giungono cioè all'esito di una patologia psichica, rappresenta per
il soggetto un'occasione, un'opportunità, non necessariamente una circostanza da maledire,
magari per tutta la vita. Esiste allora una promessa di bene possibile, anche all'interno di
una cultura come questa?
Vorrei indicare in proposito quattro possibili percorsi di riflessione.
In primo luogo, ogni deprivazione affettiva, laddove riconosciuta e accettata, può diventare
per il singolo occasione di un'inedita capacità di riconoscimento e sintonia con i molti mondi
di sofferenza che caratterizzano la nostra società, che pure si dichiara evoluta. Da un primato
della volontà, o del volontarismo, forse siamo passati a un primato dell'affetto, o dell'emozionalismo.
Ma questo non deve essere visto necessariamente come un male. Pur con le sue contraddizioni, la
nostra cultura giovanile, non dimentichiamolo, è anche la cultura che sta sviluppando nel presente,
ad esempio, un'inattesa sensibilità per il volontariato, in forme diverse, ma in genere accomunate
da un'attenzione a chi è più debole e indifeso (Mi sembra interessante in proposito la posizione
dei giovani riguardo all'aborto se questa si colloca, poi, in un dibattito etico, culturale e religioso
che ha caratterizzato quasi trent'anni di vita del nostro paese: «Tra i giovani italiani l'ammissibilità
dell'aborto non è data per scontata: solo il 23% l'ammette senza alcun dubbio, mentre la quota più
rilevante di soggetti (44,3 %) non la considera ammissibile, anche se in alcuni casi la giustifica»
(E GARELLI, I giovani, il sesso, l'amore, Il Mulino, Bologna 2000, 98; cfr. C. Buzzi, Giovani,
affettività, sessualità, In Mulino, Bologna 1998, 180)).
In secondo luogo, e precisamente per favorire quella trasformazione positiva delle
vulnerabilità, sarebbe opportuno che il dibattito psicologico uscisse un pochíno allo
scoperto, dai ristagni di una ideologia che forse teme di rimettere in discussione alcuni
temi fondamentali per la vita del singolo e della società, quali il ruolo della donna, il
funzionamento della famiglia, i veri diritti dei bambini... Dare chiarezza, esplicitare,
riconoscere senza sbilanciarsi immediatamente a dare delle indicazíoni concrete, significa,
ad esempio, focalizzare meglio alcuni aspetti insostituibili della maternità e della paternità,
senza che una riflessione del genere porti a fare indebiti cortocircuití, o sia sospettata di
farli, alla luce di non meglio identificate spinte reazionarie.
In terzo luogo sarebbe opportuno che ci si interrogasse, sia al livello della cultura, sia al
livello più specifico di ogni famiglia, su quei processi che, se non adeguatamente gestiti,
possono in effetti facilitare le derive, piuttosto che la trasformazione in senso più costruttivo
delle vulnerabilità eventualmente presenti. Anche in questo caso, e senza indebite criminalizzazioni,
arebbe importante promuovere, ad esempio, esperienze di gioco per i propri figli in cui sia favorito
un contesto di alterità più reale e meno virtuale. In casa propria, qualche indicazione chiara fin
dall'inizio, e benché un pizzico controcorrente, sui limiti di utilizzo della televisione o della
playstatíon, porterà probabilmente qualche frutto insperato. Gli strumenti che la tecnologia mette
a disposizione, pur nella loro positività, hanno in questo caso il limite di fornire oggetti
transizionali estremamente gratificanti e sofisticati, che possono favorire il consolidamento
di quelle vulnerabilità di cui si è accennato e delle loro derive.
In quarto luogo sarebbe decisivo recuperare la dimensione triadica, verrebbe quasi da dire
trinitaria, dell'alterità. L'incontro con l'altro, per quanto si è detto, conduce al rischio
che la rappresentazione dell'altro presso di me sia preda delle mie domande narcisiste, oppure
che divenga sorgente di minaccia a fronte della consapevolezza inespressa delle mie vulnerabilità.
Questa trasformazione narcisista o transizionale dell'altro, ha bisogno, per me e per l'altro,
di un bene obiettivo che lo tuteli e che in qualche misura mi aiuti a impedire ogni deformazione
(Cfr. E. UVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980).
Abbiamo parlato di istanze pre-morali connesse con quelle domande narcísiste. Dobbiamo invece
recuperare l'istanza etica di ogni relazione con l'alterità. Perché anche il narcisismo è in
realtà portatore di un'etica, non dichiarata, ma non per questo assente, che rischia di trasferirsi
poi a un'intera cultura, diventando sistema etico.
Il titolo di questa riflessione dunque è, in fondo, anche la sua conclusione: «Le radici degli
occhi sono nel cuore». Recuperare per ogni sguardo, per ogni accesso alla realtà dell'altro,
la dimensione del cuore, intendendo in questo caso il cuore in senso biblico, luogo della decisione,
e non immediatamente luogo dell'affetto o della passione, significa riconoscere all'alterità
dell'altro un'identità che è al di là del mio bene; e in fondo anche del suo. Un'identità che
è un bene «terzo», appunto. Inviolabile e sacro.
Per noi cristiani questa identità è l'iscrizione dell'altro, perfino di quell'altro da me che
sono io stesso, nel mistero di Dio.
I capitoli:
Cultura e sviluppo
L'originario etico
Dalla repressione alla depressione
Stadi di vulnerabilità
Conseguenze
Il rapporto con l'Altro
Il rapporto ambivalente con il proprio corpo
Il rapporto con l'altro
Conclusioni
 |