LO STUPORE DI ESSERE FIGLI
Quando pregate dite: Padre (Lc 11,2)
Ermes Ronchi
L’introduzione di don Mirko Bellora
Stasera c’è tra noi padre Ermes Ronchi,
priore della comunità dei Servi di Maria che troviamo nel
convento di San Carlo al Corso ed animatore dello storico centro
culturale “Corsia dei
servi”.
Mi hanno colpito i suoi commenti al Vangelo della domenica che
pubblica ogni sabato il quotidiano Avvenire. Mi sono divorato un paio di suoi libri e mi
sono fermato incantato davanti a “Il canto
del pane” un commento splendido alla “perla delle parole”: il Padre nostro. Il
libro è presentato da padre David Maria Turoldo con queste
parole:
Caro Ermes, fratello mio, anch’io mi
associo al dono degli amici; che poi è un dirti grazie per
il prezioso regalo che tu ci hai fatto di questi tuoi pensieri
tanto delicati quanto luminosi. Non ti dico la gioia nel
leggerti; come sempre, del resto, poiché tu sai parlare e
sai scrivere… cosa oggi sempre più rara…
Stasera allora con gioia e “avec
gourmandise” ho voglia di ascoltare il commento di
padre Ermes al Padre nostro certi che ci
farà tutti crescere “nello stupore
di essere figli”.
*****
Non serve il tempo ma il cuore
Grazie a don Mirko per le parole troppo generose nei miei
confronti e per il ricordo di un maestro, il p. Turoldo, al quale
devo molto della mia fede e della mia vita di frate servo di
Maria.
Questa sera cercheremo di riscoprire insieme lo stupore di essere
figli. Lo faremo guidati da una intuizione di Gregorio di Nissa
che afferma: “I concetti creano idoli,
solo lo stupore coglie qualcosa”.
Spesso qualcuno mi dice: “Padre non ho tempo per pregare.
Per favore, preghi lei per me”. Ebbene io rispondo
così: “Ricorda che pregare è come voler bene.
C’è sempre tempo per voler bene, perché non
serve il tempo. Tu non dici: adesso mi prendo cinque minuti per
voler bene a mio figlio, a mio marito, al mio nipotino. E’
sufficiente evocare la persona amata e da te parte un qualcosa,
un messaggio interiore, uno slancio, una luce. Non serve il
tempo, ma il cuore. Qualcosa prende la strada e parte in
pellegrinaggio verso il luogo del tuo amore. Basta un istante per
amare, o meglio, per esserne consapevole. Perché
già ami prima, già sei struttura d’amore
dentro, là dove nascono le parole, i sogni, i sorrisi, le
azioni. Così è la preghiera, basta un istante, uno
slancio del cuore, un solo movimento. I padri antichi dicevano
che la preghiera è itinerarium mentis in
Deum, cammino dell’anima verso Dio, istante forse
breve, ma acceso; passo che ci pare cortissimo, ma che vibra di
forza. La preghiera è un attimo immenso. Forse, solo per
istanti si può realizzare il comando difficilissimo di
Gesù: amerai con tutto il cuore, con
tutta l’anima, con tutta la mente... Solo per
istanti immensi.
Perché in principio non
c’è la preghiera. La preghiera non è il primo
atto dell’uomo, né del credente. Prima
c’è un’esperienza, un grido, la passione del
dolore, un amore, la carezza della gioia, uno stupore, almeno
quello di essere vivi. Ed è questa la sorgente da cui
nasce la preghiera come supplica e come canto, talvolta come
contestazione di Dio..
Bisogna essere ben vivi per saper pregare. Bisogna essere molto
vivi per pregare bene. Perché la preghiera è
già in noi come sete, come esigenza. Dobbiamo solo
lasciarla sgorgare, riconciliandoci con le pagliuzze d’oro
che sono già presenti nel fiume del nostro io profondo. La
preghiera è già dentro. Infatti lo
Spirito Santo già prega in noi con gemiti
inesprimibili (Rom 8,26). Che io ne sia consapevole o no.
Non dobbiamo andare a conquistare la preghiera lontano, in
chissà quale deserto misterioso. La preghiera respira col
mio stesso respiro. La preghiera nasce prima delle parole.
È sete e grido. Viene prima di te. Nasce con il bambino
che nasce e grida con il bambino che grida. Non consiste nel dire
preghiere: è desiderio di una sorgente e grido del sangue.
Appartiene alle fibre più intime di tutto ciò che
esiste.
Noi siamo chiamati a partecipare a questa corrente immensa e
salvifica, che viene dal seme stesso della vita. Allora pregare
è facile. Io prego perché vivo. L’intima
essenza d’ogni creatura è di essere preghiera.
Che cos’è, allora, la preghiera? È collocare
il senso ultimo della vita, delle cose, non in se stessi ma fuori
di sé. È costatare che la speranza del mondo non
risiede nella cronaca quotidiana ma oltre, in alto. Pregare,
perché? Perché quando imparerò a pregare,
avrò imparato a vivere, sarò finalmente uomo.
Pregare vuol dire accorgersi che esistono gli altri. È
smettere di ripiegarsi su se stessi: è urgenza di aprirsi,
è sfuggire all’eterno ritorno su di sé.
Narciso è più lontano da Dio di Caino; colui che
guarda solo a se stesso è più lontano da Dio di
Caino.
Dice il Signore nel libro della Genesi: Io
proteggerò Caino, chi lo tocca sarà punito
(Gn 4,15). Ma Narciso è
assolutamente inconvertibile.
Io prego perché vivo e vivo perché
prego
Io prego perché vivo, perché vivere è
desiderare l’altro, desiderare la comunione. La preghiera
è innata in tutte le nostre fibre, grida nella nostra
stessa fisiologia. Prego perché vivo. L’essenziale
preghiera dei salmi, la più ripetuta, è soltanto
questa: Signore, fa che io viva. Il mio sangue chiede di vivere in una
invocazione muta, originaria, primordiale, ininterrotta. Io
chiedo di vivere e vivere chiede comunione. Diceva Heidegger:
denken ist danken, pensare è già
ringraziare. Vivere è già pregare.
E poi, io vivo perché prego. La preghiera fa lievitare la
vita che si irrobustisce al contatto con Dio. Vorrei dirlo con
una divagazione etimologica. Nella liturgia noi usiamo ancora la
parola greca Kyrios, che significa Signore, parola liturgica della chiesa
universale, da sempre in uso, e che deriva dal verbo KYO, il
verbo più proprio e geloso ed esclusivo della donna, che
indica l’essere incinta, il portare
dentro una vita.
Il nome di Kyrios viene attribuito a chi
è portatore di vita, a colui che fa crescere, difende,
protegge, fa germinare vita. Dio è Dio perché
datore di vita, colmo, gravido di vita che da lui si diffonde
nella creazione continua, nella generazione perenne, nella
resurrezione di ciò che credevo morto o spento. Dio
è padre e madre nella sua stessa radice etimologica, nel
senso primordiale di gravido di vita.
Allora pregare è pormi davanti a Lui, come davanti a una
fontana, perché vita venga e riempia le anfore vuote del
cuore, le anfore assetate dell’anima. Pregare è,
allora, partecipare alla vita del Kyrios, che dona, nutre, fa
crescere la vita.
Prego perché vivo: in tutte le forme dell’amore,
l’uomo vivendo prega, fa comunione con la storia di Dio.
Vivo perché prego: porto Dio nella vita, faccio della vita
un luogo teologico, di rivelazione, faccio dell’amore un
luogo privilegiato di evangelizzazione, un nuovo battesimo.
Quando Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, riceve il
messaggio dell’angelo nel tempio (Lc l,8ss) e dubita,
diventa muto. Ritrova la parola solo quando nasce il bambino,
cioè quando lui diventa padre, quando partecipa del kyrios di Dio. Ritorna alla parola e ritrova la
capacità di pregare quando gli nasce un figlio, quando un
amore nuovo scioglie i limiti del cuore.
Così noi ritroviamo la parola e la preghiera, ritroviamo
le parole buone e giuste quando siamo padri, quando cioè
abbiamo cura della vita, quando sappiamo amare. La vita cessa di
essere muta quando generiamo un figlio, un amico, un fratello, un
amore. Se non hai un cuore di carne, le parole diventano di
pietra.
Tu preghi quando dai vita. Così Zaccaria riprende a
parlare e a pregare (è il Benedictus, la preghiera che la Chiesa ripete ogni
giorno all’alba) quando la sua vita si apre al dono,
diventa piena, vera. Prega perché vive. E, pregando scopre
dimensioni nuove per il figlio, e profondità impensate:
tu bambino, figlio mio bambino, figlio senza
parole, tu sarai profeta e Dio
verrà dietro di te. Pregare crea uomini con
più orizzonti e con più storia. Non ci interessa un
sacro che non faccia fiorire l’umano.
La stessa cosa accade alle due madri, Elisabetta e Maria. Sono
entrambe incinte, partecipano del Kyrios,
colui che è la fonte della vita e che le abilita al canto,
al Magnificat per Maria, alla beatitudine
e alla lode per Elisabetta: la preghiera sgorga dalla vita.
Pregare è facile, dunque, basta essere ben vivi. E vivere
è facile, non è un mestiere ingrato, basta non
essere come Narciso.
Il Padre nostro
Nella preghiera cristiana, quella che sappiamo meglio, quella che
intesse il nostro crescere, che accompagna i nostri giorni
è il Padre nostro. Essa è
prima di tutto una preghiera “espropriata”, dove mai
si dice “io”, mai si dice “mio”; sempre,
invece “tu” e “nostro”. È la
preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo
“io” che vuole mettersi al centro. Ricordate la
parabola del fariseo nel tempio. Prega, e pregando pecca;
continua a ripetere “io faccio, io dico,
io pago, io non sono come gli altri…” (Lc
18,9-14). La sua preghiera non è altro che un monumento
innalzato a se stesso. E Dio è un muto specchio su cui far
rimbalzare la sua soddisfazione.
Il primo atteggiamento per pregare bene è imparare a dire
“tu”: il tuo nome, il tuo Regno, la
tua volontà; e - di conseguenza - è imparare
a dire “noi”: il nostro pane, i nostri debiti, il
nostro male. Pregare è uscire dall’io ed entrare
nella relazione. Il segreto del Padre nostro è la
relazione. In questa preghiera la passione per il cielo si
coniuga con la passione per la terra. E la causa dell’uomo
diventa la causa di Dio. E mentre nella prima parte l’uomo
si interessa di Dio e dice: il tuo Regno venga,
la tua volontà si compia, nella seconda parte Dio
si interessa dell’uomo e gli dona pane, perdono,
liberazione dal male.
Qui udiamo l’appello ad uscire da noi stessi: la sua voce
che continuamente dice “va”, che continuamente dice
“vieni”. Vai verso l’uomo. Vieni verso il
Padre. Non si può pregare se non si ama con la stessa
intensità il cielo e la terra. Il Padre Nostro è la
preghiera degli appassionati: è nata da una immensa
passione per il cielo e per la terra ed è destinata non a
grigi impiegati, ma a gente ben viva, appassionata di Dio e degli
uomini.
Essere figli
La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo
è quella di essere figli. Noi esistiamo perché
figli: di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una
storia, figli di Dio. La prima esperienza comune a tutti è
l’essere generati, da altri, a una vita che non è
mia, che viene da prima di me e che va oltre me. A una vita che
è dono. La prima esperienza è che nessuno è
figlio di se stesso. Così la prima parola del Padre Nostro
ci apre alla trascendenza. Parola importante, filosofica,
difficile, attraverso la quale un uomo e una donna annunciano che
il segreto del loro modo di vivere è in un “al di
là”, in un altrimenti. Il mio segreto è un
“oltre”. Questo affermo quando dico
“Padre”: il mio segreto è oltre me. E ricevo
me stesso come un dono che viene da altrove. Accanto
all’orante e alle sue prime parole si può allora
percepire l’onda di un mare invisibile che viene a battere
sulle cose e sulle parole della vita quotidiana, come un appello
a salpare, a navigare avanti. Così inizia il Padre nostro: l’essenziale è avere un
padre. Che ama ed ha cura.
Per il cristiano avviene come per il bambino: solo se fa
l’esperienza di essere amato sarà poi capace di
amare a sua volta. Perché ad amare si impara: noi
cristiani lo impariamo da Dio.
C’è la tentazione, oggi, di ridurre la religione a
carità, a solidarietà umana, al compimento di opere
buone. Fai del bene corrisponde a Sei un buon cristiano. Questo è
importante ma assolutamente insufficiente. L’ultima
tentazione della Chiesa, oggi, è quella di una religione
senza Dio, senza trascendenza, di una religione ridotta a opere
buone, a un codice di virtù sociali, quasi una religione
“atea”. Da un Dio superfluo ci preservano la
preghiera e l’eucaristia che hanno come loro meta la
comunione con Dio.
Abbà, Padre
E Gesù diceva: Abbà. Parola
aramaica, non ebraica, parola del linguaggio popolare, del
dialetto comune. Tutte le preghiere che gli evangelisti ci hanno
tramandato iniziano con questa parola: Padre. Per 170 volte ricorre nei Vangeli questo
termine che è una delle caratteristiche inconfondibili
della preghiera di Gesù. E mi chiedo: perché
inconfondibile, se tutte le religioni, da sempre - i Sumeri, gli
Egizi, i Greci, i Latini - hanno usato questo termine di Padre riferito alla divinità? Se questa
parola raccoglie il senso di precarietà e di dipendenza di
ogni creatura sotto il sole? Se anche gli Ebrei nel Primo
Testamento e più spesso al tempo di Gesù, si
rivolgevano a Jahwé chiamandolo Padre, sentendosi figli? Perché dire che
ciò è tipico di Gesù?
La singolarità del rapporto di Gesù con il Padre
è una costante di tutti e quattro i Vangeli. E lo rivela
anche l’uso sorprendente di alcune formule: Gesù
parla sempre di “mio Padre”, oppure di “vostro
Padre”, non associandosi mai ai discepoli per dire insieme
a loro “nostro Padre”. Gesù aveva coscienza di
una relazione unica, e non estensibile, con il Padre. Lo stesso
Padre Nostro non è
l’orazione detta insieme, non è la preghiera comune
a Gesù e ai discepoli: “Quando voi
pregate, direte: Padre nostro”. Quando pregava
Gesù diceva: Abbà!
Abbà è la parola aramaica con cui i bambini in casa
chiamano il papà; fuori casa, il figlio che incontra il
genitore, lo chiama “Signore”. In casa, anche il
figlio sposato si rivolge al genitore con Abbà. È
la parola più confidenziale, più affettuosa,
più familiare. Non ha la solennità della lingua
liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo: Abinù, (padre nostro, in ebraico) o più
semplicemente: “ab”. Ma
Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini e
non quello dei rabbini; usa la lingua di casa e non quella dei
documenti: usa il dialetto del cuore.
Questa espressione familiare e banale per chiamare Dio
“abbà-papà” poteva apparire come una
mancanza di rispetto verso Jahwé. Ma il Vangelo conserva
la precisa espressione aramaica, proprio per conservare
l’avvenimento dell’ardire insolito di
Gesù.
E qui dobbiamo confessare che anche per noi è insolito e
un po’ imbarazzante rivolgerci a Dio con
l’appellativo di papà; anche
per noi, oggi, il messaggio di Cristo suona sconcertante e
l’abbiamo talvolta travisato o corretto, talvolta velato o
dimenticato. Avviene come per un bambino, che quando chiama il
padre o la madre, non li chiama per nome, col loro nome proprio.
Papà, o mamma, non è un nome fra tanti: indica invece
una precisa relazione, che si compie nell’amore.
Ricordiamo la bella trasmissione televisiva in cui Roberto
Benigni commentò l’ultimo canto del Paradiso di Dante. È possibile parlare di Dio
solo se l’uomo è come un poppante:
Omai sarà più corta mia
favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella. (Par., XXXIII, 108)
Unica parola adatta è quella di chi ancora non parla,
dell’infante stretto al seno: è solo balbettando,
come un poppante, senza pretendere di sapere, solo ripetendo
queste due sillabe ab-ba come un balbettio infinito, che possiamo
dire Dio. Se non diventerete come
bambini…(Mt 18,3). In questa parola Abbà -
non nella parola Padre è l’originalità
dell’esperienza di Gesù. E dice che
l’identità della vita, il nome del vivere, è
“relazione d’amore”. Se non
diventerete come bambini, non entrerete... (Lc 18,17). Il
bambino è colui che può sopravvivere solo se
è amato; è colui che vive dell’amore dei suoi
genitori, colui il cui domani dipende dall’amore; vive
dentro una struttura vitale intessuta di amore e di fiducia. Il
bambino è colui che un gesto d’amore ha tratto
ridente dal nulla, e reso eterno.
Gesù conosce e usa anche altri nomi di Dio, lo vediamo
nelle parabole dove Dio appare come Signore, re, giudice,
padrone; ma tutte le parabole sono sotto il grande arcobaleno
della bontà e della tenerezza di Dio come abbà,
papà. Tutti gli altri sono appellativi di Dio, aggettivi,
ma padre è il suo nome proprio.
Che cosa Gesù ha veramente creato nel campo religioso? Gli
studiosi cercano ciò che del Vangelo ha radici
nell’Antico Testamento e ciò che invece è
assolutamente nuovo, originale. Ebbene, l’unica cosa
originale è Lui, un Figlio che si rivolge a Dio con questo
nome così insolito, cosi poco ossequiente, così
assoluto: abbà.
E scopriamo allora di avere un Padre, scopriamo che non
nasciamo per una combinazione casuale di cellule, o di
aminoacidi, che non si vive per coincidenze, né si muore
per caso, votati al nulla, ma che tutto è sotto il segno
della paternità. La storia dell’uomo è chiusa
tra due parentesi che gli atei dicono “di nulla”, e
che noi, con Gesù, diciamo “di amore”.
Perciò la prima parola della preghiera è Padre,
anzi papà, cioè una vibrazione, una
totalità, una modulazione della gamma dell’amore. Un
amore sorgivo, iniziale, primordiale: la radice della preghiera e
della fede e di tutta la religione è ciò che Dio fa
per me, non ciò che io faccio per Dio. Pregare dicendo
Padre è entrare in una struttura
di fiducia; significa opporre alla struttura del sospetto
reciproco e della indifferenza il sistema della fiducia
assoluta.
Padre e altri amori
Di quale padre si tratta? Innanzitutto di lui possiamo dire che
egli è Padre che non sequestra i suoi figli, che li ama di
un amore non possessivo. Che non è geloso degli altri
amori dell’uomo. Infatti sulla santa montagna del Sinai non
ha detto: Tu non avrai altro amore
all’infuori di me. Ha detto invece: Non avrai altro Dio all’infuori di me. Nel
vangelo Gesù riassume la legge e la profezia in queste
parole: amerai il Signore tuo Dio, con tutto il
cuore. Ma non dice: amerai Dio
solamente. Dio non è Padre geloso, un rivale dei
nostri amori. La totalità del cuore che egli chiede non
significa esclusività del cuore. Allo stesso modo, con la
stessa totalità amerai tua moglie, tuo marito, tuo figlio,
i tuoi genitori. Li amerai con tutto il
cuore, ma non amerai solo loro. Amerai anche il tuo amico,
lo amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo lui.
Il Padre non è geloso delle gioie della strada, non
è in competizione con i nostri amori. Non vuole essere
unico possessivo sbocco del nostro cuore. Il cuore
dell’uomo ha molte lunghezze d’onda, ama in molte
direzioni, e Dio non può e non vuole rispondere a tutte.
Non vuole sottrarci alla polifonia dell’esistenza. Il
rischio di una religione malintesa è di farci smarrire la
polifonia dell’esistenza. Qui vive una parrocchia di musici
e artisti che possono capire molto bene tutto ciò. Il
rischio di una religione capita male è quello di far
perdere tutta la ricchezza delle note e dei suoni della vita. In
una relazione vissuta bene Dio è come la nota dominante,
il canto fermo, e attorno ad esso può dispiegarsi in tutta
la sua ricchezza il contrappunto di tutte le altre voci, degli
altri amori, sicuri di essere sostenuti dal canto fermo e di
riuscire ad esprimere tutta la loro bellezza.
Amerai allora il tuo Padre che è nei cieli, lo amerai
gelosamente come unico Dio. E non avrai altri idoli, altri dei.
Ma ci saranno altri amori, per necessità, per
resurrezione, come acqua e pane nostro quotidiano. Piccolo e
grande nostro cielo quotidiano. Liberi da un malinteso amore
possessivo del Padre.
Amore sorgente
II Padre esiste solo se ha dei figli vivi, solo come
paternità continua, solo come sorgente di vita, trasmessa
a noi. Gesù dice alla Samaritana: ti
darò un’acqua che diventerà in te
sorgente (Gv 4). Anche tu esisterai solo come sorgente per
qualcuno che vive accanto a te. La fine della sete non è
nel bere a sazietà, ma nel diventare fontana per altri,
nel dissetare qualcuno, diventando sorgente per i bisogni e
l’arsura d’altri. La fine della fame non sta nel
consumare voracemente per me il mio pane, ma nel saziare la fame
d’altri. La felicità, tutti lo sappiamo, non sta nel
consumare la mia riserva di piacere, ma nel far nascere un
sorriso sul volto dell’altro. Allora la felicità che
da te defluisce la riattingi dal volto dell’altro,
moltiplicata. Come diceva Pacomio, abate del primo monastero
cristiano: “È nell’affaticarmi per voi che trovo il mio
riposo”.
Genitore e padre
Dio è padre. Genitore è colui che genera
fisicamente un figlio. Padre colui che ti introduce nella vita.
La nostra cultura e la nostra esperienza privilegiano la
paternità rispetto alla generazione fìsica.
Generare un figlio è facile, bastano pochi istanti per
essere genitore. Ma essere padre è una avventura che
prende tutta la vita. Essere padre significa insegnare il
mestiere di uomo, l’arte di vivere, mostrare come si ama,
come si lavora, come si gioisce. Dio è padre per questo.
Nella sacra Scrittura il termine figlio,
applicato a noi, è un termine tecnico: voi dite che avete Abramo per padre, ma non fate le opere di
Abramo; non siete quindi suoi figli. Perché il
termine figlio nella Scrittura designa colui che agisce come
agisce il padre, colui che prolunga nella sua esistenza
l’eredità del padre, le sue caratteristiche, il suo
comportamento. Figlio è colui che si comporta come il
Padre, figlio di Dio è uno che fa ciò che Dio
fa.
Beati i costruttori di pace, saranno chiamati
figli di Dio (Mt 5,1-12). Perché lui non è
il Dio delle guerre, ma della pace, che stronca
le guerre e riporta alle loro case i prigionieri (Gdt
16,2). Chi fa la pace agisce come Dio, per questo è figlio
di Dio. Dio è Padre solo se i figli agiscono come lui.
Egli ha messo la sua paternità nelle nostre mani. Allora
vediamo come non ci sia etica possibile senza una mistica, senza
una comunione di vita con Dio. La morale altro non è che
l’espandersi verso l’esterno di una vita divina che
già urge dentro, che si dilata e fa forza contro le pareti
troppo strette del cuore. Non c’è etica senza
mistica. Non c’è mistica senza preghiera.
Il Vangelo è pieno di una piccolissima parola, come, un avverbio che da solo non vive, che ha
bisogno di appoggiarsi ad un nome. Siate
perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre,
amatevi come io vi ho amato, come ho fatto io così fate
anche voi, la tua volontà come in cielo così in
terra. Come Cristo, come il Padre, come il cielo: ed
è aperto per noi il più vasto orizzonte,
l’obiettivo massimo, il percorso infinito. Allora so che
cosa fare: ascoltare e guardare, per
vedere come Dio agisce, che cosa fa nella storia, che cosa il suo
Spirito crea sulla terra, quali sono le strade del regno, che
cosa il vangelo dice di me, del mondo, di Dio. Altrimenti non
divento figlio e Dio senza figli vivi non è Padre.
Quale padre?
Non sono figlio se non agisco come Dio. È fondamentale che
sappia però in quale Dio credo. Anche Saddam prega, anche
Bush prega. E fanno bene. Ma il problema è chi pregano, quale Dio pregano. Il Signore della
guerra? Colui che riceve lode dall’ecatombe di battaglie
sante? La peggiore sciagura che ci possa capitare è quella
di sbagliarci su Dio. Perché poi ti sbagli sull’uomo
e sulla storia e sul senso stesso della tua esistenza. Per non
sbagliarsi su Dio occorrono ascolto, contemplazione e preghiera.
Non avrai altro Dio, dice il primo dei
comandamenti. Ma il testo sacro aveva appena detto: io sono colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto, il
gohel, il liberatore. Non avrai altro Dio: non accettare
un Dio che ti rimetta in schiavitù o che tolga
libertà a popoli e persone e menti. Non accettare un Dio
che benedica gli uccisori e le armi e le azioni di terrorismo.
Non avrai altro Dio che il Dio
liberatore. E questo è il fondamento
dell’umanità, non della divinità.
Amore passivo
Davanti al Padre, sono chiamato per prima cosa a riscoprire non
l’amore attivo ma l’amore passivo, il lasciarmi
amare. Io sono cristiano perché Dio mi ha amato per primo.
Continuo a restare cristiano perché continuo a sentirmi
oggetto di amore, in debito d’amore. Se non ti senti
debitore, non nascerà mai dentro di tè il Magnificat, mai una preghiera esultante.
Continuerai sempre a dire: io, io, io..., saprai solo
moltiplicare richieste.
È proprio in nome di questo debito che l’angelo dice
a Maria: sii felice, Maria, tu sei riempita di
Dio. Il tuo nome è: piena di grazia, cioè amata per
sempre. Amata per sempre. L’angelo ci chiama alla
riscoperta dell’amore passivo, a stare davanti al
Crocifisso non per spremere dal cuore arido delle preghiere che
non germogliano, ma per sentirsi amati dalle sue piaghe; a stare
davanti all’icona non per guardarla, ma per lasciarsi
guardare. Ci chiama, nel momento della comunione, non a forzare
sentimenti e parole, ma a lasciarci invadere, lasciar riempire le
anfore vuote.
Giovanni è l’Apostolo amato, il prediletto, oggetto
d’amore. Pietro invece è l’apostolo che ama,
che si butta in acqua, che sfodera la spada. Lui è
soggetto d’amore. Oggi io sto con Maria e con Giovanni, a
sentirmi amato, a sentire che ogni amore è un dono
immeritato. Non si merita l’amore. Dio non si merita, si
accoglie. L’amore passivo crea le condizioni per le
più alte rivelazioni: è Giovanni che per primo
giunge al sepolcro, che capisce, cioè, la resurrezione;
è di Giovanni, l’amato, la più folgorante
definizione di Dio: Dio è amore
(1Gv 4,8). Lasciarsi amare è carico di rivelazioni: senti
Dio che in te si esprime, lo senti parlare parole che toccano il
cuore. Il cristiano diventa davvero un amato amante, agisce come
agisce Dio.
La linea fondamentale della Storia Sacra non è ascendente
ma discendente: si fonda non sul mio impegno di salire, di dare
la scalata al Paradiso, ma sull’impegno di Dio di
discendere. E’ la grande intuizione di santa Maria, quando
nel suo Magnificat, per dieci volte su
tredici verbi ripete: è lui che innalza,
è lui che abbassa, è lui che riempie, che manda a
mani vuote, e guarda, ed ha misericordia, è lui.
Per dieci volte. È il decalogo di Dio, i dieci
comandamenti dell’agire del Signore, quasi risposta al
decalogo dato all’uomo sul Sinai. Una donna, Maria, porge
un decalogo a Dio. Come un responsorio tra Padre e figli, tra
cielo e terra. Il centro della fede è ciò che Lui
fa per me, perciò io altro non farò che prolungare
la sua azione nel mondo.
La casa di Dio
Padre nostro che sei nei cieli. Ma il
cielo di Dio sono i piccoli e i poveri nei quali si nasconde (Mt
25,40), ai quali si rivela (Lc 10,21) e che più degli
altri invocano il pane quotidiano. Il cielo dove Dio abita
è il povero, il prossimo. Il fratello è il cielo di
Dio. Dio siede alla destra di ciascuno di noi. Solo se si compie
questo percorso di accoglienza e di servizio delicato, tenero, ai
piccoli, solo dando loro dignità e affetto, solo allora si
può chiamare Dio con il nome di Padre. E non solo Padre
mio, ma Padre nostro. Solo facendo lo stesso percorso intriso di
umanità che ha compiuto anche Gesù impareremo a
dire: Padre.
E il dolore
Ma c’è anche, e soprattutto in questi giorni, un
grande peso di dolore nel mondo: avvenimenti tragici, crudeli, di
immensa sofferenza che la televisione riversa nel nostro vivere
come se fossero videogiochi... Colui che prega è sempre
voce di ogni creatura e c’è un immenso peso di
lacrime in tutto ciò che vive: il mondo è
aggressivo, ci sono vene aperte da ogni parte. Nemmeno la vita
quotidiana nostra sfugge alle ombre dell’assurdo,
dell’enigmatico, del crudele. Per questo, forse, la
sensibilità moderna è pervasa da accuse contro Dio,
contro il Padre. Non c’è morte che non provochi
accuse contro Dio. Anzi, molti uomini d’oggi ripetono, in
rivolta o rassegnati, le parole di Marcione, un eretico del II
secolo: “Dio è padre di
nessuno”. Il dolore innocente è la più
grande contestazione all’esistenza di Dio. Nel Padre Nostro
io divento voce del dolore, che a sua volta è voce della
creazione.
Ma in che modo Dio si mostra Padre in un mondo che geme con le
vene aperte, in una vicenda personale o familiare che non
è libera dall’assurdo e dalle lacrime? Dio non ci
tira fuori dalle onde pericolose, ma può darci coraggio
dentro le tempeste. Dio non è un sedativo per le nostre
paure o una risposta al nostro bisogno di protezione. Non
è un genitore ansioso sempre pronto a intervenire, che
risparmia al figlio qualsiasi prova e fatica, e lo rende
così inetto alla vita, un mollusco incapace di direzione e
di scelta. E quanti genitori in questo modo rendono i figli dei
molluschi... Dio non ti toglie dalla tempesta, ma ti dà
forza perché tu continui a remare dentro la tempesta,
perché le tue mani non abbandonino il timone,
perché gli occhi della sentinella scrutino attraverso le
tenebre quanto manca all’alba. Se il nostro Dio esistesse
unicamente per tirarci fuori dalle onde perigliose e non per
darci coraggio in mezzo alle onde, allora morirebbe la nostra
speranza, perché ci sarebbe negato un senso dentro le
nostre vicende.
Quando prego per il dolore del mondo, io non faccio a qualcuno
l’elemosina di una preghiera. Quando prego, io sono coloro
che soffrono; io sono Abele e Caino e l’anonimo che grida a
lui dal deserto dell’Iraq o da una carretta sperduta nel
Mediterraneo che cerca l’approdo. Io non faccio la
carità di una preghiera agli sventurati di oggi: sono loro
che mi trasformano con il loro grido, mi allargano il cuore, me
lo invadono, come hanno invaso di vita e di preghiere la
Bibbia.
Lo stupore
Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. La prima volta
che hai visto il mare, la prima volta che hai amato, che tuo
figlio ti ha chiamato “mamma”. Poi ci si abitua.
L’eternità, invece, è non abituarsi.
L’eternità è il miracolo della prima volta
che si ripete sempre. La nostra capacità di essere felici
è legata alla nostra capacità di meravigliarci.
Allora la preghiera che più da lode al creatore è
la gioia di vivere. L’umile piacere di esistere, provato
con gratitudine, dà lode a Dio, perché attinge allo
stesso stupore di Dio che guardò e vide e gridò:
che bello! a tutto ciò che aveva
fatto. Lo stupore e il piacere di vivere prolungano qualcosa di
Dio. Con la meraviglia e la gioia di vivere ripetiamo: davvero hai fatto belle tutte le cose. Allora
la vita cristiana è coniugare la mistica dello stupore e
l’etica dell’impegno; legare insieme lo stupore di
essere figli e l’impegno a rendere Dio padre di figli
vivi.

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