TORNINO I VOLTI:
La bellezza dell’alterità
Francesco Scanziani
«L'inverno dei volti»
Via alla bellezza
La Trinità specchio dell'uomo
La Trinità di Rublëv
L'uomo imago Dei: antropologia trinitaria
Noi uguali: insopprimibile dignità
Noi distinti: la bellezza della singolarità
La bellezza della comunione
Il peccato: solitudine e divisione
Conclusione: dall'individualismo alla comunione
"L’inverno dei volti"
Un grido, o forse, meglio un’invocazione: «Tornino i
volti». Il titolo insinua sin dall’inizio - con nostalgia - una mancanza: l’assenza
dei volti. «Tornino i volti»1
suona così la preghiera e il desiderio dell’uomo
moderno, malato di solitudine.
Un noto scrittore ortodosso, Olivier Clément, parla ormai di
un «inverno dei volti». La distanza dei volti è segno della lontananza, della
incomunicabilità. Più che sentire la bellezza dell’alterità, l’altro fa
paura. «Gli altri sono l’inferno per me» scriveva Sartre. In effetti, molti
ne sono i segnali. Si ha paura di guardarsi negli occhi: in ascensore o in
metrò gli sguardi si incrociano furtivi e si abbandonano rapidamente. Si ha
paura degli occhi dell’altro: una paura che trasforma lo sguardo in forza di
dominio e non di comunicazione, in segno di "potere" sull’altro, con
la forza o la seduzione. La condizione presente pare ben descritta da un antico
adagio attribuito a un monaco delle origini, Macario il Grande, il quale
definisce gli uomini decaduti come
«dei prigionieri incatenati in modo tale che non possano
mai guardarsi in volto»2
.
Incapaci di guardarci negli occhi, perdiamo il luogo della
nostra identità e della comunicazione e così «l’uomo passa negli oggetti»3
.
Abbiamo "maschere", non volti: visi coperti, truccati, camuffati, per
apparire tutti simili, omologati. Non a caso «nell’antica Grecia si chiamava
uno schiavo aproposos, precisamente: colui che non ha volto»4
. Di fronte
a tale lacerazione O. Clément denuncia ormai una «crisi della bellezza»5
,
sintomo e frutto dell’«individualismo della società occidentale, della sua
atomizzazione sociale»6
: l’uomo è diventato un’isola e la società, tutt’al
più costituisce un arcipelago. Non interessa più la "persona", ma
"l’individuo".
«Nella sua Lettera a un ostaggio, Antoine de
Saint-Exupéry nota che gli anarchici catalani che l’avevano catturato
mentre faceva un’inchiesta giornalistica sulla guerra di Spagna, non
guardavano il suo volto, ma la sua cravatta. Non è mai il volto che si
guarda, ma il suo colore o la lunghezza dei capelli che lo incorniciano oppure
ogni segno che permetta di classificare un uomo nella categoria degli aprosopoi
(i senza volto)»7
.
Perciò, di fronte a una simile «rabbrividente solitudine»
si assiste a maldestri tentativi di incontro che portano verso delle «fusioni
impersonali», che non fanno vivere la persona, ma al contrario, illudendola, la
annientano definitivamente.
Tale, purtroppo, pare il punto di partenza. Nonostante quell’insopprimibile
desiderio da cui nasce l’invocazione - «tornino i volti» -, di fatto, rimane
la paura dell’altro, e non l’evidenza della bellezza dell’alterità.
Dove starebbe il suo fascino? In cosa risiede una simile bellezza?
Ma forse, sotto il timore dell’alterità, si cela una paura
più profonda ed acuta: la paura di sé, la paura di non essere belli, l’angoscia
di essere "brutti", di non piacere. Per quanto mascherata da linguaggi
elaborati e dotti tale paura riecheggia di tanto in tanto in un dubbio: «Io
sono amabile? Dov’è la mia bellezza? Io sono bello?». E, oltretutto, cosa
centra l’altro con la mia bellezza!?!?
Affinché ritornino i volti occorre recuperare solidamente la
bellezza della propria identità e, in questa, la bellezza del fratello.
Via alla bellezza
Come dare risposta certa a questa domanda? Dove placare il
grido sordo e insopprimibile che si agita in noi? Non bastano gli sforzi di
autopersuasione, coi quali si cerca di convincersi che bisogna accettarsi
"così come si è". Occorre anche sapere "perché" e
"se" è possibile.
Come rispondere? La Buona Novella ci indica la Via: Gesù
Cristo.
La Bellezza, infatti, ci parla di Dio; ma non solo: Dio ci
rivela a noi stessi. Non troviamo la risposta da soli, ma la possiamo
accogliere. Come scrive O. Clément:
«Il cristianesimo è la religione dei volti e solo il
volto di Dio nell’uomo ci permette di decifrare il volto di ogni uomo di
Dio, di decifrare, nella comunione dei santi, l’enigma dei volti che
circondano l’uomo contemporaneo»8
.
Ecco lo sguardo propriamente cristiano: l’uomo trova il suo
volto contemplando il volto di Cristo. «Ecce homo»: profeta suo
malgrado, Pilato addita la verità dell’uomo – pur non sapendola vedere.
Questo è l’uomo: Gesù Cristo. Nel NT la domanda «Chi è l’uomo?» rimanda
e trova la sua risposta nell’uomo Gesù di Nazareth. Più precisamente in
questo uomo: il Crocifisso9
.
Si è in questo modo ricondotti velocemente alle radici dell’antropologia
cristiana, al criterio ermeneutico dell’antropologia teologica: l’uomo Gesù
di Nazareth. Tale principio è stato formulato con efficacia in GS 22:
«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato
trova vera luce il mistero dell’uomo ... Cristo, che è l’Adamo
definitivo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Gesù Cristo è la verità dell’uomo. E lo è con la sua
stessa vita, con la sua storia, con la sua persona. Tale intuizione costituisce
la chiave di lettura della visione cristiana dell’uomo, il punto di
riferimento per comprenderne la bellezza. In definitiva, solo in Cristo si
scioglie il mistero dell’uomo: sia il senso della libertà, che il suo
fallimento; il cammino della vita e il dramma della morte. Cristo è la Via da
seguire.
Ben coglieva B. Pascal la portata insopprimibile di questo
nesso:
«Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù
Cristo, ma non conosciamo neppure noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo.
Noi non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Al di
fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra
morte, Dio, noi stessi. Così, senza la scrittura, che ha solo Gesù Cristo
per oggetto, noi non conosciamo nulla e non vediamo che oscurità, confusione
nella natura di Dio e nella nostra propria natura»10
.
La Trinità specchio dell’uomo
Proprio rivelando il volto di Dio, Gesù Cristo disvela anche
il mistero dell’uomo; la risposta all’interrogativo «Chi è Dio?» risolve
anche l’enigma sulla creatura. Poiché ha rivelato il volto di un Dio che è
Trinità, qui ritroveremo il mistero della nostra identità! Per questo
cerchiamo di illuminare il nostro discorso sull’uomo a partire dal "Volto
di Dio", attraverso l’icona della Trinità di sant’Andrej Rublev
(1360-1430 c.a.)11
.
La trinità di Rublëv
«La Trinità è specchio dell’uomo»: questa l’ottica
con cui contempliamo quest’antichissima icona. Qui si ha la risposta alla
domanda «chi è l’uomo?». Poiché l’uomo è imago Dei, occorre
contemplare l’«originale» per cogliere la Bellezza racchiusa in noi: così -
come scriveva Pascal - «diventiamo comprensibili a noi stessi».
Di fronte all’icona, però, non si dovrebbe parlare:
occorre solo contemplare. O meglio, non si dovrebbe stare a parlare dell’icona:
è l’icona che parla a noi. Anziché ragionare come di fronte a qualcosa di
statico, da guardare distaccati, occorre lasciarsi guardare, lasciare che essa
ci riveli. Occorre superare il timore, l’imbarazzo, un certo senso di
"intrusione", per avvicinarsi come Mosè al roveto ardente. Allora ci
si accorge che questa icona ci invita ad entrare, a sederci a mensa. Il
banchetto, infatti, è aperto: il quarto lato, rivolto verso di noi, rimane
libero, quasi un invito ad entrare, a sedersi e stare con la Trinità.
Contemplare, pregare una simile icona significa accomodarsi e condividere questa
mensa.
Vorrei semplicemente condividere la prima impressione che mi
ha fatto dire stupito: «Ma sono uguali!». E non per un errore; non è
piuttosto la verità del dogma trinitario - non solo dell’icona -: tre
persone uguali e distinte?
Così l’icona ci parla di Dio: un Dio-Trinità, in cui tre
Persone sono uguali e distinte e perfettamente in comunione. Alla
luce di questa rivelazione di Dio si può scoprire anche la bellezza del volto
umano.
- Uguali -
Nell’icona tutti e tre hanno lo stesso volto: uno sbaglio o
non piuttosto la convinzione che si tratti del volto del Figlio? Gesù è l’unico
Volto divino che abbiamo visto. Lui rivela e manifesta il volto del Padre (Gv
14,9: «Chi vede me, vede il Padre») ed ha insegnato che lo Spirito Santo
plasma l’uomo, conducendolo alla conformità con Figlio.
Ma anche altri segnali rafforzano questa radicale
uguaglianza. Ad es., il bastone del pellegrino, così lineare e preciso da
diventare ormai lo scettro del potere divino; ma ancor di più il colore degli
abiti: tutti portano un manto azzurro. Tutti particolari che concorrono a
consolidare una convinzione: la comune natura divina. Sono tutti e tre Dio. Ecco
l’uguaglianza!
- Distinti -
Nello stesso tempo, però, i tre rimangono inconfondibilmente
anche distinti. Occorre del tempo per abituarsi e notare le differenze, ma
queste non mancano. Ancora una volta il gioco dei colori degli abiti li
differenzia e permette di identificare le diverse persone della Trinità. Nell’angelo
centrale, infatti, azzurro è la veste superiore che ricopre l’abito marrone
segno dell’umanità e della passione. È Gesù, il Figlio! L’azzurro sta
"sopra" proprio ad indicare che Lui è la manifestazione della
divinità, è lui a far vedere Dio all’uomo. Alla sinistra di chi osserva,
invece, sta il Padre, di cui sin intravede appena il mistero della divinità,
celato da un manto d’oro. Infine, anche nello Spirito Santo l’azzurro della
divinità rimane è celato, ricoperta dal verde, dal colore della natura e della
vita, segno del creato in cui è all’opera.
Oltretutto, anche la posizione li caratterizza: il Figlio e
lo Spirito Santo si chinano maggiormente verso il Padre e con loro, alle spalle,
anche l’albero e la roccia sono coinvolti in questa prostrazione, come se
tutto il mondo fosse unito all’adorazione del Padre.
Per quanto uguali, dunque, ognuno rimane inconfondibile (inconfuse).
Questo dice la singolarità delle persone.
L’uomo imago Dei: antropologia trinitaria
Uguali e distinti: ecco il volto di Dio. Questa è la
bellezza della comunione divina e in essa si specchia la bellezza dell’uomo.
Chi è l’uomo? Cosa si rivela della bellezza che è in ciascuno di noi e,
tanto più, nell’altro?
Noi uguali: insopprimibile dignità
Stando di fronte all’icona, o meglio "dentro", un’altra
(apparente) suggestione avvicina alla risposta. Rimanendo seduti a questa mensa
e vedendo che tutti e tre i commensali hanno lo stesso volto, gli stessi
lineamenti, si insinua infatti un dubbio: «Non avrò anch’io lo stesso volto?
Non avrò anch’io il volto del figlio?!?».
È forse eccessivo? Solo una suggestione? O non è forse la
verità che l’uomo è creato ad immagine di Dio, del Figlio? Creati in
Cristo portiamo in noi i tratti del figlio! L’uomo è immagine di Dio: non è
forse questa la bellezza di cui ci ha dotati il Padre?
Questa, dunque, la risposta cristiana alla domanda
ineludibile del cuore umano: chi sono io? Da dove vengo e dove vado? «Figlio»
(Lc 15,31) è la risposta ferma e trepida del padre che ridona la propria
identità anche al figlio maggiore, lui che si era smarrito vivendo come uno dei
servi («io ti servo» Lc 15,29). Alla domanda «Chi è l’uomo? Qual è la
bellezza celata sul suo volto?» questa è la risposta dell’antropologia
cristiana: l’uomo è imago dei, dunque, del Figlio. A fondamento di
questa convinzione si torni a meditare i passi bellissimi di Rom 8, 28-30 e gli
inni di Col 1 e Ef 1.
"Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di
coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché
quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi
all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti
fratelli " (Rom 8,28-29).
Ecco, il contenuto del disegno divino: la filiazione.
Questa è la volontà di Dio: Dio vuole gli uomini come figli nel Figlio.
Allo stesso modo Ef 1:
"Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in
Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a
essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il
beneplacito della sua volontà" (Ef 1,3-6).
Gesù Cristo rivela il mistero del progetto del Padre e,
così, disvela la verità, la bellezza dell’uomo. L’uomo è creato ad
immagine di Dio: ecco la buona notizia! Occorre lasciarsi rivelare da Dio
la bellezza che c’è in noi! È dono. È il dono di Dio per ciascuno.
«Figlio»: ecco la bellezza che c’è nell’uomo!
Per questo la Trinità si rivela specchio per l’uomo, ne
rivela la verità. «Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?»: qui trovano pace e
risposta gli aneliti di ciascuno. Ecco la bellezza, la grandezza di ciascuno.
Ecco la dignità dell’uomo: anche noi tutti siamo uguali! E non semplicemente
perché abbiamo la stessa natura umana, ma molto più perché siamo tutti creati
ad immagine del Figlio, perché chiamati a diventare anche noi figli di Dio, per
adozione. In questo modo, la Trinità rivela la bellezza del volto umano!
Questa è la risposta dell’antropologia cristiana, come
già ha mostrato la Parola di Dio. Ma la consistenza di tale bellezza si
illumina con efficacia in racconto autobiografico di don Tonino Bello, che
commentando una frase del salmo 8 scrive così:
«Quell'anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta,
dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva
solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore. La città era in festa,
e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella
notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di
preghiera che si tenne nel santuario. Parlò con trasporto di Maria suscitando
un vivo entusiasmo. Poi, prima di mandare tutti a dormire, diede la parola a
chi avesse voluto chiedere qualcosa.
Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a
me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore. Gli risposi
dicendo che «basilica» è una parola che deriva dal greco e significa «casa
del re», e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per
essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della
terra. Il giovane, il quale tra l'altro disse che aveva studiato il greco,
replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato
di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette
testardamente: «Lo so che cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica
Minore?»
Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo,
infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatto una
cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche
Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e
io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un'assemblea
che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio
disagio, la mia scandalosa ignoranza sull'argomento.
Mi venne, però, un lampo improvviso. Mi avvicinai alla
parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica
Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne.
L'uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è
questo bambino, è quella vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del re!».
Il Cardinale annuiva benevolmente col capo. Forse mi
assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì che era passata la
mezzanotte. Fui l'ultimo a lasciare il santuario. Me ne tornavo a piedi verso
casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un
passaggio. Lungo la strada, commentammo insieme la serata, mentre il
tergicristallo cadenzava i nostri discorsi.
Ma ecco che, giunti davanti al portone dell'episcopio, si
presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire,
infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c'era lui:
Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di
selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel
bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la
ragazza che era in macchina dietro di me mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo,
Basilica Maggiore o Basilica Minore?».
«Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a
dormire.
All'alba, volli andare a vedere se si fosse svegliato.
Avevo intenzione di cantargliene quattro. Giuseppe riposava, sereno. Un
respiro placido gli sollevava il petto nudo. Sotto le palpebre socchiuse
luccicavano due pupille nerissime, e la barba dava al suo volto un tocco di
eleganza. Forse stava sognando. Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore e
ripetere col salmo: «Lo hai fatto poco meno degli angeli».
Mi attardai per vedere se avesse le ali.
Forse le aveva nascoste sotto il guanciale»12
.
Essere immagine di Dio. Essere figli nel Figlio Suo Gesù:
questa è la bellezza cui siamo chiamati. Questa icona ricordi a ciascuno la
bellezza che è in noi. Anzi, ci ricordi che è incancellabile!
E forse, a questo punto, non occorrerà spendere ulteriori
parole per ricordare che occorre "guardare in questo modo anche il
fratello": non ci sarà possibile, finché non avremo guardato così noi
stessi.
Noi distinti: la bellezza della singolarità
Se l’uguaglianza dei volti dice la bellezza, la dignità
insopprimibile presente in ogni uomo, la diversità di ciascuno iscritta già
nella Trinità custodisce la singolarità delle persone: inconfondibili.
L’icona dice a ciascuno: «Tu sei inconfondibile: unico,
"distinto"».
Eppure, nonostante questo annuncio liberante, si deve
constatare che l’uomo vive ancora cercando di "diventare come" gli
altri, che ci si sforza di assomigliare a qualcuno, perdendo la ricchezza unica
che si ha in sé. Siamo "immagine di Dio", perché tentare di
diventare "la brutta copia" di qualcun altro? Perché vivere tanto
angosciati dal confronto? Per questo l’altro appare un avversario, non un
fratello; un ostacolo, non un figlio di Dio.
Ma l’icona non parla solo di noi. Ci ricorda nel contempo
che anche gli altri sono inconfondibili e la loro diversità non è un ostacolo,
ma un dono. Qual è l’originalità che c’è nel fratello?
Forse non è così scontato notare – o meglio, accettare
– un piccolo particolare di questo discorso che la Trinità ci fa. Il
fratello, è semplicemente "altro": in questo sta la sua originalità
e bellezza: né migliore, né peggiore. Semplicemente diverso! Si noti: distinti,
ossia semplicemente diversi; né migliori né peggiori. Siamo noi, invece, a
mettere gli aggettivi: fratello "maggiore" e fratello
"minore", figlio "prodigo" e figlio "obbediente".
Il Padre, invece, vede solo figli. Finché non si scopre l’originalità
che si ha in sé non si riuscirà ad accogliere serenamente quella degli altri.
Eppure siamo chiamati a custodire l’originalità del volto, come commenta ad
es. M. Buber:
«Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a
questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò
che un altro – fosse pure la persona più grande – ha già realizzato.
Quand’era vecchio e cieco il saggio Rabbi Bunam disse un giorno: "non
vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a
Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam
come Abramo?". La stesa idea è espressa con ancora maggior acutezza da
Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: "nel mondo futuro non mi
si chiederà "Perché non sei stato Mosè?"; mi si chiederà invece
"Perché non sei stato Sussja?"»13
.
La bellezza della comunione
Ecco la Trinità è lo specchio dell’uomo, che rivela l’originalità
del volto di Dio e, insieme, dell’uomo. Ma la Trinità conduce la risposta ad
un livello ancora più profondo che permette di cogliere dove stia e si fondi
non solo la bellezza insita nella libertà di ciascuno, ma contemporaneamente la
bellezza dell’alterità, del fratello.
Uguali e distinti. Si noti il paradosso: logicamente
ci si attenderebbe uguali "o" distinti: o sono uguali o sono diversi.
Come è possibile? Il segreto, o meglio il mistero della Trinità sta in questo:
tre persone uguali e distinte sono talmente unite nell’amore da essere un solo
Dio. Il mistero ultimo della Bellezza di Dio sta in questo mistero di comunione
piena che rende i tre, pur rimanendo inconfondibilmente se stessi, "uno".
L’amore è essere Uno! È la Bellezza di Dio! È la Bellezza della vita: chi
intuisce questo intuisce la verità, non un’illusione. Per questo, chi
afferma che l’amore è un’illusione non dice solo una bugia: dice un’eresia
Trinitaria!
Coerentemente, alla luce della piena rivelazione della
Trinità, si scopre definitivamente anche la bellezza dell’uomo, che include
immediatamente anche l’alterità: anche l’uomo è fatto per la comunione. La
diversità di ciascuno è fatta per la comunione. Questa è la verità ultima
dell’uomo. Se l’uomo è imago Dei, ma di un Dio che è Trinità, ossia
comunione di persone in se stesso, allora la verità dell’uomo è di esser
fatto per la comunione, per la relazione. Dio in se stesso è relazione: così l’uomo.
Questa è la verità dell’antropologia cristiana. Può essere illustrata in
molti modi. Ad es. attraverso i testi genesiaci.
Genesi 1
Nel primo racconto della creazione, si afferma
esplicitamente che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Ma questa proprietà è detta dell’uomo e della donna, insieme: l’uomo,
dunque, è creato ad imago dei non "isolatamente", bensì
nella relazione.
«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di
Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1,27) «... e Dio vide
quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
La bipolarità sessuale, dunque,la diversità non è
ostacolo, ma realizzazione, compimento dell’uomo! In definitiva, il
racconto della creazione rivela che l’uomo sin dall’inizio è posto
nella relazione. Alla luce del NT si potrà ulteriormente ribadire che,
essendo l’uomo creato ad immagine di un Dio-Trinità, un Dio che in se
stesso è relazione - e non monade-, l’uomo stesso, nella sua
identità, è relazione. Questa stessa verità dell’uomo viene
espressa in Gen 2 narrativamente.
Genesi 2, 18. 24-26
Poi il Signore Dio disse:
"Non è bene che l'uomo sia
solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile"... Il Signore Dio
plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse
all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia
carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata
tolta". Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.
Il racconto di Gen non solo presenta la creazione dell’uomo,
ma in questa forma narrativa rivela chi egli sia, la sua natura e identità.
Leggendo il testo unitariamente e non nella successione cronologica della
narrazione – come se la creazione dell’uomo fosse avvenuta in una
successione di momenti: prima l’uomo, poi il mondo, infine la donna – si
comprende l’uomo creato in una triplice relazione: con Dio, con il mondo e con
l’altro da sé (uomo o donna). La Parola di Dio non definisce, dunque, l’uomo
a partire dai suoi "componenti" (anima e corpo), bensì nella sua
intrinseca relazionalità. L’uomo è creato così, questo è ciò che lo
definisce: l’uomo è relazione! L’uomo si dà entro questa trama di relazioni.
Si noti: l’uomo è relazione, non "ha" delle
relazioni. Ossia, la sua identità, il senso della libertà umana è data dalla
relazione: non sono dei componenti, degli elementi aggiuntivi, delle qualità.
Gli sono originarie e costitutive: sono ciò che lo definisce.
Tutto ciò, in positivo, rivela il senso della vita umana. Se
l’uomo è relazione, la relazione si realizza e si vive nella comunione/amore.
Questo è il senso della libertà. Per questo la persona si realizza pienamente
solo amando, solo creando comunione. Non a caso, il racconto della creazione
finisce con queste parole: "per questo l’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (v. 26). È
la conclusione del racconto: come a dire che il vertice della creazione è la
comunione. L’uomo è fatto per la comunione, per l’unione perfetta. Questo
è il suo compimento, la sua realizzazione piena, la felicità. Qui, allora, si
scopre perché l’alterità e per me bellezza! Questa è la verità dell’uomo:
l’uomo è fatto per la comunione.
Il peccato: solitudine e divisione
La controprova si può aver andando al versante negativo –
quello da cui, in realtà, eravamo partiti: il fallimento della relazione, il
peccato (Gen 3).
Sia dal punto di vista letterario che teologico le pagine di
Gen 2 e 3 sono indisgiungibili. Come a dire, anche strutturalmente, che la
comprensione del peccato non si può dare prima di aver compreso la grazia. Il
peccato, così non è mai la prima parola, ma sempre la seconda. Solo una volta
capito chi è l’uomo si può anche comprendere la natura e la drammaticità
del peccato. Solo alla luce del positivo, infatti, risalta il negativo. Sì, il
peccato non è e non può mai essere il punto di partenza di un discorso
cristiano (tantomeno l’ultima parola). E’ il bene a rivelare la natura del
male: la grazia quella del peccato14
.
Il racconto di Gen 3, allora, appare come il chiaro-scuro di
Gen 2. Infatti, se il primo testo descriveva l’uomo nelle sue relazioni
fondamentali, questo secondo presenta la natura del peccato nel fallimento di
questi rapporti.
Gen 2: la grazia
|
Gen 3: il Peccato
|
vv 4b-7: la relazione uomo-Dio |
vv. 8-15: rottura della relazione uomo-Dio |
vv. 8-17: la relazione uomo-mondo |
vv. 17-24: rottura della relazione uomo-mondo |
vv. 18-25: la relazione uomo-donna |
v. 16: rottura della relazione uomo-donna |
Il peccato rivela così la sua natura maligna: se l’uomo è
relazione il peccato è divisione e separazione. Questa è la natura più intima
e demoniaca del peccato: la rottura della relazione, dividere, ostacolare
la comunione. Anzi, questa è la radice ed il senso di ogni peccato: dividerci
da Dio, dagli altri, paradossalmente anche in noi stessi (cfr. Rom 7). L’uomo
diventa un’isola e la comunità umana appare un arcipelago di solitari.
Non a caso, il principe del male è chiamato dalla Bibbia il dia-bolos:
il divisore! Coerentemente effetto del peccato, segno e conseguenza di questa
rottura del rapporto diventa la divisione e la solitudine.
A più riprese i padri insistevano su questa dimensione
relazione dell’antropologia persa invece dall’individualismo moderno. Ubi
peccata ibi multitudo – scriveva Origene – e Massimo il confessore
considera il peccato come una separazione, una frammentazione o peggio una
individualizzazione: «Satana ci ha dispersi» scrive san Cirillo. Efficace a
questo proposito l’intuizione di Agostino che "gioca" con il nome
Adam, facendone un acrostico:
«l’intuizione bellissima di sant’Agostino: egli
racconta che il vecchio Adamo, il primo Adamo, ha spaccato l’umanità come
una brocca in quattro parti: un pezzo se n’è andato ad oriente, uno a
occidente, uno a nord e uno a sud. L’umanità è tutta scompaginata.
Agostino gioca con un acrostico sul nome A.D.A.M., collegando le quattro
lettere del nome con i quattro punti cardinali nella loro denominazione greca:
A. come anatolè, Oriente; D. come diusis, Occidente; A. come arctos,
Nord; M. come mesembria, Sud»15
.
Conclusione: dall’individualismo alla comunione
Se l’uomo creato ad immagine di Dio, ma di un Dio che è
Trinità, trova qui la sua verità: di fronte a questa icona l’uomo si trova
allo specchio!
Qui l’uomo scopre la verità ultima del proprio mistero. In
questo volto, ciascuno si trova riportato alla dignità ultima, alla bellezza
inalienabile che Dio stesso ha voluto per noi. E insieme, si fonda pienamente
anche la bellezza dell’alterità: ad immagine della Trinità l’uomo è
relazione, ciascuno è fatto per la comunione. Nessun uomo è un’isola.
L’altro, dunque, - in qualche modo - "fa parte di me.
Per questo, la bellezza della vita si realizza nella
comunione, in quell’incontro che lo sguardo dona e accoglie: come in Dio. La
divisione, invece, crea solitudine e morte. Impedisce che gli occhi si
incontrino. Come l’angelo decaduto:
«A Ravenna su un mosaico Lucifero è rappresentato come un
angelo bellissimo, ma infinitamente triste, infinitamente nostalgico, perché
vicino a Cristo e non vuole vederlo»16
.
Di fronte ad una visione individualistica dell’uomo propria
dell’epoca moderna, la Trinità propone l’annuncio di una antropologia
relazionale, solidale. La bellezza dell’uomo sta nell’essere imago dei: e
poiché si è immagine di un Dio che è Trinità, tale bellezza dell’uomo si
dischiude pienamente nella comunione.
«Tornino i volti». Dunque, torni l’altro, il fratello,
perché l’altro non è ostacolo bensì "bellezza" anche per me!
Certo, questo andrà contro alcuni luoghi comuni sulla libertà. Infatti, se la
libertà si realizza nella comunione, ci si trova esattamente opposto di chi
pensa: se mi lego non sono più libero. Se non altro, dopo questo tentativo di
specchiarci nell’icona della Trinità, alla ricerca della Bellezza umana,
vorremmo permetterci di insinuare un’ultima domanda: «Chi è senza legami è
più libero oppure è semplicemente solo?»
NOTE:
1
I.Mancini,Tornino i volti, Marietti, Genova 1989; O.Clément, Il volto interiore,
Jaca Book,Milano 1978, Id., Riflessioni sull'uomo, Jaca Book, Milano 1975
2
O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
3
O. Clément, Riflessioni sull'uomo, cit., 116
4
O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
5
O. Clément, Riflessioni sull'uomo, cit., 118. "Essa è separata dal bene e
se il bene isolato,rende mediocre, la bellezza isolata conduce alla pazzia" (Ib.,115)
6
O. Clément, Riflessioni sull'uomo, cit., 119
7
O. Clément, Il volto interiore, cit., 19
8
O. Clément, Riflessioni sull'uomo, cit., 126
9
"In realtà, ciò che nel Nuovo Testamento è veramente nuovo e insieme scandalizza
ogni umanesimo è la conoscenza del Dio vero e dell'uomo vero nel Crocifisso."
(J. Moltmann, Uomo, 40).
10
B. Pascal, Pensées, n.729 (548).
11
Per un'interpretazione dell'icona si veda: T.Spidlik - M.I. Rupnik, Narrativa dell'immagine,
Lipa, Roma 1996,19-32;G. Garib, Le icone festive della chiesa ortodossa, Ancora, Milano, 218-219;
P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L'arte dell'icona, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)1990;
D. Ange, Dalla Trinità all'Eucaristia. L'icona della Trinità di Rublëv, Ancora, Milano
12
T. Bello, Scrivo a voi ... Lettera di un vescovo ai catechisti, EDB,1992.
13
Cfr. M. Buber, Il cammino dell'uomo, 26-27.
14
"Se volete sapere che cosa è il peccato, non chiedetelo ad un peccatore ma ad un santo.
Se volete sapere cosa è il peccato di origine non chiedetelo al primo Adamo, ma al secondo,
che nella sua morte in croce ha manifestato il cuore veramente sanguinante di Dio", E. Guerriero,
Editoriale in "Communio" 118 (1991),5-6.
15
Cfr. T. Bello, Laudate e benedicete, 21.
16
O. Clément, Riflessioni sull'uomo, cit., 43.
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