IRRADIARE LA BELLEZZA DI DIO
Giannino Piana
Come attraverso
uno specchio ed enigmaticamente
Testimoniare e annunciare la bellezza di Dio
La santità come testimonianza
Il linguaggio simbolico dell'annuncio
La preghiera come paradigma
"Irradiare la bellezza di Dio" è il compito
fondamentale di ogni credente e, più in generale, delle comunità cristiane,
chiamate a rendere trasparente con la testimonianza della vita e a proclamare
con la parola l'amore infinito del Padre. L'irradiazione di un messaggio
esistenziale come quello del vangelo del regno implica dunque la simultanea
compresenza di azione e di parola; o, più ancora, comporta un essere radicati
nella "vita nuova" così da agire in conformità ad essa e da
diventare annunciatori della sua verità. L'oggetto di tale irradiazione non è
infatti una dottrina, per quanto sublime, ma - come risulta dal titolo proposto
- la stessa "bellezza di Dio". Questa formula, di per sé
immediatamente percepibile nel suo significato profondo, esige tuttavia, per
essere colta in tutta la ricchezza delle sue implicazioni, alcune precisazioni.
Un primo interrogativo, cui occorre rispondere, riguarda
anzitutto il concetto di "bellezza", soggetto ad interpretazioni
diverse, e spesso discordanti. E' fuori dubbio che esso rinvii, in parte, alla
sfera della soggettività, perciò dei sentimenti e delle emozioni strettamente
personali (de gustibus non est disputandum), ma esistono dei
canoni oggettivi ai quali è doveroso far appello per riconoscerne i tratti
essenziali e i lineamenti irrinunciabili. In prima approssimazione, e in
un'accezione estensiva, si può dire che la bellezza si identifichi con quella dimensione
di profondità della realtà, che è coglibile solo da chi sa guardare le
cose con occhi incantati, andando oltre il livello della funzionalità e
dell'utile, per afferrarne gli aspetti di imprevedibilità e di gratuità, che
appagano il desiderio di essere in comunione con gli altri e con il mondo. Si
tratta, in altre parole, della capacità di varcare la superficie per penetrare
nell’ "al di dentro" della realtà nei suoi significati riposti, che
si dischiudono solo a chi supera la tentazione del dominio e si dispone
all'ascolto e all'accoglienza incondizionata. E' facile intuire come questa
predisposizione apra il varco anche alla possibilità di apertura al
trascendente: l'ingresso nell’ "al di dentro" delle cose è la via
per raggiungere, o almeno per invocare, l’ "al di là" delle cose;
per rendersi cioè disponibili all'azione fecondante della grazia divina, che è
dono dall'alto, il quale comporta tuttavia, per operare efficacemente, la libera
adesione dell'uomo.
Quest'ultima precisazione consente di dare una prima risposta
anche all'altro ineludibile interrogativo: quello relativo alla "bellezza
di Dio". Se la bellezza è la profondità ultima delle cose, si comprende
immediatamente "perché" e "in che senso" essa possa essere
predicata di Dio, che nella concezione più diffusa, è considerato come
l'origine, la sorgente della realtà, ciò che la fa essere e la mantiene in
vita. Ma, anche in questo caso, il discorso è aperto. E ciò a maggior ragione
quando si abbandona una concezione astratta di Dio per misurarsi - è quello che
intendiamo fare - con il Dio della rivelazione, che si è manifestato pienamente
a noi nel volto di Gesù di Nazaret, il quale non ha assunto soltanto le
sembianze umane ma la condizione di servo, fino all'annientamento della croce.
Come attraverso uno specchio ed enigmaticamente
La difficoltà a parlare di "bellezza" facendo
riferimento al Dio della Bibbia non può essere, del resto, limitata alla sola
rivelazione neotestamentaria. Ciò che infatti la tradizione ebraica
costantemente fa emergere è la figura di un Dio assolutamente trascendente, di
cui non è solo proibita ogni raffigurazione, ma è persino vietato pronunciare
il nome. Anche in momenti forti della storia di Israele - come quello
dell'alleanza - l'assoluta vicinanza di Dio all'uomo si accompagna alla
proclamazione dell'infinita distanza della radicale alterità, della totale
separazione (la santità, intesa come "sacralità" in senso forte, sta
ad indicare questa separazione). Il volto di Dio, che è
l'impronta più trasparente della sua bellezza, non può essere guardato, e
dunque conosciuto; a Dio si accede solo attraverso una serie di mediazioni - i
fenomeni naturali sconvolgenti, l'angelo, il sogno - che rivelano, in qualche
modo la presenza, ma nascondono, nello stesso tempo, le vere sembianze. Il
termine "rivelazione" non riveste, d'altronde, il duplice significato
di svelare e di velare (ri-velare, cioè velare di nuovo), di manifestare
e di coprire, avvolgendo Dio nel mistero e lasciandone pertanto impregiudicata
l'incolmabile differenza?
Ciò non toglie che esistano, fin dall'AT., tracce evidenti
dell'azione di Dio, alle quali è possibile rivolgersi per scoprirne il volto
nascosto. La creazione reca su di sé (e non può non recarla) l'impronta del
Creatore. La descrizione, semplice ma ricca di significati simbolici, che Gen
1-2 fa dell'attività creatrice di Jahve, evidenzia come la bellezza del
Creatore si rifletta, in qualche modo, nelle sue opere. Lo stupore con cui, di
volta in volta, Jahve contempla ciò che ha chiamato alla vita ("E vide che
ciò che aveva fatto era bello e buono...", così si dovrebbe forse
tradurre) manifesta il godimento per un'armonia e una bellezza, espressione di
una diretta partecipazione alla sua armonia e alla sua bellezza. Il riposo di
Dio al settimo giorno conferma, avvalorandola in modo definitivo, questa
percezione: è infatti il grande momento della contemplazione, della fruizione
estatica delle cose, che conferisce ad esse pienezza di senso, esaltandole nella
loro bellezza. La gloria di Dio - canta il salmista - è narrata dai cieli e
l'opera delle sue mani è rivelata dalle profondità astrali del firmamento.
Ma la bellezza di Dio nel creato è soprattutto resa
trasparente dall'uomo, che Dio ha fatto di poco inferiore agli angeli,
coronandolo di splendore e di gloria. Il tema dell'immagine di Dio,
applicato all'uomo (e poi in senso pieno all'Uomo per eccellenza il Figlio di
Dio) - tema che occupa un posto centrale nell'antropologia biblica - evidenzia
la continuità ontologica esistente tra Dio e l'uomo, e perciò la possibilità
di accedere alla conoscenza di Dio, sia pure parzialmente (rimane l'infinita
distanza tra il Creatore e la creatura), attraverso la conoscenza dell'uomo. A
questo si collega la teologia dell'icona, che la tradizione cristiana
orientale ha molto sviluppato, intravedendo in essa una sorta di presenza
sacramentale (del tutto giustificata) del divino. Se poi si pensa che già
nell'AT. si fa strada la convinzione che l'immagine va soprattutto posta
nella relazione ("A sua immagine lo creò; maschio e femmina li
creò", Gen 1,26) e che il Dio cristiano, come risulta dalla rivelazione
neotestamentaria, è un Dio in relazione di persone (il Dio trinitario in cui le
persone sussistono in quanto si rapportano tra loro nel segno della reciproca
donazione), allora si comprende ancor più intensamente come la bellezza di Dio
può essere, in definitiva, annunciata solo dall'uomo, laddove egli sviluppa
relazioni autentiche, improntate alla logica dell'amore. Bellezza e amore non
sono infatti grandezze diverse, ma perfettamente omogenee; anzi si può dire che
l'amore è l'apice della bellezza, perché in esso la realtà dell'altro (e, in
qualche misura, del mondo) riceve la sua più alta trasfigurazione. Dire che Dio
è Carità, cioè Amore assoluto, significa celebrarne in senso pieno la
bellezza, identificandolo con essa e trasformandolo in paradigma di ogni altra
forma di bellezza presente nella realtà.
Da questa visione prende luce lo stesso paradosso della
croce. L'annichilimento di Dio, il suo abbrutimento - si pensi soltanto alla
descrizione del servo sofferente del deuteroisaia - sono riscattati soltanto dal
valore salvifico che la croce riveste in quanto atto di amore eccedente, senza
misura e senza riserve: laddove ha abbondato il peccato là ha sovrabbondato la
grazia. La croce è così soltanto la via necessaria per accedere allo splendore
radicale della vita: quello che Gesù lascia intravedere ai discepoli sul Tabor
nell'ora della trasfigurazione, ma soprattutto quello che diventerà
definitivamente chiaro nel mistero della risurrezione. Lo splendore della
bellezza, di cui il Risorto rifulge, è indelebilmente segnato dalla presenza,
come impronta, del gesto di amore con cui Egli ha donato la sua vita agli
uomini: le piaghe della croce non possono essere cancellate, rimangono come
segno di ciò che ha causato la gloria e come elemento della sua definizione. Se
l'amore - come si è detto - è la dimensione più alta della bellezza, e se non
vi è gesto più grande d'amore di quello con cui si dona la vita al fratello,
è evidente come la croce non possa che essere eternamente, in stretta
congiunzione con la risurrezione, elemento imprescindibile della piena
espressione della bellezza.
La bellezza di Dio è dunque, in ultima analisi, definita
dalla realtà dei suoi misteri, i quali tuttavia possono essere accostati sempre
soltanto passando attraverso la mediazione della realtà umana e mondana (lo
stesso linguaggio e le stesse categorie interpretative sono ad essa debitrici).
Il che lascia intuire la difficoltà dell'accostamento: la logica con cui è
possibile accedervi non può infatti essere quella lineare e deduttiva, ma
quella che fa spazio a continuità e a rotture, a forme di presenza, che
lasciano nello stesso tempo intatta l'assenza; a quella che Dostoijevski
definiva come la logica dei "doppi pensieri", estranea al nostro
comune modo di guardare la realtà. E' come dire che la percezione della
bellezza di Dio, che può avvenire solo nella trasparenza dei segni, è sempre
percezione di una bellezza colta "come attraverso uno specchio" (per
speculum) ed "enigmaticamente" (in aenigmate), non cioè
nell'immediatezza della visione, esente da ogni ambiguità.
Testimoniare e annunciare la bellezza di Dio
L'irradiazione della bellezza di Dio si realizza pertanto
dove i credenti e le comunità cristiane si impegnano a darne testimonianza con
la vita e a supportare tale testimonianza con l'annuncio della "buona
notizia" di Gesù da cui viene la trasfigurazione di ogni realtà.
La santità come testimonianza
La testimonianza coincide anzitutto con la santità della
vita - realtà cui tutti i cristiani sono chiamati, come ci ricorda la Lumen
gentium - in quanto espressione dell'azione interiore dello Spirito, che
plasma l'essere e l'agire dell'uomo. Non si tratta di una conquista umana,
frutto di uno sforzo ascetico anche molto duro; si tratta di un dono dall'alto
al quale occorre aprirsi, lasciandosi fare ed amare. Il cristianesimo non è la
religione del dare e del fare (tanto meno dell'avere o del possedere); è la
religione del ricevere o dell'accogliere. Non siamo noi ad andare anzitutto
incontro a Dio, è Lui che ci viene anzitutto incontro, e che tuttavia esige,
per poterci fecondare con la sua grazia, la creazione di un'attitudine di
disponibilità, che ha le sue radici nell'abbandono dell'autosufficienza e
nell'acquisizione di un vero atteggiamento di povertà interiore. Dio che agisce
in noi è reso così trasparente dal nostro modo di essere e di agire, che è
diretta conseguenza della sua presenza e della sua azione: non siamo più noi
che agiamo, ma è Lui che agisce in noi, poiché ci ha investito (e
continuamente ci investe) della sua stessa vita.
Il contenuto di questa testimonianza, che ha nel discepolato
o nella sequela di Gesù la sua figura emblematica, è costituito dall'adesione
ai valori del regno condensati nel discorso della montagna. Di fronte ad un
mondo imbruttito dalla presenza di conflittualità esasperate, di lotte senza
limiti per la propria affermazione in termini di successo e di potere, di corsa
sfrenata verso una ricchezza, che, oltre a generare sperequazioni e ingiustizie,
mortifica profondamente la qualità della vita, il discepolo di Gesù è
sollecitato a restituire bellezza alla realtà andando controcorrente, vivendo
cioè secondo valori inediti e sconcertanti come quelli delle
"beatitudini" o dei "ma io vi dico" del vangelo.
L'attualità di questi valori non ha bisogno di essere
comprovata; anche nel mondo laico almeno in quello più serio - si fa spesso
sentire la nostalgia di atteggiamenti e di comportamenti ispirati a queste
logiche. Il problema è semmai di trovare le strade per una loro efficace
attualizzazione, che non può essere soltanto individuale ma deve diventare
espressione di un vissuto comunitario, offrendo in tal modo un prezioso
contributo anche alla convivenza civile e all'azione politica.
Il linguaggio simbolico dell'annuncio
L'esigenza di attualizzazione non si fa tuttavia sentire
soltanto sul versante della prassi, ma coinvolge anche (in profondità) lo
stesso momento dell'annuncio, che ha bisogno proprio per questo di un apposito
linguaggio. La bellezza è sempre stata caratterizzata in tutte le culture dalla
produzione di categorie interpretative e dall'utilizzo di un linguaggio diverso
da quello della mera logica deduttiva. Al bello non si perviene per deduzione,
ma semmai per induzione e per intuizione. E' come dire che esso non può essere
registrato entro i canoni di una razionalità logico-formale come quella
attualmente dominante, le cui forme fondamentali sono quella ideologica e quella
strumentale di matrice tecnico-scientifica: la prima tendente alla creazione del
sistema sociale perfetto nel segno della totalità; la seconda volta al
perseguimento del potere o del dominio sulla realtà (sapere è potere). Né
l'una né l'altra di queste due forme, in quanto contrassegnate dalla tendenza
all'oggettivazione e alla funzionalizzazione, possono costituire un referente
adeguato per la lettura della realtà nel segno della bellezza, la cui
percezione è resa possibile solo nel contesto della gratuità e del mistero.
Non si tratta, d'altra parte, di fuggire dalla razionalità -
come talora si è tentati di fare incorrendo nel rischio di posizioni
irrazionali estremamente pericolose - ma di fare propria una nuova forma di
ragione, non ispirata - secondo la nota formula di Lévinas - alla totalità ma
all'infinito; una ragione non chiusa e radicalmente definitoria, ma aperta e
capace di rinviare costantemente "oltre". Si tratta, in altre parole,
di fare spazio ad una razionalità "simbolica", la quale non dimostra,
ma mostra, evoca, allude, non pretendendo di spiegare in senso totale la
realtà, ma tendendo a "comprenderla" nell'orizzonte del
mistero, dell'inedito e dell'imprevedibile; lasciando cioè aperto il
varco a quell'alterità, che conduce al riconoscimento della trascendenza.
A questa forma di ragione, e al linguaggio che ad essa
corrisponde, deve ispirarsi l'annuncio, nel quale ciò che conta è far parlare
la Parola, evitando di sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili (e
devianti) ideologismi. Evocare Dio, il mistero della sua realtà interpersonale,
il suo comportamento verso gli uomini, reso soprattutto trasparente nella
persona di Gesù, è possibile soltanto in un clima di accoglienza del
"diverso"; un clima che suscita risonanze emotive e affettive nel
profondo dell'uomo. Ciò vale anche per i "segni" liturgici, la cui
trasparenza deve essere immediata come immediato deve risultare il rimando a
ciò che significano, non certo spiegato ma alluso, lasciato perciò alla
percezione della coscienza in un atto mai del tutto oggettivabile. Il giusto
rifiuto di un "sacro" magico, che catturava pericolosamente il divino
trasferendolo nella sfera dell'irrazionale, anziché determinare la ricerca di
modalità espressive nuove nel segno del mistero, si è spesso tradotto
nell'adeguamento a forme di razionalismo illuminista, con la caduta in un
didascalismo pesante e infecondo. Quando i segni non parlano per se stessi, ma
esigono spiegazioni dettagliate per essere afferrati, vanno cambiati; ma il
cambiamento non può che avvenire nella prospettiva dell'identificazione di un
linguaggio simbolico, come tale davvero capace di dare spessore alla dimensione
religiosa della vita. E', in altri termini, decisivo fare il passaggio dal
"sacro" al "mistico", a ciò che non è dunque passibile di
essere fissato fin dall'inizio nei contorni, ma deve essere invece costantemente
evocato e invocato. Questo è del resto il significato del "parlare in
parabole" di Gesù e della istituzione dei segni sacramentali. Il
linguaggio umano e le cose degli uomini - quelle che hanno più direttamente a
che fare con le situazioni esistenziali più importanti - sono qui pienamente
assunti per indicare tuttavia modelli di pensiero e di realtà altri, diversi,
in cui prende forma e consistenza il divino.
In quanto appartenente all'ordine del simbolo, dunque
dell'incompiuto e del non circoscritto, di ciò che si può raggiungere sempre
soltanto parzialmente - di Dio nonostante la rivelazione è molto più quello
che non sappiamo di quello che sappiamo! - la bellezza ha un'enorme importanza,
nell'annuncio e nella celebrazione del mistero cristiano, perché impedisce la
caduta in forme di dogmatismo e/o di moralismo, da cui occorre liberarsi. Una
verità senza bellezza infatti, oltre ad essere opaca e non attraente, è
costantemente in pericolo di trasformarsi in verità assoluta, precludendo
all'uomo qualsiasi altra ricerca, e dunque imprigionandolo in sé e spingendolo
verso la tentazione di un pacifico e pieno possesso che è in antitesi radicale
con la realtà del mistero cristiano. Una moralità senza bellezza, d’altronde,
non può che incorrere nel pericolo di ridurre l'etica ad etica normativa,
disconoscendo l'importanza del mondo del soggetto e della coscienza e
impedendosi di fare i conti con la varietà e complessità delle situazioni
esistenziali, che reclamano soluzioni appropriate, nelle quali è in gioco il
coinvolgimento responsabile del singolo. Irradiare la bellezza di Dio e del suo
messaggio salvifico significa perciò anzitutto ispirarsi ad una logica
simbolica, prendendo sul serio i contenuti esposti, ma non interpretandoli mai
come definizioni chiuse, o vivendo con serietà il rapporto con i segni
liturgici, nella prospettiva di una costante ricerca di ciò che contengono, che
non viene dalla loro natura ma dalla trasposizione a un livello diverso frutto
di un intervento dall'alto.
La preghiera come paradigma
L'espressione più alta di irradiazione della bellezza di Dio
è, in definitiva, la preghiera, o meglio il pregare come dimensione costitutiva
dell'esperienza cristiana. Esso non coincide con il fare o dire preghiere, ma
esprime più radicalmente un'attitudine, un modo di essere-al-mondo del
credente: modo che compone dialetticamente in se stesso lo "stare davanti a
Dio" e l’ "essere abitati" da Lui. Quando Gesù sollecita i
discepoli a "pregare senza mai cessare" non intende certo spingerli a
ripetere costantemente preghiere, ma ad acquisire questo atteggiamento, che è
caratterizzato dal riconoscimento della presenza - una presenza che è
inabitazione, il Dio intimior intimo meo di Agostino - e insieme dalla
percezione della distanza incolmabile, l'assenza, perché il Dio cristiano è un
Dio altro, diverso, inaccessibile. La preghiera rende compresenti questi due
aspetti, che danno all'uomo il conforto di sentire Dio vicino, compagno di
viaggio, ma lo rinviano, nel contempo, alla sua responsabilità nel mondo,
impedendogli di fare appello a facili coperture sacrali.
La bellezza di Dio ha nel pregare la sua "cifra"
ultima Le dimensione del silenzio e dell'ascolto, della recettività e della
gratuità, che danno sapore alle cose, al di fuori di logiche produttiviste e
utilitariste oggi dominanti, sono qui condensate. Pregare è infatti insieme
fare esperienza di Dio nel mondo e fare esperienza del mondo in Dio. Il che
presuppone, da un lato, l'abbandono di un'immagine di Dio astratta e lontana
dalla vita per fare propria la visione di Dio propria della rivelazione, che ci
consegna invece un Dio che entra nella storia fino a farsi egli stesso storia in
Gesù di Nazaret; ed esige, dall'altro, una interpretazione della storia non
radicalmente chiusa nell'orizzonte dell'immanenza, ma segnata da un filo
provvidenziale, che non può essere eluso.
In questo atto della intera persona, che è il pregare
permanente, si dà l'interpretazione più profonda degli eventi umani e delle
cose del mondo, e soprattutto ha luogo la loro vera glorificazione, attraverso
la quale si rende risplendente nel tempo la bellezza del volto di Dio.
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