IL MATTINO DI PASQUA
Alessandro Pronzato
Un mattino di Pasqua nel IV secolo
Un mattino di Pasqua di 1500 anni dopo ...Non succede nulla
Paura di lasciarsi soprendere dalla luce
Dobbiamo risuscitarLo
Quel mattino nel racconto di Giovanni
Di corsa verso l'incontro
In chiesa, come a un funerale
Lasciarsi portare via Dio
Il "riso pasquale"
La domenica, tornando da Messa...
Le conseguenze
Una vittoria pasquale: la vittoria del perdono
Difficile definire il clima, l'atmosfera, la luce, il profumo
che caratterizzano il mattino in cui si diffonde una notizia inaudita:
"E' risorto!"
Io mi riferisco a tre mattini diversi:
- Un mattino di Pasqua nel IV secolo
- Un mattino di Pasqua 1500 anni dopo
- Quel mattino nel racconto di Giovanni
Un mattino di Pasqua nel IV secolo
Nel IV secolo S.Agostino parla del sonno agitato dei pagani,
la notte precedente la Pasqua. Quelli erano inquieti e allarmati a motivo degli
incontri che avrebbero dovuto fare il giorno dopo.
Infatti, il mattino seguente, avrebbero incrociato per strada
coloro che, durante la Veglia Pasquale, avevano ricevuto il battesimo e
portavano in giro un volto splendente, trasfigurato dalla luce del Risorto.
Per quei miscredenti era una specie di apparizione
sconvolgente. Qualcuno di loro - sempre stando alle informazioni fornite da
S.Agostino - avrebbero riconosciuto in tal modo il Cristo. Io direi che erano
stati convertiti dall'invidia. Invidia di un certo volto inondato di luce.
I primi cristiani portavano stampata in volto la notizia
della risurrezione.
Un mattino di Pasqua di 1500 anni dopo ... 1940-1950
Non succede nulla ...
L'espressione mi si è incisa nella memoria fin da bambino:
"fare Pasqua".
Al mio paese il parroco, lungo tutta la Quaresima, batteva
insistentemente su quel tasto: il dovere per ogni buon cristiano di "fare
Pasqua". E invitava le donne a collaborare, sollecitando, persuadendo,
spingendo, magari anche un po' forzando i più riottosi (ce n'era sempre
qualcuno, anche nelle migliori famiglie).
Di fatto molti uomini, in seguito alle insistenze, proteste,
lagni e magari anche minacce delle mogli, si decidevano a "fare
Pasqua".
Veniva organizzata una funzione esclusivamente per loro -
mica potevano mescolarsi alle donne, sarebbe stato un po' umiliante!... -,
quand'era ancora buio, in piena dandestinità.
Assumevano un'aria bizzarra per mascherare quella che
ritenevano una "debolezza".
Una confessione rapida e imbarazzata (e imbarazzante per il
prete: I'avrei sperimentato fin dai primi anni di sacerdozio), una comunione tra
l'impacciato e il rassegnato (a guardare certe facce, si ricavava l'impressione
che stessero trangugiando una medicina amara).
Poi, scambiando qualche battuta ironica, tutti si
precipitavano a casa con la sensazione di essersi liberati di un peso fastidioso
e incrociavano, dall'altra parte della strada, le donne che si recavano alla
prima Messa.
Avevano pagato l'imposta più onerosa - perfino penosa - per
quanto riguardava la religione. Ora tutto era a posto, regolare.
Quasi un piccolo intervento chirurgico, purtroppo necessario,
ma che si tendeva a rimandare il più possibile, e che comunque veniva sublto in
stato di anestesia pressoché totale.
"Fare Pasqua" era il minimo che veniva
richiesto a chi teneva il proprio nome scritto sul registro dei battezzati.
... Almeno una volta all'anno.
"Quello non ha nemmeno fatto Pasqua", si mormorava
nella cerchia dei devoti a proposito di uno che aveva rifiutato di varcare la
soglia della chiesa perfino in quell'occasione.
... Almeno a Pasqua.
Ho sentito una mia vicina di casa che strigliava così il suo
uomo:
- ... Ma quante storie! Male non ti fa... E poi non succede
niente, sta' tranquillo: mica crolla il mondo!
E quello, rassicurato, anche se scuotendo la testa, si
infilava furtivo nella strada.
Paura di lasciarsi soprendere dalla luce
E, invece, sì.
A Pasqua crolla il mondo.
A Pasqua succede la fine del mondo (il finimondo!).
Se si "fa Pasqua", niente più va avanti come
prima.
Tutto cambia.
Si buttano via i pensieri abituali e si frequentano altri
pensieri ("Se siete risorti con Cristo... pensate alle cose di lassù, non
a quelle della terra", ammonisce Paolo scrivendo ai Colossesi).
Si scaraventa lontano il lievito "scaduto",
rancido, incapace di smuovere e far fermentare alcunché, e si impasta in
maniera totalmente diversa la propria vita ("Togliete via il lievito
vecchio, per essere pasta nuova...", raccomanda ancora Paolo ai Cristiani
di Corinto).
La grande, radicale pulizia di Pasqua deve avvenire, prima di
tutto, nel cuore.
Nella famiglia ebraica, la vigilia della festa, si compiva
un'accurata ispezione (bediqah) in tutta la casa, accanendosi a dare la
caccia anche al più minuscolo frammento di pane fermentato.
Per noi, si tratta di eliminare le vecchie abitudini, i
vecchi rancori, le vecchie tendenze, i vecchi interessi.
Non si fa Pasqua senza una decisa rottura con il passato. Una
rottura che trova la sua espressione più evidente nella confessione, attraverso
la quale manifestiamo di voler morire al peccato e risuscitare alla vita, alla
fede, alla pace, al perdono, all'amore, alla gioia, alla speranza.
Nell'Eucarestia non si trangugia una medicina amara, ma ci si
accosta al Pane che alimenta la vita nuova: un pane di fraternità, di
sincerità, di giustizia, di solidarietà, di condivisione.
"Fare Pasqua" non significa mutare abito, ma
cambiare la vita.
Ritrovarsi "fuori" dai nostri sepolcri, stupefatti,
con una gran voglia di ridere, danzare, cantare.
Dio ha "fatto fare Pasqua" al suo popolo,
liberandolo dalla schiavitù.
Dio, soprattutto, "ha fatto fare Pasqua" al proprio
Figlio, facendolo uscire dal sepolcro ("Dio lo ha risuscitato al
terzo giorno", annuncia Pietro al centurione romano Cornelio convertito).
Se essere cristiano, aver fede, significa credere alla
risurrezione di Cristo, possiamo anche aggiungere che credere alla risurrezione
di Cristo significa accettare che tutto cambi.
Significa accettare di diventare dei risuscitati: morti alle
nostre tristezze, alle angosce, alle paure, ai lamenti, liberati dai
risentimenti, dagli egoismi, dagli interessi, dalla violenza, e inseriti nella
vita nuova che ci offre Cristo, chiamati a spaziare, attoniti, in un mondo
nuovo, tutto da esplorare.
Forse è proprio questo il paradosso della Pasqua: ritrovare
le stesse cose di prima, ma nuove, "diverse".
Mi domando sovente perché sia così difficile scucire certe
bocche e liberare, far esplodere in esse l'alleluia pasquale in tutta la
sua forza. Al massimo viene esalato un sospiro, un lamento, un borbottìo.
Il fatto è che, nonostante le apparenze, non è la morte a
farci paura.
Troppi hanno paura di nascere.
Pochi hanno il coraggio di compiere, fin da ora,
l'esperimento della risurrezione.
"Fare Pasqua" non è il minimo nell'esperienza
cristiana, ma il massimo.
Probabilmente l'avevano già intuito certi uomini del mio
paese. Che si affrettavano a tornare a casa, da clandestini, dopo aver fatto il
loro "dovere".
Perché tanta fretta?
Forse la paura di lasciarsi sorprendere dalla luce...
Dobbiamo risuscitarLo
E bisogna che anche noi Lo risuscitiamo. Lo facciamo uscire
dal sepolcro in cui l'abbiamo relegato. Lo liberiamo dalle bende dei nostri
pregiudizi, dei nostri rancori, delle nostre delusioni, delle nostre
frustrazioni. Lo ripuliamo dalle immagini caricaturali con cui abbiamo deformato
il suo volto. Gli permettiamo di frantumare gli schemi e le visioni meschine in
cui l'abbiamo imprigionato.
Dio segregato in chiesa. Ostaggio dei nostri riti formali.
Addormentato dalle nostre nenie lamentose. Sorvegliato speciale perché non
disturbi la quiete pubblica e si attenga strettamente al programma delle
"onoranze" che abbiamo stabilito noi.
Vogliamo permettere a questo Dio di ridiventare Dio in noi?
Vogliamo consentirgli di manifestarsi, non come pretendiamo
che sia, ma come è?
Vogliamo accordargli la libertà di compiere, non le cose che
decidiamo noi - e che noi stessi, spesso, saremmo in grado di fare -, ma quelle
"impossibili" che soltanto lui è capace di realizzare?
Accettiamo che si riveli molto migliore di quanto noi siamo
soliti descriverlo, più tenero di quanto riusciamo a immaginare?
Accettiamo che ci regali una gioia, una pace, una qualità e
un'ampiezza e un'intensità del vivere quali non osiamo neppure sospettare?
Forse la Pasqua è anche questo.
Scoprire che Dio non sopporta il sepolcro in cui l'abbiamo
confinato, la prigione (le infinite prigioni) in cui l'abbiamo rinchiuso.
Perlustrare quel sepolcro, non per ritrovarlo, ma per
scoprire che lui, fortunatamente, non c'è più.
E, inseguendolo nella luce pasquale, trovare il coraggio di
mormorare:
- Dio mio, come ti avevamo ridotto...
E prendere sul serio ciò che dice a Maria di Magdala:
- Non mi trattenere... (Gv 20,17).
Forse riusciremo a resistere alla tentazione di toccarlo,
riportarlo indietro, riappropriarcene, tenerlo sotto stretta sorveglianza.
Ce la faremo, una buona volta, a non mettergli le mani
addosso?
"Fare Pasqua" vuol dire pure accettare il rischio
di un Dio che non si rassegna a essere morto, non sta alla parte che gli abbiamo
assegnato noi.
Quel mattino nel racconto di Giovanni
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò
al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra
era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e
dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno
portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno
posto!" Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si
recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro
discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche
Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per
terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con
le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non
avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva
risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a
casa.
Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e
piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli
in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi,
dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna,
perché piangi?" Rispose loro: "Hanno portato via il mio
Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò
indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era
Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?"
Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse:
"Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io
andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!" Essa
allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!",
che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché
non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di
Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il
Signore" e anche ciò che le aveva detto.
(Gv 20, 1-18)
Di corsa verso l'incontro
Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon
mattino" (v. 1).
Possiamo immaginare il suo passo. È quello tipico di chi si
reca al cimitero. Non si corre di certo quando si ha un appuntamento con la
morte. Così come non si corre allorché si è intruppati in un corteo che segue
una bara. Non si corre quando uno va a versare lacrime sulla tomba di colui nel
quale si erano investite tutte le proprie speranze, che si era amato più di
tutto e di tutti.
L'andatura di Maria Maddalena verso il sepolcro è quella,
pesante, faticosa, dolente, rassegnata, di una che si è vista strappare via
l'amore, l'avvenire, e si porta addosso soltanto i ricordi e i rimpianti del
passato.
Ma ecco che diventa all'improvviso testimone di un incidente.
L'incidente più incredibile che si possa immaginare.
... Vide che la pietra era stata ribaltata dal
sepolcro" (v. 1).
Ecco l'imprevisto, l'incidente inatteso. Quello che cambia
tutto. Se questa pietra, che sigilla una tomba, non sta al suo posto, più
niente è al suo posto.
Se non c'è ordine neppure in un cimitero, allora davvero
ogni cosa è sconvolta.
Se perfino i segni intoccabili della morte sono stati
manomessi, non ci si ritrova più da nessuna parte.
Le cosiddette "pulizie di Pasqua" sono diventate
una scadenza ineludibile. Anche per la nostra anima.
Ma la Pasqua, così come viene descritta dal Vangelo, non è
elemento di ordine, bensì di disordine. La Risurrezione del Signore è
"perturbatrice" dell'ordine così come l'abbiamo stabilito noi.
Ha ragione il mio amico A. Maillot: "La Pasqua è
Anarchia".
La Pasqua getta lo scompiglio in tutto, confonde, sconvolge
ogni cosa: gioia, tristezza, ragionevolezza, speranza, possibilità.
Né la morte né la vita sono più quello che sono
state finora. Nessuna persona è semplicemente quello che vediamo. E io stesso
non sono più io
Il mattino di Pasqua si realizza un capovolgimento generale,
uno sconquasso, uno scombussolamento totale: abitudini, tradizioni, leggi,
necessità, esigenze.
Inutile voler riprendere il controllo della situazione
secondo i moduli collaudati.
Dobbiamo accettare il disordine di Pasqua.
Se una pietra tombale non è più al suo posto, se nemmeno un
cadavere sta più là dove era stato sistemato, se Maria di Magdala ha la
sensazione di perdere due volte (da vivo e da morto) Colui che ama, allora
l'unica maniera per essere ragionevoli è quella di perdere la testa.
La Maddalena perde la testa.
In seguito all'incidente di cui è la prima testimone, si
lancia in una corsa frenetica, che contagerà anche altri.
Sì, il mattino di Pasqua si va all'incontro con Gesù... di
corsa.
Maria di Magdala corre verso la casa dove stanno gli amici
del Maestro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro
discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il
Signore dal sepolcro e non so dove l'hanno posto" (v. 2).
A loro volta, Pietro e Giovanni, informati dell'incidente, si
mettono a correre in quella direzione.
Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo,
e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepoko
corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro (v. 3-4).
Tutti corrono, si incrociano, fanno perfino un po' di
confusione, come quando succede una disgrazia, cercano di rendersi utili in
qualche modo.
Ma qui una disgrazia irreparabile è toccata alla Morte, dopo
essersi azzuffata con la Vita: "Morte e Vita si sono affrontate in un
prodigioso duello..." (Sequenza del giorno di Pasqua).
Ed è successo qualche cosa di grave, di irreparabile, alla
Morte. Proprio a lei, che sembrava padrona assoluta del campo, dominatrice
incontrastata da sempre, abituata ad avere immancabilmente l'ultima parola.
In chiesa, come a un funerale
Amico, per caso hai disimparato a correre? Ti vergogni,
adducendo come pretesto il fatto che non sei più un ragazzino, e che certe cose
sono disdicevoli per un uomo posato?
Sei diventato anche tu saggio, prudente, controllato, come
chi sa che non vale la pena affannarsi, bisogna abituarsi alla morte?
Anche tu vai in chiesa col tuo passo abituale, tranquillo, un
po' legnoso, disposto ad assistere a una calma liturgia, ad ascoltare un sermone
rassicurante.
C'è gente che va a "fare Pasqua", o si reca
abitualmente in chiesa, magari tutti i giorni, come si va a un funerale. Con una
certa compostezza, compunzione, cercando di darsi un certo contegno, assumere
una certa aria perbene, apparire cortese, garbata.
Non succede niente. Tutto in ordine, previsto, regolamentato.
Nessuna sorpresa.
Lasciarsi portare via Dio
Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo
hanno posto... (v. 13).
Maria di Magdala deve accettare, prima di tutto, di perdere
il suo Signore. Paradossalmente, per trovare veramente Dio, bisogna perderlo.
Amico, lasciati portare via il tuo Dio triste.
Non contribuire anche tu a mettere in circolazione l'immagine
di un Dio triste, di una Chiesa cupa e severa, di un cristiano mesto e annoiato.
Lascia che altri vadano a trovarlo, con passo lento e
ritmato, al cimitero...
Tu, come Maria di Magdala, apriti alla sopresa di un Dio
"irriconoscibile" rispetto a quello del passato.
Il "riso pasquale"
E il segno fondamentale che hai perso la testa è quello
della tua gioia. Non una gioia qualsiasi, ma la gioia pasquale.
A Pasqua non è consentito circolare con addosso la gioia di
circostanza, ricavata dalle nostre esperienze precedenti di un mondo vecchio,
ormai liquidato definitivamente.
No, a Pasqua ci vuole una gioia totalmente nuova, diversa,
mai vista, espressione di un mondo nuovo.
Non un sorriso devoto un poco sul melenso. Certi sorrisi di
persone religiose richiamano l'idea della morte, sono quanto di più macabro io
conosca, mi sembrano il ghigno di un teschio, costituiscono un "memento
mori" senza la promessa, o almeno il presagio, della risurrezione.
Ci vuole il "riso pasquale". Qualcosa di
squassante, provocatorio, irriverente, di cui la morte ha paura.
La domenica, tornando da Messa...
In Spagna, quando la corrida ha uno svolgimento deludente, i
cronisti ricorrono a una battuta di sicuro effetto: "la gente stava come a
Messa...". Per dire che sbadigliava, era scarsamente interessata.
Lo scrittore J. Green, sulla soglia della conversione, prima
di compiere il passo decisivo, si appostava alle porte delle chiese e rimaneva
in attesa. Pensava: "Se questi veramente credono a quello cui partecipano,
dovranno uscire di qui con facce splendenti, occhi incendiati dalla luce, il
fuoco nel cuore". Invece si trovava di fronte a individui spenti, sguardi
opachi, musi lunghi, volti senz'anima. E commentava con amarezza: "Scendono
dal Calvario e parlano del tempo sbadigliando".
Si racconta invece di uno scienziato tedesco che, cercando un
posto tranquillo dove sistemarsi, aveva finito per scegliere un'abitazione che
stava nelle immediate vicinanze di un monastero di clausura.
Non aveva la fede, ma quell'ambiente presentava il vantaggio
di essere ideale quanto a quiete per le sue ricerche. "Qui almeno troverò
il silenzio di cui ho bisogno per i miei studi e i miei esperimenti",
pensava.
Le sue previsioni si rivelarono esatte solo parzialmente.
Di fatto, gran parte della giornata la sua casa era come
avvolta dal silenzio, rotto soltanto dal suono di una campanella. Ma poi
venivano le ore di ricreazione delle monache. E allora non c'era verso di
difendersi da quell'allegria scoppiettante. L'esplosione delle risate trapassava
muri e finestre.
Per lo studioso diventò quasi un'ossessione. Ragionava:
"Queste donne sono povere, conducono una vita di penitenza, non conoscono
il piacere. Come fanno a essere così contente? Non ci sarà sotto, per caso,
qualcosa di losco?".
Decise di togliersi il pensiero parlandone direttamente con
l'abbadessa. Questa gli fornì una spiegazione semplicissima:
- Siamo le spose di Cristo...
- Ma il vostro sposo non è morto duemila anni fa? - obiettò
quello.
- Mi scusi, signor professore, ma Lei non deve essere stato
informato che tre giorni dopo è risorto da morte. E noi siamo testimoni
appunto, di ciò che è accaduto tre giorni dopo.
Amico, non vorrai anche tu continuare a essere in ritardo di
tre giorni, come tanti altri cristiani ... Fermi al Venerdì Santo.
Le conseguenze
Sul Calvario avevano trionfato le solite logiche, le solite
complicità: l'odio, la violenza, il fanatismo cieco, la stupidità, gli
interessi dei poteri coalizzati, il tradimento, il complotto, la corruzione.
Tutto era rientrato nell'ordine dopo il sussulto provocato da
Gesù di Nazareth. Il germoglio della speranza, da Lui fatto crescere, era
bruciato. La terra, dopo quel sussulto, tornava a rotolare come prima.
Eliminato il disturbatore, colui che pretendeva rovesciare le
strutture consolidate e i riti collaudati, reinventare le regole del gioco (gli
ultimi che diventano i primi e i primi gli ultimi; i miti che possiedono la
terra; i superbi, gli altezzosi rovesciati dai troni e gli umili innalzati; i
peccatori e le prostitute che precedono nel Regno le persone perbene), adesso
qualcuno tornava a dormire tranquillo...
Invece, ecco che il mattino di Pasqua tutto viene rimesso in
discussione. Vengono cambiate le regole del vecchio gioco. Anzi, è apparso un
mondo nuovo. A Pasqua ha vinto l'amore, non la violenza. Ha vinto la debolezza,
non la forza. Ha vinto, paradossalmente, la carta perdente. Ha vinto il perdono
e non l'odio.
Una vittoria possibile anche per noi oggi.
Una vittoria pasquale: la vittoria del perdono
A conclusione, vorrei portarvi un esempio concreto di questa
vittoria pasquale. E' la vittoria di un cristiano qualsiasi, anche se molto
noto, sull'odio, sulla violenza, attraverso quella forza apparentemente
sconfitta che è il perdono.
Vorrei recare la testimonianza di uno scrittore, che
certamente conoscete e amate, Giovannino Guareschi (molti lo conoscono
soprattutto attraverso i films in cui dominano i due grandi personaggi di don
Camillo e Peppone). Questo scrittore conosciuto in tutto il mondo - 'Don
Camillo' è stato tradotto in circa 300 lingue - viene sistematicamente ignorato
per quelli che sono alcuni aspetti fondamentali della sua vita che rivelano la
sua statura, la sua stoffa di uomo e di cristiano.
Vorrei riferirmi a una situazione particolare che lui ha
vissuto, a una fase della sua vita.
Guareschi nel settembre 1943 è stato catturato dai tedeschi
e portato, insieme ad altri 7000 ufficiali italiani, nei lager tedeschi.
Rimarrà prigioniero per ben 25 mesi, 19 più 6 dopo la liberazione. Da prima in
Polonia, vicino a Czestochowa. Proprio lì, davanti all'immagine della Madonna
Nera, Guareschi aveva formulato una specie di litania che poi aveva fatto
imparare e ripetere ai suoi compagni di prigionia: "Non muoio neanche se
mi ammazzano" . Gliel'aveva ispirata la Madonna. Poi fu in altri lager,
in Germania. Immaginate le vicissitudini: la fame, le pulci, i pidocchi, il
freddo, le vessazioni di ogni genere. Eppure Guareschi era riuscito ad
alimentare la speranza di quelle persone attraverso la poesia, i suoi racconti,
la sua personalità, il suo fascino: lui assicurava veramente il "servizio della
speranza". Soprattutto in quanto credente, Guareschi, aveva inculcato nell'animo
dei suoi compagni il senso della dignità e questo senso della "dignità
cristiana" diventava quasi una sfida per i suoi aguzzini.
C'è una pagina del libro "Diario clandestino" che
mi pare sia uno dei testi contemporanei più belli per indicare quel nucleo
intangibile che c'è in ogni persona, una soglia dove nessuno, neppure il
potente e il prepotente armato può arrivare. Qualcosa di intoccabile! Guareschi
ha scritto questa pagina proprio in un lager e la leggeva guardando negli occhi
i tedeschi che si erano fatti tradurre da un interprete questa che era una
specie di invettiva, ma che era anche la rivendicazione della dignità
dell'uomo, della libertà, pur tra il filo spinato.
Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e
fai la guardia perchè io non esca.
E' inutile, signora Germania: io non esco, ma entra
chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi.
E questo è niente ancora, signora Germania: perchè
entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi
regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti
fra i trucioli del mio pagliericcio. E' inutile, signora Germania: tu
non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti
d'importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del
mio passato, il progetto del mio avvenire.
E questo è ancora niente, signora Germania. Perchè
c'è anche una grande carta topografca al 25.000 nella quale è segnato,
con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella
giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è
inutile. Perchè il giorno in cui, presa dall'ira, farai baccano con
qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai
che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del
primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perchè volerà via,
oltre il reticolato, e chi s'è visto s'è visto.
L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è
una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n'è un altro e lo
comanda soltanto il Padre Eterno.
E questa è la fregatura per te, Signora Germania.
(Diario clandestino, dalla conversazione
"Baracca 18", Lager di Beniaminowo -1944)
E' una pagina di sapore pasquale! E' una vittoria. La
vittoria nel momento dell'avvilimento, dell'umiliazione, della schiavitù.
Vorrei citare ancora un episodio particolare: Guareschi torna
a casa dopo 25 mesi, - aveva risolto il problema della dieta ... aveva perso 46
kg - era irriconoscibile e la moglie (la Margherita di tanti racconti) quasi non
lo riconosce; ci sono anche i due figli e per la prima volta vede Carlotta nata
3 o 4 mesi dopo che era stato catturato. La moglie coglie negli occhi del marito
come un lampo di luce e gli dice: «Giovannino, sembra che tu abbia
vinto la guerra» e lui risponde: «Sì, mi sento un vincitore
perchè in venticinque mesi sono riuscito a non odiare nessuno».
Immaginate la situazione del lager. E c'è anche un
dettaglio. Ma lascio parlare Guareschi:
Io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per
due anni, annotai diligentissimamente tutto quello che facevo o non
facevo, tutto quello che vedevo e pensavo. Anzi, fui ancora più
accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi
portai a casa tre librettini con dentro tanta di quella roba, da
scrivere un volume di duemila pagine.
E' vero! Io ho visto uno di questi librettini. Guareschi
riusciva a fare stare dentro una pagina cento notizie. Aveva ricostruito
esattamente, giorno per giorno, ora per ora, tutto quello che era accaduto nei
campi. Sarebbe stato un grande best seller!
E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina
per scrivere e cominciai a decifrare e sviluppare i miei appunti, e dei
due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo giomo.
Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine,
avevo il diario completo. Allora lo rilessi attentamente, lo limai, mi
sforzai di dargli un ritmo piacevole, indi lo feci ribattere a macchina
in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia.
Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho
fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero che essa è l'unica
cosa di cui non mi sono mai pentito.
(Diario clandestino, "Istruzioni per
l'uso")
Il grande scrittore che si rifiuta di mettere in circolazione
un libro che dovrebbe documentare e rinfocolare ancora l'odio, la violenza, le
vessazioni subite.
Guareschi, però, dice una meza bugia: non è vero che ha
buttato nella stufa quei fogli perchè esistono ancora. Io stesso ho potuto
vederli. Morendo nel 1968, Guareschi, nel suo testamento lascia ai figli come
eredità la consegna di non pubblicare mai quel libro e i figli rispettano
questa volontà.
Ma c'è un particolare ancora più interessante. Guareschi,
che non buttava via niente, ha ripreso in mano quei fogli e ha scritto sul
rovescio. Li ha riempiti con le storie, che tutti noi conosciamo, di 'Don
Camillo e Peppone'. Quasi a dire che bisogna scrivere un'altra storia. Basta
con la storia dell'odio, della vendetta, dei risentimenti, delle offese ...
Bisogna inaugurare la storia del perdono, bisogna ricominciare da capo e
annullare il passato. E lui stesso, tredici anni dopo essere tornato dai lager,
ripercorre in macchina insieme al figlio, a ritroso, l'itinerario che aveva
percorso sui carri bestiame.
Perchè ha fatto questo viaggio in Polonia e in Germania?
Guareschi voleva convincere se stesso, rivedendo quei luoghi,
che aveva perdonato veramente, che nel suo cuore non c'era neppure la minima
briciola di odio o di risentimento, che il suo cuore era leggero, che si era
liberato da tutti i veleni. Era un uomo libero! Era un uomo che aveva vinto
veramente attraverso il perdono.
Questa è una testimonianza cristiana di estrema attualità
che ci dice e che ci documenta come anche noi possiamo partecipare a quella
vittoria di 'quel mattino'.
Apparentemente nel mondo domina l'egoismo, la storia è fatta
da coloro che hanno la forza, la violenza, il denaro, il successo. Noi sappiamo,
come cristiani, che dobbiamo scrivere un'altra storia, che la parola ultima non
è la parola dell'odio, delle vendette, delle meschinità, ma la parola ultima
è la parola dell'amore e del perdono.
Cristo chiede allora anche a noi di partecipare, come ha
partecipato Giovannino Guareschi, alla Sua vittoria pasquale.

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