LA MACINA E LA CETRA
Abita la terra e vivi con fede (Salmo
37)
Antonio Gentili
L’introduzione di don Mirko Bellora
Perché padre Antonio Gentili. Perché di lui hanno
scritto:
Antonio Gentili, religioso barnabita, risiede e
opera nella Casa per ritiri spirituali di Eupilio (Co). Autore di
spiritualità tra i più noti, ha pubblicato numerose
opere. Esperto e docente di tecniche di meditazione cristiana, ha
guidato ritiri e corsi di meditazione e preghiera profonda in
tutta Italia. Ha scritto numerosi e fortunati saggi di
divulgazione religiosa.
Perché l’ho incontrato oltre vent’anni fa ad
Eupilio e non l’ho più dimenticato: troppo piccolo
per essere dimenticato, troppo grande a livello spirituale per
dimenticarlo.
L’anno scorso l’ho rivisto e ho pensato a
voi….ed eccolo qui.
*****
Un esercizio di preghiera
Il nostro non sarà un “parlare” sulla
preghiera ma un “esercizio di preghiera”.
Perché più che un’esposizione di concetti
conta l’esperienza della preghiera interiore.
Ogni azione umana è sempre una risposta
all’iniziativa divina, di quel Dio che ci ha creato,
dotandoci di intelligenza, volontà, sensibilità, e
che ci attrae incessantemente a sé attraverso richiami
interiori o esterni che siano. Quando dunque ci mettiamo a
pregare, è perché obbediamo a un impulso che ha in
Dio la sua remota sorgente. Sta a noi assecondarlo e questo
implica anzitutto un’adeguata preparazione.
Dall’esistere all’essere
Nell’esercizio che ci trova qui riuniti questa sera
cercheremo di vivere il passaggio dall’esistere
all’essere. Fino a qualche minuto fa era l’esistere a
caratterizzarci: il lavoro, i rapporti familiari,
l’interesse per gli avvenimenti mondiali, le ultime
notizie... Tutto questo sotto la voce dell’e-sistere che,
come ci spiega qualunque buon dizionario, significa starsene
fuori, proiettarsi all’esterno, ricercare contatti,
informarsi sugli eventi, operare sulle realtà della
vita.
In questo momento siamo chiamati a vivere uno spostamento
radicale di accento, polarizzandoci sull’essere, ossia
familiarizzandoci con quelle profondità dove la preghiera
ha la sua sede originaria, il suo vero approdo.
Situare l’esercizio di preghiera nelle ore conclusive della
giornata può risultarci illuminante perché un
simile passaggio - dall’esistere all’essere - ci
attende: il sonno altro non è che staccare la presa da
tutto ciò che ci proietta all’esterno e operare un
vero e proprio rientro in noi stessi. Le facoltà mentali
si azzerano, i sensi riducono al minimo la loro attività,
le orecchie restano pervie ai rumori anche se l’ascolto
viene notevolmente ridotto. Teniamo presente questo richiamo al
sonno perché la preghiera, quanto più penetra nelle
profondità, tanto più si avvicina
all’esperienza del sonno. Ma poiché noi desideriamo
compiere una esperienza che ci ponga sia in contatto con le
nostre profondità, sia in contatto con il Signore, abbiamo
bisogno di essere ben desti, abbiamo bisogno di trovarci in uno
stato di veglia che però concili il riposo. Devono essere
favorite la quiete, la tranquillità, la distensione
perché la preghiera interiore difficilmente si sviluppa in
uno stato agitato.
Personalizzare il segno di croce
Teniamo dinanzi ai nostri occhi l’immagine della cetra,
un’immagine molto eloquente. È stato detto che prima
di pregare noi dobbiamo procedere ad una vera e propria
accordatura di quello strumento musicale che noi stessi siamo.
Tre sono le corde che prenderemo adesso in considerazione: il
corpo, il cuore, la mente e, per associare questo richiamo a un
gesto che ci è assolutamente familiare, insieme compiremo
e personalizzeremo il segno di croce.
È il gesto che introduce la preghiera cristiana. Partiremo
dal suo aspetto più “esteriore” poi coglieremo
gli aspetti ulteriori, legati all’invocazione del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo. In primo piano metteremo il
movimento che stiamo per compiere e che porterà la nostra
mano a posarsi sulla nostra fronte, sul petto e sulle spalle.
Quando posiamo la mano sulla fronte, sul petto e sulle spalle
intendiamo fare riferimento alla mente, al cuore e al corpo, che
consideriamo le tre corde di uno strumento musicale che ha
bisogno di essere accordato.
Raccogliamoci un istante: vogliamo eliminare dal segno di croce
questa sera tutto ciò che può sapere di
automatismo, di pura abitudinarietà, attribuendogli il
carattere iniziale di gesto di accordatura della famosa
cetra.
Iniziamo dunque: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo.
Il valore dei gesti della preghiera è così
importante che la tradizione dei Padri del deserto testimonia
come gli antichi monaci ripetevano più e più volte
gli stessi gesti, affinché essi imprimessero nella persona
il loro messaggio. Ripetiamo allora questo gesto mentalmente: non
è necessario che ciò avvenga anche
materialmente.
Mentre lo ripetiamo passeremo in rassegna, con una certa calma,
ciascuna delle tre corde.
Il corpo
Prendiamo le mosse dal corpo, perché è sempre dal
corpo che l’uomo parte nelle sue esperienze. Di quale corpo
dobbiamo disporre quando ci dedichiamo alla preghiera interiore?
Se si trattasse di preghiera liturgica, sappiamo benissimo che
essa si esprime nell’azione e quindi il corpo, via via, si
esprimerà secondo modalità diverse: seduti, in
piedi, in ginocchio, si leveranno le mani, si apriranno le nostre
bocche nel canto e così via. La preghiera interiore,
invece, comporta la quiete.
Portiamo lo sguardo all’interno del corpo, così da
percepirlo stabile e rilassato e, nel contempo, desto e vigile.
Possiamo chiudere o socchiudere gli occhi, almeno per qualche
istante, perché questo ci consente di percepire il nostro
corpo dall’interno, registrandone il messaggio. Per
garantirci, per quanto è possibile, una quiete totale
possiamo collegarci con l’espiro, senza forzarlo né
alterarlo, semplicemente seguendone il flusso: verificheremo con
immediatezza che l’espiro ci offre una gradevole sensazione
di quiete, di rilassamento, come un oggetto che perde
consistenza. Così, al passaggio dell’espiro, le
nostre membra si distendono, perdendo ogni traccia di agitazione,
di tensione, di rigidità. Ci sono alcuni luoghi dove tutto
questo può essere notato in maniera più immediata.
Gli occhi, ad esempio: le palpebre sono chiuse e possiamo
avvertire il peso dei bulbi oculari che si sprofonda nelle
orbite. E questo, oltretutto, ci offre una sensazione piacevole,
come di un colpo di sonno. Lo stesso potremo dire ad esempio
delle spalle: lasciamo che il peso delle braccia le trascini
verso il basso, sgravandole da tutti i pesi che vi si accumulano.
Nello stesso tempo accertiamoci che la schiena sia eretta, senza
sforzo, così da lasciar fluire le energie vitali lungo la
colonna.
Poniamoci ora la domanda: con quale corpo io giungo questa
stasera all’appuntamento di orazione? Stanco, teso,
agitato?
Questa prima fase, che fissa il corpo nella quiete, spiana le
successive accordature.
Il cuore
L’esperienza ci dice che la quiete del corpo predispone,
spiana la via a quella del cuore, intendendo per cuore
l’insieme degli stati d’animo, delle emozioni, dei
sentimenti, degli affetti, dei desideri. Lasciamo che si
dileguino ansia, timore, tristezza, abbattimento, ma anche
rancori, risentimenti, attaccamenti che ostacolerebbero la
preghiera.
Con quale stato d’animo sono giunto all’appuntamento
di preghiera?
Se dovessimo registrare stati d’animo alterati, ricordiamo
l’invito ripetuto nelle pagine bibliche: “Getta nel Signore il tuo affanno ed egli ti
sorreggerà”. Ricordiamo l’invito del
salmista a consegnare i nostri affanni al Signore, così da
conseguire un cuore gioioso, pacificato e amoroso.
Il Vangelo ci dà un’altra regola: quando vi mettete
a pregare, perdonate. Come a dire che se nel nostro cuore ci
fossero risentimenti, rancori, la preghiera ne verrebbe
ostacolata. Lasciamo allora che risuoni in noi il canto iniziale
di questa sera: “Nada te turbe, nada te
espante”, non ci turbi nulla, non ci inquieti
nulla.
La mente
E infine approdiamo alla mente. La terza corda della nostra cetra
che intendiamo accordare è la mente, che già ha
beneficiato dell’esercizio condotto sinora e della quale
possiamo registrare lo stato di ricettività e di
raccoglimento. Siamo favoriti perché a questo punto,
essendo già passati alcuni minuti, siamo in grado di
prendere coscienza dello stato della nostra mente: se ci risulta
raccolta, serena o se sullo schermo della nostra mente sono
affiorati dei pensieri. Quali? Pensieri che denunciano la
volubilità della nostra mente, oppure pensieri che
denunciano la presenza di ossessioni, di richiami troppo
insistenti che ci fanno capire come il vero ostacolo alla nostra
orazione è che la nostra attenzione fatica a polarizzarsi
su Dio ed è risucchiata sul nostro “io”.
L’abbraccio trinitario
Stiamo procedendo al rallentatore perché desideriamo
gustare i vari passaggi e renderceli ancora più familiari.
Considerando raggiunta l’accordatura, ripetiamo mentalmente
il segno di croce, polarizzando l’attenzione sui nomi
divini, perché la preghiera ha lo specifico obiettivo di
immergerci nel mondo di Dio.
In questo caso la preghiera ci consegna all’abbraccio
trinitario, per cui ci fermeremo qualche minuto in silenzio
ripetendo i nomi divini. Immaginiamo di avere una corona del
Rosario: invece dell’Ave Maria, per dieci volte ripeteremo
Padre, Figlio e Spirito, Amen. Con le labbra, a fior di labbra,
assicurandoci che queste parole si imprimano nella mente,
diventino il pensiero dominante. Non che si debba ragionare su
queste parole, ma semplicemente lasciare che dominino nel mondo
dei nostri pensieri e coglierne la risonanza interiore. Quale
risonanza suscita in me adesso rivolgermi al Padre, al Figlio,
allo Spirito? E che risonanza ha l’Amen? Cosa esprime di me
l’Amen?
Possiamo ripetere un’altra volta i nomi divini, per
coglierne la risonanza interiore, l’impatto che stanno
avendo in noi, pensando che l’umanità ha atteso
millenni e millenni, prima di venire a capo dei nomi divini. Noi
abbiamo la gioia di esserne a conoscenza, per cui Dio è
colui al quale possiamo dare del tu.
Siamo, grosso modo, a metà del nostro percorso.
Approderemo a uno stato di attenzione
cosciente e di devozione amorosa,
rendendoci “presenti al Presente nel presente”.
Presenza che può essere facilitata se ci si trovasse in
chiesa, ma che siamo chiamati a cogliere ovunque e che in ogni
caso ci viene assicurata pronunciando i Nomi divini, che
istintivamente abbiamo già associato al segno di croce:
Padre, Figlio,
Spirito santo. Ad essi faremo seguire
l’Amen. Far risuonare i Nomi divini
(con la triplice attivazione di labbra, mente e cuore) significa
accoglierne l’azione in noi, in modo da entrare nella
dinamica trinitaria e lasciarcene coinvolgere con piena adesione.
È il senso dell’Amen.
Per rendere ancora più personalizzata e
coinvolgente la nostra preghiera ci converrà formulare una
invocazione. Ognuno si lasci condurre dalla propria
sensibilità a formulare una invocazione
all’indirizzo del Padre, o del Figlio, o dello Spirito, o a
tutti e tre i nostri amici celesti, una invocazione con il
preciso scopo di chiedere il dono della preghiera, il dono che
desideriamo ricevere adesso, visto che lo scopo che ci trova qui
riuniti è pregare.
Oltre a ripetere le quattro suddette parole chiave, ritmandole
opportunamente sul respiro, possiamo formulare una preghiera
rivolta alle Persone divine, e in particolare allo Spirito
santo.
Poiché il nostro è anche un esercizio,
formulerò una invocazione allo Spirito Santo che è
molto in voga nella pratica della preghiera. Ci rivolgiamo allo
Spirito Santo, poiché è lui il maestro della
orazione interiore, come ci ricorda il Catechismo della Chiesa
cattolica, è lui che prega in noi con sospiri
d’amore. Ciascuno ripeta interiormente le parole che ora
ascolterà: “Vieni, Spirito Santo,
potenza divina d’amore, visita il mio povero cuore,
purificalo, santificalo, fallo tutto tuo. Vieni Spirito Santo,
amore del Padre e del Figlio, anima dell’anima mia. Vieni:
io ti adoro”.
Sta in silenzio davanti a Dio e spera in lui: è Lui che
agisce
La nostra preghiera interiore potrebbe anche fermarsi qui, nella
ripetizione dei nomi divini, nell’invocazione
dell’uno, dell’altro, dell’altro ancora, delle
tre divine persone, i nostri celesti amici, nella ripetizione
dell’Amen così che tutti i no che si accumulano
facilmente nel cuore vengano bruciati dal sì
dell’amore. Ma possiamo aggiungere una successiva tappa: si
è finalmente spianata la via all’ascolto che
può attingere alla parola divina o alle voci interne ed
esterne che ci parlano di Dio nell’oggi dell’uomo e
del mondo. La preghiera comporta di essere nutrita, alimentata
dalla Parola divina, Parola che innanzi tutto risuona nelle
profondità del cuore, Parola che incontriamo nelle
Scritture, Parola che viene a noi attraverso gli eventi della
storia, o la testimonianza dei santi o degli uomini
spirituali.
La Parola, che sceglieremo questa sera per il nostro incontro,
è finalizzata a renderci ancor più familiare
l’esercizio dell’orazione interiore, della
meditazione che dir si voglia.
La riprendiamo dai salmi che ci offrono non poche regole di
preghiera, se sappiamo coglierle all’interno della loro
trama. “Sta in silenzio davanti a Dio e
spera in lui: è lui che agisce”: troviamo
questa citazione nei salmi 36 e 38 o 37 e 39. Perché
privilegiamo questa parola divina? Perché è
normativa in ordine alla preghiera interiore. Come a dire che chi
di noi desidera coltivare la preghiera interiore, qui trova come
può esercitarla e quali sono le scansioni essenziali
attraverso cui può entrare nell’orazione
interiore.
Sta
La preghiera interiore prende le mosse dalla
“statio”, ossia dalla stabilità di corpo e di
mente e dalla tranquillità d’animo. Alla
“statio”, inizio della “lectio divina”,
seguiranno lectio, meditatio, oratio, contemplatio.
Il momento preliminare lo abbiamo già vissuto, già
messo a fuoco: non ci resta che prendere atto di come persevera
nei suoi buoni effetti. Rivolgiamo quindi l’attenzione al
nostro corpo, cuore, mente, per appurare in quale misura le tre
corde abbiano raggiunto la loro stabilità, la loro quiete.
È probabile che cammin facendo riemergano le inquietudini
che sottraggono slancio alla preghiera, inquietudini talmente
somatizzate che è ben difficile che scompaiano
d’incanto.
In silenzio
Poiché la mente fatica a tacere, poiché la nostra
preghiera è un dialogo, un entrare in vera comunione con
il Signore, risulta quanto mai opportuna la ripetizione di un
nome o di una formula divina, eventualmente scandita sul ritmo
respiratorio, avvertito come costante richiamo allo Spirito che
il Signore dona alle sue creature. Come abbiamo fatto noi quando
ci siamo immersi nel silenzio sorreggendolo con
l’invocazione dei nomi divini. A questo punto ci vogliamo
domandare se il silenzio è stato disturbato, se sono
emersi pensieri estranei, se con il corpo siamo nel luogo
dell’orazione ma il cuore e la mente siano rimasti fuori.
Ci accorgeremo che il silenzio è del tutto impossibile. Il
Catechismo della Chiesa cattolica
definisce il silenzio «amoroso» e sostiene che
è impossibile all’uomo esteriore, ma costituisce la
via di accesso al mistero trinitario.
Davanti a Dio
Anche quest’aspetto può dirsi acquisito, ma vale la
pena ricordare, sempre sulla scorta del Catechismo della Chiesa cattolica, che
l’attenzione a Dio è rinuncia all’io, nel
senso che siamo costantemente risucchiati nel nostro mondo di
pensieri, immagini, sentimenti, al punto da faticare nel
trasferire mente e cuore inDio.
Potremmo riassumere lo stare davanti a Dio in uno slogan:
“presenti al Presente, nel presente”. Della presenza
Dio ci offre più di un segno: se siamo in Chiesa basta
pensare all’Eucaristia, che è il santo segno che
Gesù ci ha donato del suo corpo, cioè della sua
persona. Forse non è male che ci colleghiamo con questa
presenza, anche se ci si trova in un teatro come questa sera. In
ogni caso, Dio dimora nel cuore per diritto nativo, dimora nel
cuore di tutte le creature, senz’altro dimora nel nostro
cuore perché lo abbiamo ricevuto. Possiamo pensare
all’ultima Comunione che abbiamo fatto. Davanti a Dio:
tutto il segreto della preghiera consiste nel metterci alla
presenza del Signore. Nell’Imitazione di Cristo si legge:
“Dio è dappertutto, ma tu quando
preghi dove sei?”. Paolo VI diceva che, spesso, la
preghiera è un appuntamento fra due assenti: Dio e il
cuore.
Spera in lui: è Lui che agisce
Significa che nella preghiera il protagonista, in ultima istanza,
è Dio. A noi è chiesto un “abbandono
attivo” nelle mani divine che ci hanno creato e ci
riplasmano nella misura in cui ci concediamo alla loro azione.
È questo il senso dell’Amen!
La preghiera comporta che noi ci si consegni fiduciosi
all’azione di Dio, all’azione che Dio dispiega in noi
quando preghiamo. Questo è un vero capovolgimento. Di
solito si pensa che la preghiera comporti un atteggiamento
attivo, nel senso dell’attività che dispieghiamo
lungo la giornata. La preghiera invece comporta che ci si
consegni all’azione di Dio, in uno stato di
ricettività: è come se noi ci chiedessimo che cosa
vorrà mai operare il Signore questa sera in me. In questo
spazio che egli mi dona, che cosa mai opererà?
Silenzio, rinuncia all’io, abbandono
Quando siamo approdati a questo stadio, ci rendiamo conto che
nella preghiera si esprime alla perfezione l’autentico
spirito religioso, che appunto comporta silenzio, rinuncia
all’io (“annichilimento”) e abbandono. Sono tre disposizioni d’animo che
possiamo contemplare in Maria.
L’abbandono che noi compiamo nella preghiera implica
attenzione e devozione. Attenzione significa che rimaniamo
costantemente esposti all’azione divina, che ci consegniamo
consapevolmente all’azione divina e la devozione esprime lo
slancio dell’amore.
Anche qui il Catechismo della Chiesa Cattolica ha un insegnamento
prezioso per noi, quando dice che “questa
attenzione a Dio è rinuncia all’io”.
Poiché questa attenzione è senza dubbio superiore
alle nostre forze, noi la possiamo sorreggere ripetendo i nomi
divini, o una invocazione che ci può risultare gradita,
tipo “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi”. Qui si
innesta tutta la tradizione della così detta “preghiera del cuore”, cioè una
preghiera che si avvale di una espressione molto semplice,
destinata a tenere desta l’attenzione e a suscitare
devozione: siamo invitati a ripetere una espressione che possiamo
riprendere dalla liturgia, dalla lectio divina, dalla nostra
particolare devozione interiore, come meglio crediamo.
A questo punto vi suggerirei di ripetere le parole che abbiamo
cantato all’inizio - “Nulla ti turbi, nulla ti
spaventi, solo Dio basta” - con una tale intensità
da abbracciare il mondo intero in questo tornante della sua
storia, suscitatore di paura, di giustificati timori, di
ragionevoli preoccupazioni, dato che quando uno prega entra in
comunione con l’umanità intera. La preghiera non
conosce barriere, non conosce confini. Immaginiamo che,
attraverso noi, tutta l’umanità ripeta: “Nulla
ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta!” Ripetiamo un
po’ di volte queste parole molto sottovoce, lasciando
risuonare anche le note del canto, come abbiamo fatto
all’inizio. Lasciamo che continui a risuonare nelle nostre
orecchie questa melodia e, a conclusione del nostro esercizio,
rendiamoci innanzi tutto ancor più consapevoli che, quando
qualcuno prega, tutto il mondo prega. Noi ci consideriamo come
cellule viventi di un grande organismo: più le cellule
risultano sane, maggior sanità potrà essere
registrata dall’intero corpo dell’umanità. Noi
intendiamo far dono della preghiera che abbiamo compiuto questa
sera, perché l’umanità tutta ne tragga
vantaggio. “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio
basta!”: come a dire che è solo in Lui che riponiamo
i nostri destini.
- Silenzio - Abbracciando in uno sguardo
di insieme l’esercizio che abbiamo compiuto, vorrei
sottolineare come esso mette in luce l’abc della
religiosità vera. E l’abc della religiosità
vera comporta il silenzio, il silenzio “amoroso” che
ci immerge nell’abbraccio trinitario. Nei confronti di un
Dio che parla, il compito dell’uomo è ascoltare:
“Ascolterò che cosa dice il Signore”. Il Padre
ci “dice” il proprio Verbo e ci permea con il suo
Spirito.
- Rinuncia all’io - Il secondo
aspetto di una religiosità autentica è la rinuncia
all’io, nella misura in cui fa da schermo a Dio.
L’attenzione a Dio è rinuncia all’io. Quando
si è veramente in preghiera, non si diventa Dio, ma
l’annichilimento consente al nostro io di rendersi
trasparenti al divino che ha preso dimora in noi: siamo
assorti/assorbiti in Dio. Questa rinuncia all’io può
essere paragonabile al cristallo che, di sua natura, è
finalizzato a rendersi perfettamente trasparente alla luce.
- Abbandono - La terza attitudine
radicalmente religiosa è l’abbandono, un abbandono
“attivo”: consegnarsi in quelle mani divine che ci
hanno creato e che nei momenti magici dell’orazione ci
riplasmano, ci restaurano, ci restituiscono a vita nuova.
Perché questi tre aspetti ci rimangano ancor meglio
impressi, li possiamo vedere raffigurati nella Vergine Maria,
perfetta orante.
Il silenzio. Lei è per definizione la creatura che ha
prestato l’ascolto più totale e anche più
fattivo alla Parola.
La rinuncia. Lei è una creatura totalmente consacrata ai
disegni divini: ha guardato all’umiltà della sua
serva, alla nullità della sua serva.
L’abbandono. Lei è la creatura dell’abbandono
gioioso, festoso: avvenga di me ciò che tu hai detto.
Adesso la preghiera si traduce in dialogo orante e può
articolarsi secondo le più svariate modalità, dalla
supplica all’offerta, dall’intercessione alla lode, e
soprattutto nel rendimento di grazie che ne costituisce il
culmine.
Inoltre l’orazione suscita una vera e propria dilatazione
dell’anima, al punto da abbracciare l’umanità
intera e porre le premesse di quella comunione nell’amore
che attende la controprova nella vita di ogni giorno.
Decalogo sulla preghiera (interiore)
1. Prepararsi alla preghiera "accordando" lo "strumento dalle tre
corde": corpo, cuore, mente. L'accordatura può essere
compiuta tracciando con consapevolezza il segno di croce.
È indispensabile un corpo quieto; un cuore impregnato di
amore, purificato e riconciliato; una mente raccolta e
vigile.
2. Porsi in uno stato di "attenzione cosciente" e di "devozione
amorosa" dinanzi al Signore: presenti al Presente nel presente.
Far risuonare in noi i Nomi divini del Padre, Figlio e Spirito
santo, pronunciati tracciando il segno di croce, così da
entrare nella "dinamica" trinitaria. Invocare la grazia dello
"Spirito che prega in noi".
3. Sviluppare l'ascolto, attingendo alla parola divina e/o alle
voci interiori o esteriori che ci parlano di Dio nella vita
dell'uomo e del mondo. In questa fase la preghiera è
attenta ai tempi liturgici e alle emergenze della storia
personale e sociale.
4. Passare alla personalizzazione, calando la "parola" del
proprio vissuto, dal momento che la preghiera è la via di
accesso all'interiorità, ci rivela a noi stessi e ridesta
in noi l'energia divina (Gc 5,16).
5. È giunto il momento del "ritorno a Dio della parola di
Dio", il momento del dialogo che si esprime nella supplica,
nell'offerta, nell'intercessione, nella lode e soprattutto nel
rendimento di grazie, momento culminante della preghiera.
6. A questo punto l'orante entra in sintonia con l'umanità
intera, poiché quando uno prega tutto il mondo prega e si
trasforma.
7. La preghiera si apre alle sue espressioni culminanti, in cui
si manifesta l'autentico spirito religioso: silenzio,
annichilimento, abbandono. Con ciò si raggiunge la
contemplazione e l'unione mistica. Questa triplice attitudine
può essere contemplata in Maria.
8. Il "silenzio amoroso" ci immerge
nell'abbraccio trinitario. Il Padre ci "dice" il proprio Verbo e
ci permea con il suo Spirito.
9. L'annichilimento consente al nostro
"io" di rendersi trasparente al divino che vi ha preso dimora:
l'orante è "assorto/assorbito" in Dio.
10. L'abbandono "attivo" ci consegna alle
"mani divine" che incessantemente riplasmano le creature
umane.
Dal dibattito
Preghiera liturgica e preghiera personale
Mi rifarei al Sinodo della Diocesi di Milano che dedica pagine
molto penetranti sul rapporto tra preghiera liturgica e preghiera
personale. Hanno un loro statuto e una loro piena
legittimità. Sono due modalità sostanzialmente
diverse, perché la preghiera liturgica è azione,
implica la comunità, si manifesta nell’ascolto e
nella parola e così via. La preghiera interiore segue ben
altro registro: è una preghiera che si svolge
nell’intimità del cuore. Può essere compiuta
anche stando insieme, ma la regola base della preghiera interiore
è, fondamentalmente, il silenzio, che si sorregge di
invocazioni molto semplici o di una riflessione compiuta
mentalmente, o di una orazione che viene formulata a partire dal
cuore. L’una feconda l’altra. Sarebbe come dire che
il giorno e la notte sono due esperienze polari nella vita umana:
l’una suppone l’altra, l’una si integra con
l’altra, pure nella loro assoluta diversità.
È altrettanto vero che la preghiera liturgica per
sé comporta dei momenti meditativi, non eccessivamente
prolungati perché si creerebbe un notevole disagio. La
liturgia prevede il sacro silenzio e questo “sacro”
la dice lunga. Sarà all’inizio quando si tratta di
chiedere perdono, sarà alla comunione quando si tratta di
ringraziare il Signore: dovremmo valorizzare i momenti di sacro
silenzio all’interno della preghiera liturgica, ma questo
è possibile se si è già educati a vivere la
preghiera interiore, che è fondamentalmente una orazione
silenziosa. Solo allora si riuscirà a inserire anche dei
momenti di silenzio nella trama della liturgia.
L’orazione è come la nostra persona che cammina con
due gambe: una è la liturgia, la preghiera
fondamentalmente attiva nell’ascolto, nella celebrazione,
nel gesto, nel rito, nel simbolo, nel canto e un’altra
è la preghiera interiore.
Le nostre parrocchie sono ottime agenzie di preghiera liturgica,
oserei avere qualche dubbio che siano tutte e sempre analogamente
ottime nel proporre la preghiera meditativa. Occorrerebbe che
fossero presenti anche proposte simili a quella di questa sera,
non fosse che a titolo di educazione alla preghiera. Poi
ciascuno, una volta appresa l’arte, troverà il tempo
opportuno per esercitarla.
Il cristiano non può pensare di essere in regola con la
preghiera solo perché partecipa, nella maniera migliore
s’intende, alla Messa domenicale. Sono indispensabili spazi
di preghiera personale: la meditazione, la lectio divina. La
lectio divina include la meditazione: non è pura e
semplice lettura della Parola con la riflessione che
l’accompagna, è anche interiorizzazione, è
anche silenzioso amore. Il catechismo della Chiesa cattolica,
quando parla della preghiera, approda alla cosiddetta
contemplazione che è il silenzioso amore: stare in
silenzio davanti a Dio.
Preghiera e corpo
La preghiera ebraica è fondamentalmente legata alla
risonanza della Parola divina e, poiché nella Bibbia si
dice che tutto ciò che io sono entra in vibrazione, quando
un ebreo prega, accompagna l’orazione con i movimenti del
corpo (avrete sicuramente visto gli ebrei in preghiera al Muro
del pianto). Una sorta di esperienza come quella dei dervisci
danzanti: tutta la persona è coinvolta. D’altra
parte la tradizione ebraica conosce la preghiera meditativa,
quella che abbiamo fatto noi questa sera. Nel Talmud si legge che
quando uno pratica la preghiera interiore deve applicare la
cosiddetta Kavanà, che è
l’attenzione, una attenzione che si tiene desta con
espressioni molto semplici ripetute in maniera cantilenante. Il
canto a canone che abbiamo fatto all’inizio dimostra come
questa sia una tradizione perenne che viene costantemente
ripresa, perché è molto più facile che la
mente venga, per così dire, assorbita, rapita da
espressioni semplici, ripetute, lasciate risuonare nel cuore. Il
rischio davanti a un insieme di testi è invece quello di
favorire l’applicazione della mente, ma non il risveglio
del cuore. Più io attivo la mente nel pregare, meno
risveglio il cuore, più la mente è fissata su
espressioni molto semplici, più si dà spazio alla
risonanza interiore, al risveglio del cuore, delle emozioni,
dell’affetto, del sentimento, dell’amore. La
preghiera, in ultima analisi, porta a questo.
L’educazione al silenzio
Credo che al silenzio ci si debba educare. Mi ha sempre
impressionato quanto si legge nelle Costituzioni del mio
fondatore, Sant’Antonio Maria Zaccaria, le cui spoglie
mortali sono custodite nella Chiesa di San Barnaba, nelle regole
per i novizi: “Insegni loro il
silenzio”. Il silenzio va insegnato, come si insegna
a leggere e a scrivere. Occorre insegnare a tacere, a tacere in
un contesto orante, perché se è solo per tacere si
può mettere la mano alla bocca. Si tratta invece di
acquisire quella capacità di silenzio che aiuta a
praticare l’interiorità, ad accogliere la risonanza
della Parola, a percepire la nostra persona. Vi dicevo prima: con
che corpo vengo alla preghiera, con che cuore, con che mente?
Questa è tutta una educazione. Quando l’insieme dei
nostri parrocchiani avrà gustato il silenzio e lo
avrà appreso, allora sarà molto più facile
che anche nelle nostre chiese ci sia il silenzio. Perché
S. Paolo dice che le donne devono tacere in Chiesa? Perché
nelle sinagoghe era proverbiale, era imperante il
chiacchiericcio!
La duplice estasi: davanti a Dio e al
fratello
L’uomo soffre dello squilibrio derivante dal non
frequentare la propria interiorità, la propria anima. Le
proposte allettanti di alcuni movimenti religiosi ci
interpellano: come mai la nostra “agenzia
ecclesiastica” non riesce ad offrire proposte di
interiorità analoghe, parallele a quelle che vengono
offerte da altre religioni? È chiaro che il cristianesimo,
rispetto ai nuovi movimenti religiosi, è molto più
impegnativo, perché pone il rientro in se stessi come un
momento di passaggio per aprirci a Dio e agli altri. La duplice
estasi, come diceva bene san Francesco di Sales: l’estasi
è duplice, perché io non posso trovarmi in estasi
davanti a Dio, se non mi trovo in estasi davanti al fratello.
Estasi vuol dire uscire da se stessi, perché unico
è l’amore. Se ha per oggetto Dio, lo chiameremo
amore divino e se ha per oggetto il fratello lo chiameremo amore
del prossimo. La preghiera fa del rientro in se stessi la
premessa per l’apertura agli altri: per questo il cammino
cristiano è più impegnativo, non si ferma a
metà strada. In ogni caso siamo interpellati,
perché questa grande “agenzia” che è la
Chiesa, è l’unica agenzia che settimanalmente nei
nostri paesi può rivolgersi direttamente, non tramite la
televisione o la radio, a un quarto della popolazione: dovremmo
aiutare queste persone a conoscere e a seguire dei cammini di
interiorità, a rintracciare la propria anima.
Ricordo un episodio molto bello che ho letto su una rivista
scientifica: in una spedizione archeologica in America latina gli
organizzatori occidentali angariarono il personale del luogo per
portare strumentazioni là dove dovevano svolgere le loro
ricerche e costoro, dopo una settimana di marce più o meno
forzate fecero un ammutinamento, rifiutandosi di continuare a
camminare. Non vollero dare immediatamente spiegazioni agli
organizzatori che cercavano in ogni modo di stimolarli a
riprendere il cammino. Solo dopo alcuni giorni di sit-in il loro
rappresentante disse agli organizzatori: “Correvamo troppo,
abbiamo dovuto aspettare che le nostre anime ci
raggiungessero”.

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