LOTTA E CONTEMPLAZIONE
Mia forza e mio canto è il Signore (Sal 118)

Frère JOHN DI TAIZÉ

L’introduzione di don Mirko Bellora

Stasera ho la gioia di presentarvi Frére John, biblista che appartiene alla nota comunità ecumenica di Taizé. Vorrei che stasera ci parlasse di due temi decisivi della vita cristiana:

La preghiera, freschezza di una sorgente: come la preghiera può essere vera sorgente di vita nuova secondo il vangelo; come nell’esperienza della preghiera di Taizè la riscoperta della forza del Vangelo illumina, con la fiducia della fede, ogni notte e ci dona la certezza che, come ha scritto S. Bernardo “La sorgente dà sempre molto di più di quanto basti all’assetato”.

E l’armonia tra lotta e contemplazione. Illuminante su questo tema un testo di Christiane Singer:

Per quanto mi riguarda ho attraversato tre grandi tappe. Dapprima, da giovane donna, la vita activa, ero onnipotente e facevo a meno di ogni trascendenza. Poi, dopo uragani diversi e sismi di ogni sorta, ho capito (come il pesce della leggenda indù che non credeva che il mare esistesse…perché vi si trovava dentro) che tutto era Dio. La vita contemplativa mi offrì le chiavi di questa rivelazione. La trascendenza era ad un tratto ovunque, era tutto e ciascuno. E poi, ora, terza tappa, ecco che questi due universi, vita activa e vita contemplativa, interferiscono con uno strano gioco ondulatorio. Oggi chiamo vita questo strano gioco d’equilibrista, questo atto che consiste nel tenere, come due coppe all’estremità di una pertica, i contrari in equilibrio, restando al contempo in piedi sul filo, meglio, danzandovi. (C. Singer, Dove corri? Non sai che il cielo è in te?, Servitium, 2003)

Frère John grazie della tua presenza. Aiutaci ad assaporare la freschezza e la forza della preghiera e della vita cristiana.

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Sono qua stasera come fratello della Comunità di Taizé, una comunità di impostazione monastica composta da fratelli di diversi paesi e diverse confessioni cristiane, cattolici e non-cattolici, una comunità che, da molti anni, è diventata un luogo di pellegrinaggio per tantissimi giovani del mondo intero. Perciò, se adesso vi parlo della preghiera, non lo faccio principalmente come biblista e neppure per dare soltanto una testimonianza personale, ma cercherò di spiegare l’importanza e il ruolo della preghiera nel cammino della mia comunità.

In tante parti del mondo, Taizé è conosciuta per un certo stile di preghiera comune: in questa preghiera trovano spazio lunghi momenti di silenzio, letture bibliche e soprattutto canti dove una frase semplice viene ripetuta quasi all’infinito. Sulla collina di Taizé, tre volte ogni giorno, i fratelli, insieme a tutte le persone che sono presenti, si ritrovano nella Chiesa della Riconciliazione per una preghiera di questo tipo, una preghiera che vuol essere allo stesso tempo meditativa e accessibile a tutti.

Tuttavia, non abbiamo mai voluto definirci esclusivamente una comunità contemplativa. La preghiera sta al cuore della nostra vita perché esprime la nostra voglia di radicare la nostra esistenza in ciò che Gesù chiama l’unico essenziale (cfr Lc 10,42), cioè il rapporto con Dio, la ricerca del suo volto. Ma sappiamo che questo rapporto con Dio, per essere autentico, deve concretizzarsi in tutte le attività dell’essere umano e in primo luogo nel rapporto con i suoi fratelli e sorelle. San Giovanni ci dice: “Se uno dicesse: Io amo Dio’, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).

Che cos’è la preghiera? Nella lettera che ha scritto per gli incontri di quest’anno e che ha reso pubblica all’incontro europeo di Parigi all’inizio di quest’anno, il fondatore di Taizé, frère Roger, parla così:

Uno dei desideri profondi della nostra anima non è forse quello di realizzare una comunione con Dio? Tre secoli dopo Cristo, un credente africano di nome Agostino scriveva: “Un desiderio che invoca Dio è già una preghiera. Se vuoi pregare incessantemente, non smettere mai di desiderare...

In questo brano, Frère Roger definisce la preghiera come il desiderio di una comunione. Voglio soffermarmi brevemente su queste due parole.

Il desiderio

Iniziamo dal desiderio. Nel mondo cristiano, durante gran parte dei secoli passati, il desiderio umano ha avuto vita difficile. “La volontà di Dio” e “i desideri umani”, venivano facilmente considerati come due poli opposti. Questi ultimi erano giudicati forzatamente come qualcosa di limitato, di egoistico, addirittura qualcosa di cattivo. L’unico modo per piacere a Dio era dunque quello di negare i propri desideri, di calpestarli, secondo una immagine, capita però in maniera distorta, relativa a questa parola di Cristo: “Non la mia volontà ma la tua.”

Se guardiamo tutto ciò con un po’ di distacco, non è difficile scorgere i limiti di tale spiritualità. Prima di tutto, secondo Gesù, che in questa affermazione non fa che riaffermare tutta la tradizione biblica, il più grande dei comandamenti è questo: “Amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” (Mc 12,30; Dt 6,5). Ora, se neghiamo o mettiamo fra parentesi il nostro desiderio, non si capisce bene come si può amare Dio “con tutto il cuore”. Saremmo piuttosto delle persone divise, dunque uomini “dall’anima doppia” di cui parla san Giacomo (Gc 1,8; 4,8)

Inoltre, se lascio da parte le inclinazioni del mio cuore, come potrò discernere ciò che Dio vuole da me? Sarò forse costretto a scegliere sempre il contrario di ciò che spontaneamente mi sembra volere raggiungere, scegliere sempre la cosa che mi piace di meno? In tal caso, il nostro Dio non sarebbe forse un dio davvero perverso, un dio che ha messo negli uomini creati da lui stesso delle aspirazioni opposte al suo vero progetto per loro?

Al contrario, un’autentica antropologia biblica non disprezza affatto la dimensione del desiderio nell’essere umano, anzi la valorizza. La parola ebraica nefesh, normalmente tradotta con “l’anima”, ma che significa letteralmente “la gola”, esprime anche il significato di “desiderio”. Attraverso la gola, l’uomo si apre alla bevanda e al cibo, e soprattutto all’aria. Non è un essere chiuso in sé. Non è autosufficiente; deve ricevere. Secondo questa antropologia, ciò che ci rende davvero umani è la nostra capacità di aspirare ad una vita sempre più grande. In questa logica biblica, siamo più essenzialmente uomini del desiderio che non solo esseri razionali secondo la filosofia greca.

Detto questo, ovviamente sarebbe anche sbagliata la semplice identificazione dei nostri desideri con la volontà di Dio. Se siamo minimamente onesti con noi stessi, possiamo riconoscere in noi quelle inclinazioni verso cose che non sarebbero bene né per noi, né per gli altri. Il fatto è che non sappiamo cosa desideriamo veramente, non sappiamo discernere sempre il nostro vero bene. Vogliamo un sacco di cose spesso contraddittorie tra di loro. La mancanza di coerenza fa purtroppo parte della nostra condizione umana. Il cammino verso la vita quindi non sta nel negare i propri desideri ma neppure nell’identificarli con la volontà di Dio per noi, si tratta invece di un continuo percorso di approfondimento dei nostri desideri alla luce di Cristo e del Vangelo per scoprire ciò che sta alla loro radice. Ciò che è di ostacolo a Dio non è il desiderio in quanto tale, ma la scelta, più o meno consapevole, di rimanere attaccati a tutti i costi a ciò che immaginiamo sia il nostro bene. Facendo questo, a poco a poco socchiudiamo gli occhi alla realtà e adottiamo un atteggiamento difensivo, divisivo, per non perdere la realtà bramata. Per utilizzare una categoria biblica, rendiamo l’oggetto desiderato un idolo. Un idolo che è inevitabilmente parziale e che dunque rende impossibile l’unità della persona.

Si tratta allora di prendere sul serio il desiderio umano, ma allo stesso tempo di far capire che questo desiderio si apre sempre a qualcosa di più grande. È esattamente questa la maniera in cui Gesù tratta le persone. Lui parlava, un giorno, con una donna samaritana vicina ad un pozzo, facendo riferimento ad un’acqua sempre disponibile. Poi quando lei diceva “Signore, dammi di quest’acqua” lui cercava di far capire che non si trattava di una bevanda materiale ma di qualcosa di più essenziale (Gv 4). Alla stessa maniera, dopo aver dato da mangiare ad una folla in un luogo deserto, Gesù dice: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà” (Gv 6,27). Gesù non è contrario alla necessità di riempire lo stomaco di pane materiale, è lui stesso che ha cominciato col dare questo pane alla gente. Ma vuole che non ci si fermi lì, che il pane del corpo diventi “segno” (Gv 6,26) di un nutrimento più fondamentale.

Per ritornare al nostro tema, ora riusciamo forse intravedere un legame stretto tra preghiera e desiderio. Possiamo concepire la preghiera come il tentativo di scoprire ed esprimere la propria sete più profonda. L’essere umano che prega prende sul serio la parola di Cristo: Chi ha sete venga; chi vuole [la Bibbia francese traduce: l’uomo di desiderio] attinga gratuitamente l’acqua della vita (Ap 22,17). Questa persona non vive il suo desiderio in maniera riduttiva, incollato alla propria immagine di sé, ma lo lascia dilatare in compagnia di Cristo. Entra in un percorso che passa attraverso dei morire a sè e delle risurrezioni, è chiamato a lasciare da parte una comprensione troppo stretta di ciò che immagina volere per scoprire l’insperato sempre più grande. Nella preghiera, allora, la dialettica del desiderio diventa una maniera di vivere concretamente giorno dopo giorno il mistero pasquale.

La comunione

Questo approfondimento ci porta alla seconda parola nella definizione di frère Roger: la comunione. Per la Bibbia, il fine dell’esistenza, e perciò lo scopo della fede, è una vita condivisa e non separata che si chiama koinonia, comunione. San Giovanni spiega questa nozione all’inizio della sua prima lettera: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. (1Gv 1,3a)

Il lieto messaggio della salvezza serve per creare legame di comunione, di amore fraterno, tra quelli che lo ascoltano. Ma questa condivisione della vita, questo amore, non è soltanto una realtà umana. Giovanni continua: “La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. (1Gv 1,3b)

Nella preghiera, lasciamo il nostro desiderio dilatarsi fino all’estremo, per entrare in una vita senza inizio né fine, la Vita stessa di Dio. Invisibile ai nostri occhi, impossibile da accumulare, questa Vita ci pare talvolta un vuoto, un’assurdità o persino una perdita di tempo. Oggigiorno, all’epoca dell’agire frenetico, abbiamo tendenza d’immaginare che la comunione sia essenzialmente il fatto di stare con gli altri, di parlarsi, di fare delle cose insieme, ma c’è uno stare insieme superficiale (“andiamo al bar, alla discoteca”) che è forse il più grande ostacolo alla scoperta di una comunione vera. A Taizé, dopo aver trascorso una settimana di silenzio in compagnia di altri giovani, non è raro che qualcuno dica: “Ho sperimentato un fortissimo senso di comunità, quasi tangibile.” Eppure non hanno potuto scambiare neanche una parola tra di loro, che d’altronde forse sarebbe stato difficilissimo per mancanza di una lingua comune.

In una preghiera nella sua lettera agli Efesini, san Paolo descrive la Vita di Dio con l’immagine di uno spazio a quattro dimensioni nel quale il credente è introdotto da Cristo e dallo Spirito Santo. La preghiera ne è la porta d’ingresso: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. (Ef 3,17-19)

Questo spazio di comunione è chiamato “l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza.” Se è possibile sperimentarlo nella preghiera personale, è soprattutto nella preghiera comune (“con tutti i santi”, dice san Paolo, cioè tutti i credenti) che la comunione diventa palpabile. Frère Roger insiste molto sul fatto che “la nostra preghiera personale [può] sembra[re] povera e la nostre parole maldestre”, e poi conclude: “...la bellezza di una preghiera cantata, anche in due o tre, è un sostegno incomparabile alla vita interiore. (...) una preghiera comune cantata insieme permette di lasciar crescere in se stessi il desiderio di Dio e di entrare in una preghiera contemplativa”, (Lettera 2003) cioè di scoprire questo spazio illimitato di cui parla san Paolo.

La bellezza

A Taizé, e negli incontri che facciamo altrove, cerchiamo, con mezzi molto semplici, di aiutare le persone ad entrare in uno spazio di contemplazione e di comunione. Questo accade essenzialmente attraverso la bellezza. I cristiani occidentali non sempre sono stati convinti dell’importanza della bellezza nella preghiera liturgica; la vedono spesso solo come una realtà facoltativa e non come qualcosa di essenziale. In questo, invece, le Chiese d’Oriente possono essere di grande aiuto. Per loro la liturgia divina ci apre alla gioia del cielo sulla terra, è un assaggio del banchetto celeste nel mezzo delle nostre preoccupazioni terrestri. La qualità dei canti, le ripetizioni, l’organizzazione del luogo di preghiera, i colori, la luce, le icone, tutto diventa linguaggio per farci entrare (“comprendere ” nel senso di Efesini 3,18, in maniera esistenziale e non solo intellettuale) in un’altra dimensione dell’esistenza. Poco tempo fa il papa Giovanni Paolo II ha ricordato a noi cristiani d’Occidente l’importanza della bellezza nella preghiera: “Ènecessario scoprire e vivere costantemente la bellezza della preghiera e della liturgia. Bisogna pregare Dio non solo con formule teologicamente esatte, ma anche in modo bello e dignitoso. A questo proposito, la comunità cristiana deve fare un esame di coscienza perché ritorni sempre più nella liturgia la bellezza della musica e del canto.” (Udienza generale, 26 febbraio 2003)

Nella mia comunità abbiamo sempre cercato, secondo le nostre possibilità, di collegare bellezza e semplicità. Senza la bellezza, la semplicità diventa ascesi rigida, privata di gioia e di vita. Ma senza la semplicità, la bellezza rischia di allontanarci dal messaggio evangelico. Non si tratta dell’amore per gli ori e per i marmi, ma di utilizzare qualche elemento semplice della creazione per aprire gli occhi e il cuore all’amore dell’Invisibile.

Lotta e contemplazione

Permettetemi adesso di tornare all’argomento iniziale di questo intervento. Ho detto che la Comunità di Taizé non si definisce esclusivamente come comunità contemplativa, anche se la preghiera rimane al centro della nostra vita. Per il cristiano, la preghiera esplicita è una delle espressioni di una vita di dono di sé, quindi di servizio verso gli altri. All’inizio degli anni settanta, frère Roger utilizzò una frase, che è diventata per certuni quasi uno slogan, per esprimere l’unità indivisibile di queste due dimensioni della vita cristiana: lotta e contemplazione. Forse molti di voi non sanno che questa frase non veniva da lui ma proprio da Milano, da un giovane sindacalista che, in quel periodo, veniva spesso con sua moglie a Taizé. In quel tempo di lotta rivoluzionaria, questo giovane parlava dell’impegno cristiano come il tentativo di collegare “lotta e contemplazione” nella propria esistenza, mai l’una senza l’altra. Interpretandolo, frère Roger scriveva:

Nella lotta perché si faccia sentire la voce degli uomini senza voce, nella lotta per la liberazione di ogni essere umano, il posto del cristiano è in prima linea. Allo stesso tempo, il cristiano, anche se avvolto dai silenzi di Dio, intuisce questa realtà essenziale: la lotta per l’uomo, con l’uomo, trova la propria sorgente in un’altra lotta, inscritta nel più profondo di se stesso, in quello spazio unico dove una persona non assomiglia a nessun’altra. È lì che tocca le soglie della contemplazione (Frère Roger di Taizé, Lotta e contemplazione, Morcelliana, 1973)

È chiaro che queste espressioni non sono esattamente quelle che si usano oggi. Ultimamente, per esempio, abbiamo parlato piuttosto di “vita interiore e solidarietà umana”. Ma l’intuizione di base rimane essenziale e attuale per chi cerca di entrare nel mistero di un Dio che si è fatto uomo. Tentare di vivere una ricerca interiore dell’unico essenziale, la comunione con Dio, ci fa allo stesso tempo testimoni di questa comunione in tutti gli ambiti della nostra vita su questa terra. Una spiritualità che ci allontana degli altri non può essere quella del Vangelo. In fin dei conti, l’autenticità della nostra fede in Dio si misura unicamente dalla qualità del nostro essere con i nostri fratelli e sorelle, della nostra partecipazione nella vita della famiglia umana.

Possiamo afferrare in maniera più precisa come “la lotta” e “la contemplazione” si collegano? L’intuizione di frère Roger è stata nel riconoscere che questi due aspetti si contengono reciprocamente. Se cerchiamo di impegnarci per rendere il nostro pianeta più vivibile, per far nascere un mondo di pace e di giustizia, prima o poi siamo costretti a cercare le radici di questo desiderio dentro di noi. Forse ciò accade soprattutto negli inevitabili momenti di scoraggiamento. Perché continuiamo a impegnarci in questa maniera quando talvolta i risultati si fanno attendere e ci affatichiamo tanto? Perché e in che modo dare, quando il nostro sforzo sembra solo acqua che si spreca nella sabbia del deserto? Il credente che si trova in questa situazione è chiamato a tornare al suo rapporto con Dio e scoprire una comunione dove può attingere le forze per continuare la lotta e dove può purificare il suo cuore da tutto ciò che impedisce il dono di sé autentico, cioè da tutte le varie forme di ripiegamento su se stesso.

Ma possiamo osservare le cose dall’altro punto di vista. Chi prega veramente è condotto ad una nuova qualità di presenza nel mondo. A poco a poco, vede che le cose dipendono meno dal suo “io” e le vede di più come sono in verità, nella luce del Creatore. Acquista sempre di più lo sguardo di Dio sulla vita e, allo stesso tempo, diventa più trasparente alla presenza di Dio dentro di lui. È di questa presenza e questa trasparenza che in fin dei conti il mondo, senza saperlo, ha il maggiore bisogno. In poche parole, ciò che conta non è la quantità delle opere ma la qualità di una presenza. Capiamo allora le parole di san Paolo quando afferma “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Nella preghiera, il nostro “io” pian piano si distacca dalla posizione centrale e diventa risposta ad una Parola, ad una chiamata: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta!” (1 Sam 3,10).

Questa trasformazione graduale non fa violenza a ciò che siamo. La viviamo in mezzo alla nostra condizione umana, con la nostra fragilità, i nostri limiti e persino le nostre incongruenze. Molte persone sono colpite dalla presenza dei bambini ogni giorno nella preghiera a Taizé accanto a frère Roger. E non è raro che ci chiedano perché. Forse, tra l’altro, per ricordarci che la fede non è un’impresa umana che si misura con i criteri dell’efficacia e del rendimento. Come dice spesso frère Roger, qualunque cosa facciamo rimaniamo sempre dei poveri di Dio. La nostra preghiera è una realtà semplice, in un certo senso non sorpassa mai la preghiera di un bambino. Al di là delle tecniche che talvolta ci aiutano a concentrarci o ad approfondire la parola, l’essenziale della preghiera consiste nel mettersi in presenza di Dio come siamo, nell’aprire il fondo della nostra anima alla sua luce che ci conforta e ci guarisce. Non sarebbe male concludere questi riflessioni con una delle collette che frère Roger ha scritto per la preghiera di mezzogiorno a Taizé:

Gesù nostra speranza, fa di noi degli umili del Vangelo. Vorremmo tanto capire che, in noi, il meglio si costruisce attraverso una semplicissima fiducia... ed anche un bambino ci riesce.

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