LA MACINA E LA CETRA
Abita la terra e vivi con fede (Salmo 37)

Antonio Gentili

L’introduzione di don Mirko Bellora

Perché padre Antonio Gentili. Perché di lui hanno scritto:

Antonio Gentili, religioso barnabita, risiede e opera nella Casa per ritiri spirituali di Eupilio (Co). Autore di spiritualità tra i più noti, ha pubblicato numerose opere. Esperto e docente di tecniche di meditazione cristiana, ha guidato ritiri e corsi di meditazione e preghiera profonda in tutta Italia. Ha scritto numerosi e fortunati saggi di divulgazione religiosa.

Perché l’ho incontrato oltre vent’anni fa ad Eupilio e non l’ho più dimenticato: troppo piccolo per essere dimenticato, troppo grande a livello spirituale per dimenticarlo.
L’anno scorso l’ho rivisto e ho pensato a voi….ed eccolo qui.

*****

Un esercizio di preghiera

Il nostro non sarà un “parlare” sulla preghiera ma un “esercizio di preghiera”. Perché più che un’esposizione di concetti conta l’esperienza della preghiera interiore.
Ogni azione umana è sempre una risposta all’iniziativa divina, di quel Dio che ci ha creato, dotandoci di intelligenza, volontà, sensibilità, e che ci attrae incessantemente a sé attraverso richiami interiori o esterni che siano. Quando dunque ci mettiamo a pregare, è perché obbediamo a un impulso che ha in Dio la sua remota sorgente. Sta a noi assecondarlo e questo implica anzitutto un’adeguata preparazione.

Dall’esistere all’essere

Nell’esercizio che ci trova qui riuniti questa sera cercheremo di vivere il passaggio dall’esistere all’essere. Fino a qualche minuto fa era l’esistere a caratterizzarci: il lavoro, i rapporti familiari, l’interesse per gli avvenimenti mondiali, le ultime notizie... Tutto questo sotto la voce dell’e-sistere che, come ci spiega qualunque buon dizionario, significa starsene fuori, proiettarsi all’esterno, ricercare contatti, informarsi sugli eventi, operare sulle realtà della vita.
In questo momento siamo chiamati a vivere uno spostamento radicale di accento, polarizzandoci sull’essere, ossia familiarizzandoci con quelle profondità dove la preghiera ha la sua sede originaria, il suo vero approdo.
Situare l’esercizio di preghiera nelle ore conclusive della giornata può risultarci illuminante perché un simile passaggio - dall’esistere all’essere - ci attende: il sonno altro non è che staccare la presa da tutto ciò che ci proietta all’esterno e operare un vero e proprio rientro in noi stessi. Le facoltà mentali si azzerano, i sensi riducono al minimo la loro attività, le orecchie restano pervie ai rumori anche se l’ascolto viene notevolmente ridotto. Teniamo presente questo richiamo al sonno perché la preghiera, quanto più penetra nelle profondità, tanto più si avvicina all’esperienza del sonno. Ma poiché noi desideriamo compiere una esperienza che ci ponga sia in contatto con le nostre profondità, sia in contatto con il Signore, abbiamo bisogno di essere ben desti, abbiamo bisogno di trovarci in uno stato di veglia che però concili il riposo. Devono essere favorite la quiete, la tranquillità, la distensione perché la preghiera interiore difficilmente si sviluppa in uno stato agitato.

Personalizzare il segno di croce

Teniamo dinanzi ai nostri occhi l’immagine della cetra, un’immagine molto eloquente. È stato detto che prima di pregare noi dobbiamo procedere ad una vera e propria accordatura di quello strumento musicale che noi stessi siamo. Tre sono le corde che prenderemo adesso in considerazione: il corpo, il cuore, la mente e, per associare questo richiamo a un gesto che ci è assolutamente familiare, insieme compiremo e personalizzeremo il segno di croce.
È il gesto che introduce la preghiera cristiana. Partiremo dal suo aspetto più “esteriore” poi coglieremo gli aspetti ulteriori, legati all’invocazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In primo piano metteremo il movimento che stiamo per compiere e che porterà la nostra mano a posarsi sulla nostra fronte, sul petto e sulle spalle. Quando posiamo la mano sulla fronte, sul petto e sulle spalle intendiamo fare riferimento alla mente, al cuore e al corpo, che consideriamo le tre corde di uno strumento musicale che ha bisogno di essere accordato.
Raccogliamoci un istante: vogliamo eliminare dal segno di croce questa sera tutto ciò che può sapere di automatismo, di pura abitudinarietà, attribuendogli il carattere iniziale di gesto di accordatura della famosa cetra.

Iniziamo dunque: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Il valore dei gesti della preghiera è così importante che la tradizione dei Padri del deserto testimonia come gli antichi monaci ripetevano più e più volte gli stessi gesti, affinché essi imprimessero nella persona il loro messaggio. Ripetiamo allora questo gesto mentalmente: non è necessario che ciò avvenga anche materialmente.
Mentre lo ripetiamo passeremo in rassegna, con una certa calma, ciascuna delle tre corde.

Il corpo

Prendiamo le mosse dal corpo, perché è sempre dal corpo che l’uomo parte nelle sue esperienze. Di quale corpo dobbiamo disporre quando ci dedichiamo alla preghiera interiore? Se si trattasse di preghiera liturgica, sappiamo benissimo che essa si esprime nell’azione e quindi il corpo, via via, si esprimerà secondo modalità diverse: seduti, in piedi, in ginocchio, si leveranno le mani, si apriranno le nostre bocche nel canto e così via. La preghiera interiore, invece, comporta la quiete.
Portiamo lo sguardo all’interno del corpo, così da percepirlo stabile e rilassato e, nel contempo, desto e vigile. Possiamo chiudere o socchiudere gli occhi, almeno per qualche istante, perché questo ci consente di percepire il nostro corpo dall’interno, registrandone il messaggio. Per garantirci, per quanto è possibile, una quiete totale possiamo collegarci con l’espiro, senza forzarlo né alterarlo, semplicemente seguendone il flusso: verificheremo con immediatezza che l’espiro ci offre una gradevole sensazione di quiete, di rilassamento, come un oggetto che perde consistenza. Così, al passaggio dell’espiro, le nostre membra si distendono, perdendo ogni traccia di agitazione, di tensione, di rigidità. Ci sono alcuni luoghi dove tutto questo può essere notato in maniera più immediata. Gli occhi, ad esempio: le palpebre sono chiuse e possiamo avvertire il peso dei bulbi oculari che si sprofonda nelle orbite. E questo, oltretutto, ci offre una sensazione piacevole, come di un colpo di sonno. Lo stesso potremo dire ad esempio delle spalle: lasciamo che il peso delle braccia le trascini verso il basso, sgravandole da tutti i pesi che vi si accumulano. Nello stesso tempo accertiamoci che la schiena sia eretta, senza sforzo, così da lasciar fluire le energie vitali lungo la colonna.
Poniamoci ora la domanda: con quale corpo io giungo questa stasera all’appuntamento di orazione? Stanco, teso, agitato?
Questa prima fase, che fissa il corpo nella quiete, spiana le successive accordature.

Il cuore

L’esperienza ci dice che la quiete del corpo predispone, spiana la via a quella del cuore, intendendo per cuore l’insieme degli stati d’animo, delle emozioni, dei sentimenti, degli affetti, dei desideri. Lasciamo che si dileguino ansia, timore, tristezza, abbattimento, ma anche rancori, risentimenti, attaccamenti che ostacolerebbero la preghiera.
Con quale stato d’animo sono giunto all’appuntamento di preghiera?
Se dovessimo registrare stati d’animo alterati, ricordiamo l’invito ripetuto nelle pagine bibliche: “Getta nel Signore il tuo affanno ed egli ti sorreggerà”. Ricordiamo l’invito del salmista a consegnare i nostri affanni al Signore, così da conseguire un cuore gioioso, pacificato e amoroso.
Il Vangelo ci dà un’altra regola: quando vi mettete a pregare, perdonate. Come a dire che se nel nostro cuore ci fossero risentimenti, rancori, la preghiera ne verrebbe ostacolata. Lasciamo allora che risuoni in noi il canto iniziale di questa sera: “Nada te turbe, nada te espante”, non ci turbi nulla, non ci inquieti nulla.

La mente

E infine approdiamo alla mente. La terza corda della nostra cetra che intendiamo accordare è la mente, che già ha beneficiato dell’esercizio condotto sinora e della quale possiamo registrare lo stato di ricettività e di raccoglimento. Siamo favoriti perché a questo punto, essendo già passati alcuni minuti, siamo in grado di prendere coscienza dello stato della nostra mente: se ci risulta raccolta, serena o se sullo schermo della nostra mente sono affiorati dei pensieri. Quali? Pensieri che denunciano la volubilità della nostra mente, oppure pensieri che denunciano la presenza di ossessioni, di richiami troppo insistenti che ci fanno capire come il vero ostacolo alla nostra orazione è che la nostra attenzione fatica a polarizzarsi su Dio ed è risucchiata sul nostro “io”.

L’abbraccio trinitario

Stiamo procedendo al rallentatore perché desideriamo gustare i vari passaggi e renderceli ancora più familiari. Considerando raggiunta l’accordatura, ripetiamo mentalmente il segno di croce, polarizzando l’attenzione sui nomi divini, perché la preghiera ha lo specifico obiettivo di immergerci nel mondo di Dio.
In questo caso la preghiera ci consegna all’abbraccio trinitario, per cui ci fermeremo qualche minuto in silenzio ripetendo i nomi divini. Immaginiamo di avere una corona del Rosario: invece dell’Ave Maria, per dieci volte ripeteremo Padre, Figlio e Spirito, Amen. Con le labbra, a fior di labbra, assicurandoci che queste parole si imprimano nella mente, diventino il pensiero dominante. Non che si debba ragionare su queste parole, ma semplicemente lasciare che dominino nel mondo dei nostri pensieri e coglierne la risonanza interiore. Quale risonanza suscita in me adesso rivolgermi al Padre, al Figlio, allo Spirito? E che risonanza ha l’Amen? Cosa esprime di me l’Amen?
Possiamo ripetere un’altra volta i nomi divini, per coglierne la risonanza interiore, l’impatto che stanno avendo in noi, pensando che l’umanità ha atteso millenni e millenni, prima di venire a capo dei nomi divini. Noi abbiamo la gioia di esserne a conoscenza, per cui Dio è colui al quale possiamo dare del tu.
Siamo, grosso modo, a metà del nostro percorso.
Approderemo a uno stato di attenzione cosciente e di devozione amorosa, rendendoci “presenti al Presente nel presente”. Presenza che può essere facilitata se ci si trovasse in chiesa, ma che siamo chiamati a cogliere ovunque e che in ogni caso ci viene assicurata pronunciando i Nomi divini, che istintivamente abbiamo già associato al segno di croce: Padre, Figlio, Spirito santo. Ad essi faremo seguire l’Amen. Far risuonare i Nomi divini (con la triplice attivazione di labbra, mente e cuore) significa accoglierne l’azione in noi, in modo da entrare nella dinamica trinitaria e lasciarcene coinvolgere con piena adesione. È il senso dell’Amen.
Per rendere ancora più personalizzata e coinvolgente la nostra preghiera ci converrà formulare una invocazione. Ognuno si lasci condurre dalla propria sensibilità a formulare una invocazione all’indirizzo del Padre, o del Figlio, o dello Spirito, o a tutti e tre i nostri amici celesti, una invocazione con il preciso scopo di chiedere il dono della preghiera, il dono che desideriamo ricevere adesso, visto che lo scopo che ci trova qui riuniti è pregare.
Oltre a ripetere le quattro suddette parole chiave, ritmandole opportunamente sul respiro, possiamo formulare una preghiera rivolta alle Persone divine, e in particolare allo Spirito santo.
Poiché il nostro è anche un esercizio, formulerò una invocazione allo Spirito Santo che è molto in voga nella pratica della preghiera. Ci rivolgiamo allo Spirito Santo, poiché è lui il maestro della orazione interiore, come ci ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica, è lui che prega in noi con sospiri d’amore. Ciascuno ripeta interiormente le parole che ora ascolterà: “Vieni, Spirito Santo, potenza divina d’amore, visita il mio povero cuore, purificalo, santificalo, fallo tutto tuo. Vieni Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio, anima dell’anima mia. Vieni: io ti adoro”.

Sta in silenzio davanti a Dio e spera in lui: è Lui che agisce

La nostra preghiera interiore potrebbe anche fermarsi qui, nella ripetizione dei nomi divini, nell’invocazione dell’uno, dell’altro, dell’altro ancora, delle tre divine persone, i nostri celesti amici, nella ripetizione dell’Amen così che tutti i no che si accumulano facilmente nel cuore vengano bruciati dal sì dell’amore. Ma possiamo aggiungere una successiva tappa: si è finalmente spianata la via all’ascolto che può attingere alla parola divina o alle voci interne ed esterne che ci parlano di Dio nell’oggi dell’uomo e del mondo. La preghiera comporta di essere nutrita, alimentata dalla Parola divina, Parola che innanzi tutto risuona nelle profondità del cuore, Parola che incontriamo nelle Scritture, Parola che viene a noi attraverso gli eventi della storia, o la testimonianza dei santi o degli uomini spirituali.
La Parola, che sceglieremo questa sera per il nostro incontro, è finalizzata a renderci ancor più familiare l’esercizio dell’orazione interiore, della meditazione che dir si voglia.
La riprendiamo dai salmi che ci offrono non poche regole di preghiera, se sappiamo coglierle all’interno della loro trama. “Sta in silenzio davanti a Dio e spera in lui: è lui che agisce”: troviamo questa citazione nei salmi 36 e 38 o 37 e 39. Perché privilegiamo questa parola divina? Perché è normativa in ordine alla preghiera interiore. Come a dire che chi di noi desidera coltivare la preghiera interiore, qui trova come può esercitarla e quali sono le scansioni essenziali attraverso cui può entrare nell’orazione interiore.

Sta

La preghiera interiore prende le mosse dalla “statio”, ossia dalla stabilità di corpo e di mente e dalla tranquillità d’animo. Alla “statio”, inizio della “lectio divina”, seguiranno lectio, meditatio, oratio, contemplatio.
Il momento preliminare lo abbiamo già vissuto, già messo a fuoco: non ci resta che prendere atto di come persevera nei suoi buoni effetti. Rivolgiamo quindi l’attenzione al nostro corpo, cuore, mente, per appurare in quale misura le tre corde abbiano raggiunto la loro stabilità, la loro quiete. È probabile che cammin facendo riemergano le inquietudini che sottraggono slancio alla preghiera, inquietudini talmente somatizzate che è ben difficile che scompaiano d’incanto.

In silenzio

Poiché la mente fatica a tacere, poiché la nostra preghiera è un dialogo, un entrare in vera comunione con il Signore, risulta quanto mai opportuna la ripetizione di un nome o di una formula divina, eventualmente scandita sul ritmo respiratorio, avvertito come costante richiamo allo Spirito che il Signore dona alle sue creature. Come abbiamo fatto noi quando ci siamo immersi nel silenzio sorreggendolo con l’invocazione dei nomi divini. A questo punto ci vogliamo domandare se il silenzio è stato disturbato, se sono emersi pensieri estranei, se con il corpo siamo nel luogo dell’orazione ma il cuore e la mente siano rimasti fuori. Ci accorgeremo che il silenzio è del tutto impossibile. Il Catechismo della Chiesa cattolica definisce il silenzio «amoroso» e sostiene che è impossibile all’uomo esteriore, ma costituisce la via di accesso al mistero trinitario.

Davanti a Dio

Anche quest’aspetto può dirsi acquisito, ma vale la pena ricordare, sempre sulla scorta del Catechismo della Chiesa cattolica, che l’attenzione a Dio è rinuncia all’io, nel senso che siamo costantemente risucchiati nel nostro mondo di pensieri, immagini, sentimenti, al punto da faticare nel trasferire mente e cuore inDio.
Potremmo riassumere lo stare davanti a Dio in uno slogan: “presenti al Presente, nel presente”. Della presenza Dio ci offre più di un segno: se siamo in Chiesa basta pensare all’Eucaristia, che è il santo segno che Gesù ci ha donato del suo corpo, cioè della sua persona. Forse non è male che ci colleghiamo con questa presenza, anche se ci si trova in un teatro come questa sera. In ogni caso, Dio dimora nel cuore per diritto nativo, dimora nel cuore di tutte le creature, senz’altro dimora nel nostro cuore perché lo abbiamo ricevuto. Possiamo pensare all’ultima Comunione che abbiamo fatto. Davanti a Dio: tutto il segreto della preghiera consiste nel metterci alla presenza del Signore. Nell’Imitazione di Cristo si legge: “Dio è dappertutto, ma tu quando preghi dove sei?”. Paolo VI diceva che, spesso, la preghiera è un appuntamento fra due assenti: Dio e il cuore.

Spera in lui: è Lui che agisce

Significa che nella preghiera il protagonista, in ultima istanza, è Dio. A noi è chiesto un “abbandono attivo” nelle mani divine che ci hanno creato e ci riplasmano nella misura in cui ci concediamo alla loro azione. È questo il senso dell’Amen!
La preghiera comporta che noi ci si consegni fiduciosi all’azione di Dio, all’azione che Dio dispiega in noi quando preghiamo. Questo è un vero capovolgimento. Di solito si pensa che la preghiera comporti un atteggiamento attivo, nel senso dell’attività che dispieghiamo lungo la giornata. La preghiera invece comporta che ci si consegni all’azione di Dio, in uno stato di ricettività: è come se noi ci chiedessimo che cosa vorrà mai operare il Signore questa sera in me. In questo spazio che egli mi dona, che cosa mai opererà?

Silenzio, rinuncia all’io, abbandono

Quando siamo approdati a questo stadio, ci rendiamo conto che nella preghiera si esprime alla perfezione l’autentico spirito religioso, che appunto comporta silenzio, rinuncia all’io (“annichilimento”) e abbandono. Sono tre disposizioni d’animo che possiamo contemplare in Maria.
L’abbandono che noi compiamo nella preghiera implica attenzione e devozione. Attenzione significa che rimaniamo costantemente esposti all’azione divina, che ci consegniamo consapevolmente all’azione divina e la devozione esprime lo slancio dell’amore.
Anche qui il Catechismo della Chiesa Cattolica ha un insegnamento prezioso per noi, quando dice che “questa attenzione a Dio è rinuncia all’io”. Poiché questa attenzione è senza dubbio superiore alle nostre forze, noi la possiamo sorreggere ripetendo i nomi divini, o una invocazione che ci può risultare gradita, tipo “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi”. Qui si innesta tutta la tradizione della così detta “preghiera del cuore”, cioè una preghiera che si avvale di una espressione molto semplice, destinata a tenere desta l’attenzione e a suscitare devozione: siamo invitati a ripetere una espressione che possiamo riprendere dalla liturgia, dalla lectio divina, dalla nostra particolare devozione interiore, come meglio crediamo.
A questo punto vi suggerirei di ripetere le parole che abbiamo cantato all’inizio - “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta” - con una tale intensità da abbracciare il mondo intero in questo tornante della sua storia, suscitatore di paura, di giustificati timori, di ragionevoli preoccupazioni, dato che quando uno prega entra in comunione con l’umanità intera. La preghiera non conosce barriere, non conosce confini. Immaginiamo che, attraverso noi, tutta l’umanità ripeta: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta!” Ripetiamo un po’ di volte queste parole molto sottovoce, lasciando risuonare anche le note del canto, come abbiamo fatto all’inizio. Lasciamo che continui a risuonare nelle nostre orecchie questa melodia e, a conclusione del nostro esercizio, rendiamoci innanzi tutto ancor più consapevoli che, quando qualcuno prega, tutto il mondo prega. Noi ci consideriamo come cellule viventi di un grande organismo: più le cellule risultano sane, maggior sanità potrà essere registrata dall’intero corpo dell’umanità. Noi intendiamo far dono della preghiera che abbiamo compiuto questa sera, perché l’umanità tutta ne tragga vantaggio. “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta!”: come a dire che è solo in Lui che riponiamo i nostri destini.

- Silenzio - Abbracciando in uno sguardo di insieme l’esercizio che abbiamo compiuto, vorrei sottolineare come esso mette in luce l’abc della religiosità vera. E l’abc della religiosità vera comporta il silenzio, il silenzio “amoroso” che ci immerge nell’abbraccio trinitario. Nei confronti di un Dio che parla, il compito dell’uomo è ascoltare: “Ascolterò che cosa dice il Signore”. Il Padre ci “dice” il proprio Verbo e ci permea con il suo Spirito.

- Rinuncia all’io - Il secondo aspetto di una religiosità autentica è la rinuncia all’io, nella misura in cui fa da schermo a Dio. L’attenzione a Dio è rinuncia all’io. Quando si è veramente in preghiera, non si diventa Dio, ma l’annichilimento consente al nostro io di rendersi trasparenti al divino che ha preso dimora in noi: siamo assorti/assorbiti in Dio. Questa rinuncia all’io può essere paragonabile al cristallo che, di sua natura, è finalizzato a rendersi perfettamente trasparente alla luce.

- Abbandono - La terza attitudine radicalmente religiosa è l’abbandono, un abbandono “attivo”: consegnarsi in quelle mani divine che ci hanno creato e che nei momenti magici dell’orazione ci riplasmano, ci restaurano, ci restituiscono a vita nuova.

Perché questi tre aspetti ci rimangano ancor meglio impressi, li possiamo vedere raffigurati nella Vergine Maria, perfetta orante.
Il silenzio. Lei è per definizione la creatura che ha prestato l’ascolto più totale e anche più fattivo alla Parola.
La rinuncia. Lei è una creatura totalmente consacrata ai disegni divini: ha guardato all’umiltà della sua serva, alla nullità della sua serva.
L’abbandono. Lei è la creatura dell’abbandono gioioso, festoso: avvenga di me ciò che tu hai detto.

Adesso la preghiera si traduce in dialogo orante e può articolarsi secondo le più svariate modalità, dalla supplica all’offerta, dall’intercessione alla lode, e soprattutto nel rendimento di grazie che ne costituisce il culmine.
Inoltre l’orazione suscita una vera e propria dilatazione dell’anima, al punto da abbracciare l’umanità intera e porre le premesse di quella comunione nell’amore che attende la controprova nella vita di ogni giorno.

Decalogo sulla preghiera (interiore)

1. Prepararsi alla preghiera "accordando" lo "strumento dalle tre corde": corpo, cuore, mente. L'accordatura può essere compiuta tracciando con consapevolezza il segno di croce. È indispensabile un corpo quieto; un cuore impregnato di amore, purificato e riconciliato; una mente raccolta e vigile.

2. Porsi in uno stato di "attenzione cosciente" e di "devozione amorosa" dinanzi al Signore: presenti al Presente nel presente. Far risuonare in noi i Nomi divini del Padre, Figlio e Spirito santo, pronunciati tracciando il segno di croce, così da entrare nella "dinamica" trinitaria. Invocare la grazia dello "Spirito che prega in noi".

3. Sviluppare l'ascolto, attingendo alla parola divina e/o alle voci interiori o esteriori che ci parlano di Dio nella vita dell'uomo e del mondo. In questa fase la preghiera è attenta ai tempi liturgici e alle emergenze della storia personale e sociale.

4. Passare alla personalizzazione, calando la "parola" del proprio vissuto, dal momento che la preghiera è la via di accesso all'interiorità, ci rivela a noi stessi e ridesta in noi l'energia divina (Gc 5,16).

5. È giunto il momento del "ritorno a Dio della parola di Dio", il momento del dialogo che si esprime nella supplica, nell'offerta, nell'intercessione, nella lode e soprattutto nel rendimento di grazie, momento culminante della preghiera.

6. A questo punto l'orante entra in sintonia con l'umanità intera, poiché quando uno prega tutto il mondo prega e si trasforma.

7. La preghiera si apre alle sue espressioni culminanti, in cui si manifesta l'autentico spirito religioso: silenzio, annichilimento, abbandono. Con ciò si raggiunge la contemplazione e l'unione mistica. Questa triplice attitudine può essere contemplata in Maria.

8. Il "silenzio amoroso" ci immerge nell'abbraccio trinitario. Il Padre ci "dice" il proprio Verbo e ci permea con il suo Spirito.

9. L'annichilimento consente al nostro "io" di rendersi trasparente al divino che vi ha preso dimora: l'orante è "assorto/assorbito" in Dio.

10. L'abbandono "attivo" ci consegna alle "mani divine" che incessantemente riplasmano le creature umane.

Dal dibattito

Preghiera liturgica e preghiera personale

Mi rifarei al Sinodo della Diocesi di Milano che dedica pagine molto penetranti sul rapporto tra preghiera liturgica e preghiera personale. Hanno un loro statuto e una loro piena legittimità. Sono due modalità sostanzialmente diverse, perché la preghiera liturgica è azione, implica la comunità, si manifesta nell’ascolto e nella parola e così via. La preghiera interiore segue ben altro registro: è una preghiera che si svolge nell’intimità del cuore. Può essere compiuta anche stando insieme, ma la regola base della preghiera interiore è, fondamentalmente, il silenzio, che si sorregge di invocazioni molto semplici o di una riflessione compiuta mentalmente, o di una orazione che viene formulata a partire dal cuore. L’una feconda l’altra. Sarebbe come dire che il giorno e la notte sono due esperienze polari nella vita umana: l’una suppone l’altra, l’una si integra con l’altra, pure nella loro assoluta diversità.
È altrettanto vero che la preghiera liturgica per sé comporta dei momenti meditativi, non eccessivamente prolungati perché si creerebbe un notevole disagio. La liturgia prevede il sacro silenzio e questo “sacro” la dice lunga. Sarà all’inizio quando si tratta di chiedere perdono, sarà alla comunione quando si tratta di ringraziare il Signore: dovremmo valorizzare i momenti di sacro silenzio all’interno della preghiera liturgica, ma questo è possibile se si è già educati a vivere la preghiera interiore, che è fondamentalmente una orazione silenziosa. Solo allora si riuscirà a inserire anche dei momenti di silenzio nella trama della liturgia.
L’orazione è come la nostra persona che cammina con due gambe: una è la liturgia, la preghiera fondamentalmente attiva nell’ascolto, nella celebrazione, nel gesto, nel rito, nel simbolo, nel canto e un’altra è la preghiera interiore.
Le nostre parrocchie sono ottime agenzie di preghiera liturgica, oserei avere qualche dubbio che siano tutte e sempre analogamente ottime nel proporre la preghiera meditativa. Occorrerebbe che fossero presenti anche proposte simili a quella di questa sera, non fosse che a titolo di educazione alla preghiera. Poi ciascuno, una volta appresa l’arte, troverà il tempo opportuno per esercitarla.
Il cristiano non può pensare di essere in regola con la preghiera solo perché partecipa, nella maniera migliore s’intende, alla Messa domenicale. Sono indispensabili spazi di preghiera personale: la meditazione, la lectio divina. La lectio divina include la meditazione: non è pura e semplice lettura della Parola con la riflessione che l’accompagna, è anche interiorizzazione, è anche silenzioso amore. Il catechismo della Chiesa cattolica, quando parla della preghiera, approda alla cosiddetta contemplazione che è il silenzioso amore: stare in silenzio davanti a Dio.

Preghiera e corpo

La preghiera ebraica è fondamentalmente legata alla risonanza della Parola divina e, poiché nella Bibbia si dice che tutto ciò che io sono entra in vibrazione, quando un ebreo prega, accompagna l’orazione con i movimenti del corpo (avrete sicuramente visto gli ebrei in preghiera al Muro del pianto). Una sorta di esperienza come quella dei dervisci danzanti: tutta la persona è coinvolta. D’altra parte la tradizione ebraica conosce la preghiera meditativa, quella che abbiamo fatto noi questa sera. Nel Talmud si legge che quando uno pratica la preghiera interiore deve applicare la cosiddetta Kavanà, che è l’attenzione, una attenzione che si tiene desta con espressioni molto semplici ripetute in maniera cantilenante. Il canto a canone che abbiamo fatto all’inizio dimostra come questa sia una tradizione perenne che viene costantemente ripresa, perché è molto più facile che la mente venga, per così dire, assorbita, rapita da espressioni semplici, ripetute, lasciate risuonare nel cuore. Il rischio davanti a un insieme di testi è invece quello di favorire l’applicazione della mente, ma non il risveglio del cuore. Più io attivo la mente nel pregare, meno risveglio il cuore, più la mente è fissata su espressioni molto semplici, più si dà spazio alla risonanza interiore, al risveglio del cuore, delle emozioni, dell’affetto, del sentimento, dell’amore. La preghiera, in ultima analisi, porta a questo.

L’educazione al silenzio

Credo che al silenzio ci si debba educare. Mi ha sempre impressionato quanto si legge nelle Costituzioni del mio fondatore, Sant’Antonio Maria Zaccaria, le cui spoglie mortali sono custodite nella Chiesa di San Barnaba, nelle regole per i novizi: “Insegni loro il silenzio”. Il silenzio va insegnato, come si insegna a leggere e a scrivere. Occorre insegnare a tacere, a tacere in un contesto orante, perché se è solo per tacere si può mettere la mano alla bocca. Si tratta invece di acquisire quella capacità di silenzio che aiuta a praticare l’interiorità, ad accogliere la risonanza della Parola, a percepire la nostra persona. Vi dicevo prima: con che corpo vengo alla preghiera, con che cuore, con che mente? Questa è tutta una educazione. Quando l’insieme dei nostri parrocchiani avrà gustato il silenzio e lo avrà appreso, allora sarà molto più facile che anche nelle nostre chiese ci sia il silenzio. Perché S. Paolo dice che le donne devono tacere in Chiesa? Perché nelle sinagoghe era proverbiale, era imperante il chiacchiericcio!

La duplice estasi: davanti a Dio e al fratello

L’uomo soffre dello squilibrio derivante dal non frequentare la propria interiorità, la propria anima. Le proposte allettanti di alcuni movimenti religiosi ci interpellano: come mai la nostra “agenzia ecclesiastica” non riesce ad offrire proposte di interiorità analoghe, parallele a quelle che vengono offerte da altre religioni? È chiaro che il cristianesimo, rispetto ai nuovi movimenti religiosi, è molto più impegnativo, perché pone il rientro in se stessi come un momento di passaggio per aprirci a Dio e agli altri. La duplice estasi, come diceva bene san Francesco di Sales: l’estasi è duplice, perché io non posso trovarmi in estasi davanti a Dio, se non mi trovo in estasi davanti al fratello. Estasi vuol dire uscire da se stessi, perché unico è l’amore. Se ha per oggetto Dio, lo chiameremo amore divino e se ha per oggetto il fratello lo chiameremo amore del prossimo. La preghiera fa del rientro in se stessi la premessa per l’apertura agli altri: per questo il cammino cristiano è più impegnativo, non si ferma a metà strada. In ogni caso siamo interpellati, perché questa grande “agenzia” che è la Chiesa, è l’unica agenzia che settimanalmente nei nostri paesi può rivolgersi direttamente, non tramite la televisione o la radio, a un quarto della popolazione: dovremmo aiutare queste persone a conoscere e a seguire dei cammini di interiorità, a rintracciare la propria anima.
Ricordo un episodio molto bello che ho letto su una rivista scientifica: in una spedizione archeologica in America latina gli organizzatori occidentali angariarono il personale del luogo per portare strumentazioni là dove dovevano svolgere le loro ricerche e costoro, dopo una settimana di marce più o meno forzate fecero un ammutinamento, rifiutandosi di continuare a camminare. Non vollero dare immediatamente spiegazioni agli organizzatori che cercavano in ogni modo di stimolarli a riprendere il cammino. Solo dopo alcuni giorni di sit-in il loro rappresentante disse agli organizzatori: “Correvamo troppo, abbiamo dovuto aspettare che le nostre anime ci raggiungessero”.

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