SEVERINO PAGANI

MI AMI PIÙ DI COSTORO?

Quanti sperano nel Signore mettono ali come aquile (Is 40,31)


volo

Il sovrappiù dell'amore e l'altezza del volo
La qualità della fede
La religione civile e la radicalità della fede
La fede crocifissa
Il dolore per la fede
Il sovrappiù dell'amore


L'introduzione di don Mirko Bellora

Siano arrivati alla quarta sera del nostro stupendo Quaresimale “Su ali d’aquila”.
Ecco don Severino Pagani, un amico molto atteso. Nato a Turate (Co) nel 1952, è stato ordinato sacerdote nel 1976. Laureato in filosofia, è da 26 anni educatore in seminario: è l’attuale rettore del biennio teologico che ha sede a Seveso.

Kierkegaard ha scritto:

Silamentino gli altri
che questa è un’epoca malvagia:
io mi lamento che è meschina,
poiché è priva di passione.
Ma la più alta passione dell’uomo è la fede

L’anno scorso, in occasione del suo 25° di sacerdozio, celebrando l’Eucarestia con i genitori dei seminaristi, al termine delle Giornate Eucaristiche, don Severino rammentava che quando era piccolo gli venne messo in cuore il desiderio di voler bene a Gesù, e che la preghiera alimentata da questo desiderio lo aveva condotto a entrare in seminario (…e non ne sono ancora uscito: dal seminario e da questo desiderio…).
In un’altra occasione, parlando ai giovani del biennio teologico, confidava compiaciuto di aver incontrato un ex seminarista che lo aveva presentato alla sua ragazza dicendo: “Questo è il prete che mi ha insegnato a voler bene a Gesù”.
Innamorarsi di Gesù, voler bene a Gesù, vivere la fede come passione: questo è il tema di questa sera dal titolo: “Mi ami tu più di costoro?”.
A don Severino chiediamo di insegnarci a volare alto, su ali di aquila, nel cammino della fede, vista come amore, come passione.

*****

Il sovrappiù dell’amore e l’altezza del volo
L’«amare di più» oggi assume la prospettiva di una maggiorazione di speranza,una forzatura della stanchezza e della indifferenza; il saper trovare nuovi passaggi dell’anima che dicano la verità del Vangelo e la sua proponibilità credibile alla propria vita personale e alla vicenda umana dei propri contemporanei.
In questo senso la metafora del «volo alto» si presta bene a dire il sovrappiù dell’ amore che in questo momento storico si intreccia con la necessità di capire e di interpretare le inevitabili mutazioni della nostra convivenza e la ricerca assidua di nuove sorgenti di senso. Si vuole, anche nella fede, «qualcosa di più» che un semplice sopravvivere.

Il «volo alto» è introdotto dal profeta Isaia e trova la sua consistenza nella certezza della fedeltà di Dio, il quale, senza stancarsi e con intelligenza imperscrutabile, viene incontro alla nostra malavoglia e alla nostra confusione. Dice Isaia: Perché dici, Giacobbe, e tu, Israele, ripeti: «La mia sorte è nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio?». Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi.
(Isaia 40,27-31)


La qualità della fede
Il «volo alto», come quello delle aquile, inizia dalla sconfitta della diffidenza. Il sovrappiù dell’amore (Gv 21) passa da lì. Dalla diffidenza ne siamo come invasi: diffidenza nei confronti di noi stessi, della nostra storia e anche rispetto alle cose che abbiamo creduto di più. Lo avvertiamo: o andiamo oltre questa diffidenza, oppure la mediocrità ci uccide. Lo aveva già compreso Bonhoeffer quando scriveva:

L’aria in cui viviamo è tanto inquinata dalla diffidenza che ne siamo quasi soffocati. Ma dove ci siamo aperti un varco nella cortina della diffidenza, lì ci è stato possibile fare l’esperienza di una disponibilità a fidarsi di cui finora neppure sospettavamo. Sappiamo che si può vivere e lavorare solo con una fiducia fatta così, che non cessa mai di essere un rischio, ma è un rischio accettato con letizia. Sappiamo che seminare e favorire la diffidenza è tra le azioni più riprovevoli, e che invece, dove appena è possibile, deve essere rafforzata e promossa la fiducia. La fiducia resterà per noi uno dei doni più grandi, più rari e più gioiosi della convivenza umana; e tuttavia essa potrà nascere solo sullo sfondo oscuro di una necessaria diffidenza. Abbiamo imparato a non comprometterci minimamente con il primo venuto, e a metterci invece completamente nelle mani di chi è degno di fiducia.
(D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, San Paolo1988, p 78)

Dobbiamo uscire dalla diffidenza, dalla mediocrità, dalla caduta in disuso dei grandi sentimenti di affidamento, per noi e per il mondo. Abbiamo bisogno di una qualità della fede. È così che emergono quattro questioni: la prima, come si riconfigura il rapporto tra la religione civile e la radicalità della fede: proprio nella determinazione di questo rapporto si riesce a sostenere l’esigenza legittima di porre la fede nella visibilità e insieme la constatazione di essere ormai un piccolo gregge; in seconda istanza appare la necessità di elaborare quei vissuti che si presentano alla coscienza credente come la crisi della fede e come inevitabile nascondimento di Dio; di conseguenza nasce nel cuore e nella comunità quella purificazione della fede che potremmo chiamare «fede crocifissa»; attraverso di essa si prova un certo dolore per la fede che indubbiamente la purifica e la rende adulta. Attraverso questa purificazione si prova, infine, in quale direzione si dispiega il sovrappiù dell’amore


La religione civile e la radicalità della fede
Oggi si tende cioè a raccogliere sotto l'etichetta della “religione civile” proprio la funzione storica della tradizione religiosa di un popolo. Secondo la pertinente definizione di Hermann Lübbe, la religione civile costituisce “l’insieme degli elementi stabili della cultura religiosa che sono integrati di fatto nel sistema politico, o addirittura formalmente e istituzionalmente come nel caso del diritto religioso dello Stato. Questi elementi non vengono quindi affidati alle comunità religiose come loro affare specifico, ma, senza pregiudicare la libertà religiosa garantita, legano i cittadini alla comunità (civile) anche nella loro esistenza religiosa e indipendentemente dalla loro appartenenza confessionale. Essi rappresentano quindi questa comunità civile stessa, nelle sue istituzioni e nei suoi rappresentanti, come religiosamente legittimata in ultima istanza, e cioè come capace di riconoscimento anche per motivi religiosi.” Di fronte a questa accezione del termine la nostra prima reazione potrebbe essere di rifiuto: potremmo giustamente fare cioè notare che è solo all’interno di un orizzonte di fede vissuta che gli elementi del cristianesimo conservano la loro pertinenza. Ma il connubio tra cristianesimo e “religione” per un verso e la sua dimensione “civile” per altro verso, è antico e non può essere facilmente annullato. (G.Ruggeri)

Anche noi ci troviamo in un momento della storia individuale, ecclesiale e civile che chiede, non dico di opporre o di eliminare, ma di stabilire una nuova modalità di rapporto tra i segni, le abitudini, le consuetudini della religione civile in rapporto alla possibilità del permanere di una radicalità evangelica. A volte nascono fatiche individuali ed ecclesiali perché le esigenze private e collettive della religione civile non permettono una seria coltivazione di una radicalità evangelica. Ne consegue che coloro che cercano Gesù, con un grosso coinvolgimento della loro vita, si trovano a disagio perché distratti dalle numerose funzioni anche ecclesiastiche che rimandano più propriamente ai canoni di una religione civile. La loro esperienza profonda ne è massicciamente disturbata. Il rischio è quello di mandare avanti a fatica, in un ethos popolare che cambia, le cose di chiesa senza trovare Gesù.

Il rischio è che il «sentire cattolico» venga anche legittimato a prescindere dal suo riferimento teologico fondamentale e che la comunità spirituale e storica della Chiesa venga altresì espropriata dei suoi contenuti spirituali più specifici e originali. Si direbbe che il cattolicesimo ha una sua legittimità e non può essere semplicemente catturato dalla Chiesa. Il sentire cattolico potrebbe essere semplicemente una forma culturale storica-geografica di una religione universale (Cfr M. Perniola, Del sentire cattolico, il Mulino 2001). In questo schema certamente il credente appassionato che coltiva un rapporto diretto con Gesù, sperimenta una situazione di crisi. Se si vuole disporsi per un sovrappiù dell’amore è necessario sciogliere questo impatto della fede con la cultura che ci circonda, senza escludere anche la necessità di una profonda revisione ecclesiastica.
Un primo esame di uno stato d’esistenza, cioè di una maniera di essere cristiani, pone al credente di interrogarsi circa la forza che il Vangelo è in grado di esercitare nella costituzione dei suoi pensieri, delle sue aggregazioni e dei suoi comportamenti; si presenta inoltre la necessità di interpretare questa apparente bassa marea che la chiesa cattolica sta vivendo all’interno della compagine sociale, soprattutto nelle sue forme istituzionali più tradizionali e nei suoi metodi pastorali. La questione di una res publica christiana che si poneva come sintesi di un mondo eclettico e sincretista ben compaginato con il mistero cristiano e con i suoi linguaggio è ormai scomparso: il credente, se vuole un sovrappiù dell’amore non può non interrogarsi circa la necessità di un sovrumano sforzo di restauro oppure circa l’opportunità di assestare diversamente in una nuova forma storica il mistero cristiano di un Dio trinitario, trascendente e incarnato.

La questione si pone in diversi modi; da un lato ci si può chiedere in che senso costituirsi come «comunità alternative». Dall’altro cosa significa esprimersi come piccolo gregge, e infine se è praticabile una testimonianza nella forma di una riconquista di territori, di spazi fisici e psichici o di istituzioni. In questo contesto storico la comunità cristiana e il credente sincero si interroga a proposito di un sovrappiù dell’amore (mi ami più di costoro?) su cosa puoi significare essere attivi, presenti e discreti, attraverso preziose e difficili operazioni di linguaggio comunicativo liturgico e solidale, o attraverso operazioni di discernimento.

Concretamente per essere vivi bisognerà cercare e sostenere con perseveranza nuove espressioni individuali e comunitarie di autentica vivacità spirituale, non più delegabile semplicemente ai ritmi della struttura ecclesiastica. D’altra parte, per mostrarsi vivi, accanto alla grande pratica della pietà, bisognerà favorire una grande dedizione al pensiero e all’esercizio della dignità umana e insieme coltivare una grandissima stima per la forma democratica del vivere insieme. Essere testimoni, infine, dovrà essere pensato innanzitutto come un «gustare la grazia».


La fede crocifissa
Il sovrappiù dell’amore viene spesso oggi richiesto al credente nel momento in cui la sua fede non è più così piana, così pacifica, così dimostrata: si potrebbe dire che l’oggetto della fede, il Crocifisso, stende la sua ombra sulla fede stessa, rendendola nel credente contemporaneo una autentica passione, di fronte alla quale contemporaneamente si soffre e ci si appassiona. Oggi, nel credente la fede stessa si rigenera conoscendo il dramma di un «passaggio pasquale» che da solo è capace di purificarla: è proprio da qui che passa il sovrappiù che viene richiesto all’amore dei cristiani. Ci sono nella Scrittura, soprattutto nelle pagine dei profeti, pagine che «preannunciano» gli infiniti getzemani dell’esperienza umana, che sono autentiche provocazioni alla fede. Chiamerei proprio questa situazione del credente di oggi con il nome di «fede crocifissa»

È un essere spogliati di tutto, del proprio orgoglio, della propria identità, delle cose più care, perfino delle esperienze spirituali più belle, quelle che, in una stagione della fede solida e senza interrogativi ci sembravano provenienti dalla sovrabbondanza della grazia. Ora invece questo progressivo svuotamento di noi stessi ci porta a dire un soffuso smarrimento: «Signore ti ho dedicato la vita ma se non riesco a vivere in pienezza questa dedicazione a te, se non riesco a superare la barriera del dubbio e del non-senso allora non mi servi più neanche tu.» Veniamo chiamati ad un progressivo svuotamento di noi stessi, disposti a riconoscere i chiodi che mettono in croce. I chiodi del crocifisso sono gli stessi che ci fanno male quando entrano nel cuore della nostra vita. Ciascuno può individuare con quale lancia è trafitto il suo costato. Quando la fede viene crocifissa, si inceppa il meccanismo perfetto della fede senza dubbi, senza problemi: quella fede facile che doveva essere la soluzione dei problemi. La fede stessa diventa il più grande problema. Rimaniamo soli, con il nostro scarno atto di fede che ci aiuta a portare e a sopportare la preghiera e una stentata vita di carità. Passare per questa porta è il sovrappiù dell’amore.

La fede che viene crocifissa ci introduce in quello che i mistici hanno chiamato la notte della fede: è quel che rimane della fede quando la fede viene meno. Allora, insieme alla fede si va indebolendo, secondo i tempi di Dio, il senso della vita, della propria vocazione, quell'idea che in altre stagioni ci aveva dato luce e forza; quella spinta che ci faceva camminare spediti ora è spogliata e crocifissa, e solo lì, chiodo dopo chiodo fino all'ultima lancia, incomincia una nuova qualità dell’affidamento che prima conoscevamo soltanto per sentito dire. La notte della fede ora raccoglie l'orientamento della vita, una rinnovata capacità di scegliere, di perseverare, di interpretazione, di dare speranza per il futuro.

In questa notte della fede si consuma il sospetto che Dio sia soltanto un oggetto dei nostri bisogni di fronte ad una cultura senza cielo, senza respiro, senza Dio, senza vera umanità. Noi credevamo che Dio fosse un soggetto, fatto di libertà, di amore, una persona viva, uno che chiama, che interpella, che rimprovera, che consola. Pensavamo che Dio fosse un soggetto da cui poter essere affascinati, un dio che guidava la storia, uno che ci ha amati fin dal grembo materno, un soggetto che sarebbe stato capace di dare la Parola e di mantenerla; ora invece ci viene il sospetto che questo Dio sia un oggetto della mia coscienza, un dio minore che pian piano ci siamo costruiti per uscire dalla solitudine della nostra esistenza. A questo punto c’è bisogno di una nuova qualità, di un volo più alto, di un sovrappiù dell’amore.

La percezione di avere Dio solo come oggetto della nostra coscienza e del nostro bisogno inevaso è una prova molto grande ed è un luogo sofferto di crocifissione della fede. Certamente all'osservatore superficiale e troppo moderno sembrerà in questo modo di essere perduti. In realtà, per l'uomo e la donna spirituale questo è un passaggio necessario come è stato necessario il passaggio di Gesù Cristo sulla croce per spiegare definitivamente il senso della vita. La storia della fede dell’uomo contemporaneo si presenta in questa terribile storia di crocifissione dove a poco a poco in un certo senso si è prosciugati perché la fede venga restituita nella sua forma più matura e definitiva. In questo travaglio spesso Dio non si fa più vicino nella forma piana del corteggiamento accattivante, piuttosto nella forma irresistibile della seduzione. Dio seduce e chiede al credente di portare se stesso in sacrificio. Nella sua capacità di seduzione Dio strappa l'assenso della fede, poi scompare, poi si fa rincorrere soltanto attraverso le sue tracce, e mostrandosi quel tanto che basta, dolorosamente ci attrae. Non fa poi mancare la sua consolazione.

Si tratta di una nuova forma storica della fede individuale ed ecclesiale: infatti a volte con la nostra fede vorremmo legittimamente salvare il nostro mondo interiore ed esteriore, vorremmo portarlo fuori da situazioni difficili, personali e sociali, politiche, culturali. In questo desiderio avvertiamo che la fede non viene innanzitutto estirpata definitivamente dagli atei pratici di oggi; anche questo certamente, ma prima ancora la fede è fatta prigioniera da noi stessi, dai nostri moti interiori, dalla vicenda di trapasso delle nostre stesse comunità.


Il dolore per la fede
Il volo alto della fede per il credente contemporaneo ci conduce ad affrontare con nuova lucidità queste dimensioni in parti antiche in parte inedite. A volte ci sentiamo condotti dentro una esperienza di fede che è fatta di prove, di interrogativi, di trapassi e ci chiediamo fino a quando la fede è al sicuro; fino a quando possiamo essere certi e gioiosi nella comunione con il Signore. Completamente mai, fino a quando saremo sulla terra: la fede è questo rincorrere Dio soltanto sulle tracce sostenendo il sospetto che da un momento all'altro tutto possa finire nel nulla e portando il soffrire di chi si è giocato tutto sapendo che Dio vuol bene e perdona, riprende e fa nascere, fa crescere, fa soffrire, e consola; poi ad un certo punto, come per i profeti, si accorge che è rimasto con nulla. É come essere in un gioco dove improvvisamente non ci sono più regole. Qualche volta nella vita ci capita che nel gioco della fede vengano improvvisamente tolte le regole, e si rimane smarriti, non si è più capaci di continuare. Si rimane come sospesi.

A volte c’è un attimo di terribile ateismo che è necessario per la maturazione della fede; è necessario per passare ad una fede più radicale, più evangelica. Proprio in questo spazio di terribile ateismo si gioca la confusività dell'epoca contemporanea tra il senso e il non senso delle cose. Si tratta di quello spazio intermedio dove non è possibile, come in un gioco in cui sono state tolte le regole, riuscire a capire quello che si vorrebbe: si è come sospesi tra le fede e la non fede.

Questa confusività della fede contemporanea ha quattro volti. Innanzitutto l’apatia, la non voglia di essere; il non provare più emozioni, volontà, desideri, sentimenti, entusiasmi, sofferenze. E' un sentirsi devitalizzati. Il vangelo non parla più. Non sappiamo più da che parte stare, anzi non riusciamo più nemmeno a vedere le parti. Un altro volto è quello della depressione: non abbiamo più energie per lavorare, per sperare, per amare, per arrabbiarsi. Prima almeno ci arrabbiava con qualcuno ora invece, in questo terribile spazio c'è l'impossibilità di amare e di odiare, non ci appassiona più; come era bello quando riuscivamo a pregare bene, a fare dei propositi a ricevere gratificazioni dalla fede. Un terzo volto è quello della indifferenza mentale di chi non riesce più a raggiungere l'oggetto; tutto è ugualmente insignificante, non ci interessa nemmeno trovare un oggetto che attiri il nostro interesse; la fede non è più un forte richiamo alla carità e alla speranza, è devozione, è rassicurazione emotiva, è paura rasserenante del vivere. Infine il volto del cinismo: non siamo più capaci di sentimenti di compassione per nessuno, esasperati con il problema della sicurezza per noi stessi, irritati da una giustizia impunita. Eppure la fede è esattamente il contrario dell'apatia, della depressione, dell'indifferenza e del cinismo. È una forza enorme che precede la vita e va oltre la morte. É ancora nuovamente necessaria l’insostituibile presenza di Gesù che mi strappa l’assenso vitale.

Quando la fede viene crocifissa emergono alcune esperienze laceranti che possiamo esprimere di volta in volta come sensazioni piacevoli spezzate, armonie distrutte, sacrificio del non senso e come strategie fatali che a poco a poco conducono allo spegnimento di una pratica cristiana. Solo affrontando con radicale disposizione di intelligenza e di cuore queste stagioni della vita si può lottare e vincere contro i mille volti della disperazione.

Innanzitutto il dolore per la fede può assumere le caratteristiche di una sensazione di benessere spezzata. Una sensazione fisica, spirituale, una sensazione comune, una sensazione ecclesiale, politica. Il dolore può essere anche un'armonia distrutta. L'armonia, che c'era dentro di noi tra elementi fisici, psichici, razionali, istintivi, che ci rendeva equilibrati ed ordinati, può venire distrutta e sentirci sospesi in quella necessaria frazione di ateismo che ha provato anche Gesù prima di morire e emettere quello Spirito che dà vita, che mette in ordine, che fa ripartire, che fa risorgere da una fede crocifissa. Il dolore per la fede può essere anche il portare un parziale sacrificio del non senso. La nostra intelligenza non riesce più a riposare. Dobbiamo portare il sacrificio del non senso. Non abbiamo più qualcuno di fronte al quale poterci fidare e non abbiamo più qualcuno di fronte al quale poter dubitare. Non abbiamo più un Dio né per crederci né per dire che non c'è. Non abbiamo nemmeno più un Dio da poter negare.

Il sovrappiù dell’amore può comparire come riappropriazione della fede in una sorta di lotta contro alcune strategie fatali che portano molti a lasciarsi andare, anche senza accorgersene, o senza volerlo. Queste strategie individuali e sociali ci fanno morire a poco a poco. Queste strategie compaiono in alcune forme simboliche: c’è ad esempio la forma simbolica della obesità, eccedenze fastidiose, ripetizione inutile di proposte, sovraccarichi di retorica o di funzionalità ecclesiale, oppure una ricerca esasperata di iniziative pastorali non qualificate, assemblee anonime non significative, celebrazioni ridondanti, discussioni vane, schemi pastorali obsoleti. In questo contesto l’amare di più significa trovare una nuova «qualità spirituale».

Un’altra strategia che conduce alla morte si assume nella forma simbolica dell’ostaggio: l’ostaggio rappresenta la situazione di chi pur essendo fisicamente vivo, in quanto esercizio della sua libertà vitale è praticamente morto. Il futuro non è più nelle proprie mani, si vive ma sotto minaccia di morte. Chi è in ostaggio non dirige più la sua vita. È una strana situazione di prigionia: una prigionia dell’epoca e degli eventi, la prigionia di una lentezza di evoluzioni, di pazienze troppo imposte, una gestione obbligata di ciò che è destinato a finire. Amare di più qui significa cercare di costruire relazioni più vive e più leggere, superare incrostazioni fatti di abitudini autoreferenziali; significa suscitare comunità più sciolte e meno rigide, significa assumere seriamente i tempi psichici della gente più che non i calendari del passato.

Una terza strategia fatale che esige un sovrappiù dell’amore è l’essere strappati da ogni contesto: la scena abituale dentro la quale si era abituati a passare la vita non esiste più. Il teatro delle proprie imprese è stato smantellato; le coordinate vitali si sono confuse. Ci si sente spaesati, non si riconoscono i posti, le strade, i luoghi umani di incontro. Troppo spesso un particolare è confuso con ciò che è essenziale e l’essenziale viene smarrito. Ti si trasforma la scena sotto gli occhi. Tutto diventa sproporzionato ed eccessivo. Tutto diventa osceno: infatti l’oscenità è l’esasperazione di un particolare che perde il suo universo simbolico. Qui un sovrappiù dell’amore assume le caratteristiche di una costante attenzione a ricucire contesti nuovi, proporzioni credibili, orizzonti pratici carichi di respiro e di trascendenza. Un nuova percezione di Dio, creatore del mondo e signore della storia.


Il sovrappiù dell’amore
Mi ami tu più di costoro?Il sovrappiù dell’amore lo abbiamo cercato nell’indagine e nella scoperta di una forte esperienza di fede che cerca il suo nuovo assenso all’interno della cultura contemporanea, la quale impone una nuova ricerca di Dio e un nuovo assetto della realtà ecclesiale. Si possono già intravedere nella vicenda personale di tanta gente e in alcune espressioni delle nostre comunità che questo sovrappiù dell’amore è già cominciato. Il segreto della fede non è smarrito sulla terra, ma la fede va coltivata dedicando a questa cura tempo, intelligenza, affetto, relazione ecclesiale, concretezza di lavoro e una buona interpretazione della storia. Come ha detto il profeta bisognerà tornare a volare alto.
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