In principio era il "noi"
Stefano Guarinelli


Povero Adamo... !
Mistica e peccato
Domande e risposte
Al principio... noi
Lo Spirito Santo principio di relazione
Amare o credere?
"Sentire" Dio
La "legge" dello Spirito


Povero Adamo... !

Non sono molti i desideri e le domande di un bimbo che viene al mondo. La sua vita è fragile, ma non complicata. Nutrimento e protezione: ecco il suo bisogno. Che si dispiega nelle mille parole che il linguaggio del corpo materno gli comunica. Calore, contatto, tenerezza, coccole, dolcezza, e poi via via, passando attraverso il gioco ed i sorrisi... E tutto ciò lo fa sentire un dio, onnipotente, che neppure considera dono o atto d’amore tutto questo, ma semplice diritto, indiscutibile.
Chi potrebbe rimproverare un bimbo di pochi mesi di vita per le sue pretese, per il suo senso di onnipotenza, per il suo orgoglio narcisista che non rispetta l’alterità...? Suvvia!
Come mai non siamo stati altrettanto clementi con l’uomo biblico, Adamo? L’eziologia di Gen 2-3 ci presenta il ritratto di un uomo adulto; almeno così sembrerebbe. Di certo la Scrittura non si sofferma sull’infanzia di Adamo. Per lui non sembra esserci uno sviluppo. E un po’ di tenerezza e di pena per te non posso non provarla al pensiero di tutte le colpe che ti sei tirato addosso, povero Adamo, che non sei mai stato bambino! Nato adulto, in un luogo misterioso, senza memoria intrisa di calore o di sorrisi, di parole dolci o di carezze. Si è voluto che tu fossi maturo. E che lo fossi subito.
Chissà..., forse fisicamente lo eri. Ma non ci si sviluppa soltanto lì. Non si è adulti soltanto perché fisicamente si appare tali. Probabilmente quella medesima domanda d’amore del bimbo appena nato o nei primi mesi della sua vita ti era rimasta dentro come una domanda mai espressa, ma sempre presente. Troppo amara da sollecitare, per non sentirne il dolore, leggero e profondissimo; il dolore che si prova di fronte ad un desiderio importante che non riceve altra risposta che il silenzio.
Voglio pensare allora che Dio ti sia stato anche madre, che abbia fatto per te tutto ciò che si doveva fare, che non ti sia mancato nulla di ciò che non dovrebbe mancare mai.
Eppure... Eppure un dubbio mi rimane. La tua pretesa, il tuo peccato, sono troppo intellettuali, "accademici", non già o non soltanto per rimanere fedeli alla metafora di un uomo sprovveduto, nato adulto ma senza ricordi, posto a vivere in un posto misterioso, con una donna venuta fuori da chissà dove; ma pure per quel ritratto di uomo che l’eziologia narrativamente ha preteso mostrarci: Adamo, sei veramente il ritratto di ciascuno di noi? Se il tuo peccato fosse quello della superbia non mostrerebbe piuttosto una assurda pazzia? Sarebbe ancora vero "peccato"? E se il tuo peccato fosse quello di aver voluto andare a sbirciare nelle profondità del senso, là dove Dio solo può scrutare, fra il bene ed il male, non saprebbe troppo di speculazione filosofica, teologica... scientifica forse, per ritrarre l’Adamo che è ciascuno di noi?
Anch’io, come altri, credo invece che il tuo desiderio fosse assai più elementare, e legittimamente grandioso: semplicemente hai voluto essere come Dio. Anzi, di più: hai voluto essere Dio stesso. Ma questa tua pretesa non era per nulla diversa da quella medesima pretesa del bimbo che si sente onnipotente e che in realtà non si pone neppure il problema di voler essere Dio perché, nel profondo, sente già di esserlo.
Ecco chi sei. Sei in realtà un bimbo come tutti noi. La tua storia di finto adulto è la storia di un bimbo vero. Ed in questo la Scrittura è stata davvero fedele. Si nasce piccoli dèi, narcisisti, onnipotenti. Non è un peccato questo, ma il sigillo posto a garanzia della nostra sopravvivenza. In un mondo dove ogni cosa ci sovrasta, soltanto la saggia follia di sentirsi dèi, almeno quel tanto che basta, serve a non soccombere ed anzi a desiderare ardentemente di essere vivi e di continuare a vivere.
L’onnipotenza del bimbo ha dunque due sole domande: di essere nutrito e di essere protetto. L’oggetto del suo desiderio, la mamma, è l’oggetto di un amore pazzesco, possessivo, narcisista, che non riconosce che quella "cosa" è una mamma, e non soltanto la sorgente delle proprie gratificazioni affettive, sensoriali e nutritive. Ma l’impossibilità di tale riconoscimento stava scritta nel linguaggio del mio amore di bimbo. Che ha dovuto imparare pian piano anche l’ansia del distacco, la frustrazione di cogliere nei primi "No!" il sospetto orrendo di essere perlomeno un dio minore, e poi, con il tempo, neppure molto meno di quello.
Questo credo: al cuore del peccato di Adamo, non sta la superbia, l’orgoglio, ma una domanda d’amore. Anche l’amore che non matura può diventare un amore sbagliato, un amore che non cresce e che non porta frutti. Ma è pur sempre una domanda d’amore. Non la domanda di un essere abietto e presuntuoso, che dopo pochi giorni di vita in un posto stupendo si arrovella su questioni di epistemologia, e non bada, con stupore e gioia, a scrutare le bellezze gratuite e abbondanti del panorama.
Adamo, come il bimbo narcisista e onnipotente, ha voluto che l’oggetto-Dio fosse tutto per sé, che fosse assorbito in lui. Perché ne aveva bisogno, ne era innamorato pazzo, sapeva che in tutto dipendeva da lui, e ha creduto che facendolo proprio, fondendosi con lui, sarebbe sopravvissuto. Ed invece non ha colto che questa era l’unica cosa che né Dio, né una madre possono lasciar fare al proprio figlio: lasciarsi assorbire da lui, compenetrarsi, l’uno nell’altro. Nell’illusione della fusione reciproca c’è la realtà della distruzione di entrambi. La scoperta drammatica e stupenda del bimbo, quando tristemente si accorge di non essere né dio, né dio minore, è che quella "cosa" è in realtà un tu, che esiste prima di lui e che ha abitato dentro di lui affinché egli diventasse un io.
Questo era il compito di Adamo. Ma per "troppo" amore ha fallito.
 

Mistica e peccato

La vicenda dell’amore di Adamo, della ricerca dell’amore che è in ogni uomo e in ogni donna, finanche di un amore sbagliato, in fondo ci insegna che la mistica e il peccato inseguono la medesima pretesa. Senza farci fuorviare troppo dall’accezione che il termine mistico sovente assume nel linguaggio corrente, la mistica cristiana non è nient’altro che l’amore per Dio; un amore intenso, profondo, che coinvolge tutte le fibre della persona. Non le briciole di un affetto, una passione passeggera o un’avventura del fine settimana. Troppa eco è stata data alla mistica nella sua accezione in realtà più marginale: quella dei fenomeni straordinari. La mistica vive di quotidiano; la mistica è feriale. Ed è semplicemente fede che diviene esperienza. Questo ci hanno insegnato i mistici cristiani: che amare Dio è esperienza possibile. Esperienza dunque: non illusione o persuasione, o suggestione, o convinzione. L’esperienza abbraccia tutti i livelli dell’umano, né questo, né quello, presi isolatamente, ma tutti insieme: il livello cognitivo, il livello affettivo ed il livello volitivo.
E così mi piace pensare ad Adamo: non il grande peccatore, ma il grande mistico. Il precursore di una mistica fallita, come spesso fallisce la domanda di Dio dentro di noi e ci porta su strade che appaiono talmente distanti da non ridonarci la memoria della domanda di partenza: il desiderio di Dio.
Per giungere a comprendere meglio tutto questo, facciamo un salto nel mondo del peccato. E vorrei farlo provando ad entrare nell’area di un peccato "scomodo", da trattare e da capire. Vorrei parlarvi un attimo delle perversioni.
Ci colpiscono, suscitano in noi ribrezzo e sentimenti di minaccia. E la cronaca si riempie di fatti che sovente ci fanno rabbrividire. Quello della perversione si direbbe uno dei volti estremi del peccato, un volto inaccettabile, perché, a differenza di altre efferatezze, la perversione è qualcosa da cui non sembra sempre così facile prendere le distanze. La reazione che suscita in noi talora provoca sdegno e senso di ripulsione, ma anche sentimenti di forte disagio; ed in qualche misura sembra scatenarsi in noi qualcosa che può apparire troppo distante e nel contempo subdolamente vicino. Certamente appaiono assai meno complessi e ambivalenti i nostri sentimenti di fronte ad altri crimini quali l’omicidio. Ma di fronte alla perversione, almeno quella non delittuosa, capita qualcosa di strano, di indecifrabile.
Azzardo che la perversione rappresenti la risposta fallita ad una domanda mistica. Troppo spesso ci soffermiamo a scorrere i fatti più o meno scabrosi, a leggere "i sintomi". Sappiamo bene che i sintomi, ad ogni livello, medico o psicologico o psichiatrico, sono soltanto i simboli esterni di un processo profondo, sovente imperscrutabile nella sua interezza e complessità. Il processo può avere percorsi del tutto differenti dagli orizzonti chiamati in causa dai simboli che lo rappresentano. Proviamo ad accogliere la sfida di non fermarci alla superficie, di vincere la tentazione di giocare con la facile immediatezza dei fatti. L’origine della perversione sovente è una forte, potente, domanda di intimità. Il sogno mai colmato di un bimbo che forse ha chiesto più di una volta di venire toccato, prima che il suo desiderio di toccare diventasse la sua ossessione, e finisse per assumere gli oggetti al posto delle persone, o le persone alla stregua di oggetti. Essere toccato... con cura, tenerezza, rispetto profondissimo, trasmette nel linguaggio del corpo ciò che il bimbo, se potesse capire, vorrebbe sentirsi dire fin dal giorno della sua nascita: «Benvenuto!».
Una domanda d’amore appassionata, un desiderio di appartenenza, un sentimento di accoglienza incondizionata da qualcuno di "importante", nel solo linguaggio non verbale che un bimbo conosce, che è quello del corpo e dei sensi: all’origine di molte perversioni c’è soltanto questo. E dobbiamo essere un po’ spietati con noi stessi. Se non ci soffermassimo troppo sui simboli che spesso discriminano in un atto d’amore ciò che è perversione da ciò che non lo è, probabilmente scopriremmo che la soglia tra il nostro modo di amare e la perversione è assai labile. Intendo il nostro modo di amare concreto, vissuto; non già quello proclamato nelle parole o nelle intenzioni. Così come con "modo di amare" non intendo soltanto quello delle relazioni con l’altro sesso, ma tutta la gamma di rapporti affettivi di cui ci sentiamo capaci: con i figli, con gli amici, con i meno amici...
La perversione, in fondo, non è che una strumentalizzazione dell’altro. Quella sessuale fa più notizia perché solletica l’immaginazione, e grazie al potere evocativo del linguaggio garantisce pure qualche piccola dose di gratificazione "controllata" a chi ne parla. Ma la perversione non è soltanto quella sessuale. Si può pervertire un’amicizia, un matrimonio, e tutto ciò in modo assai più subdolo e sottile: l’altro non rimane in realtà più "altro", ma viene trasformato in un oggetto, destinato a gratificare qualcosa di me.
 

Domande e risposte

E’ una dialettica di domande e di risposte quella che attraversa tutto lo sviluppo della nostra personalità. Così la domanda narcisista del bambino getta le basi della sua capacità di amare non narcisisticamente nel futuro. Il bambino che nascesse non narcisista probabilmente non sopravviverebbe. Ma l’adulto che non superasse quel necessario narcisismo che ne caratterizzò la personalità infantile probabilmente, pur sopravvivendo, intimamente non lascerebbe sopravvivere gli altri.
Alla domanda narcisista del bambino, dunque, si deve dare una risposta che sappia cogliere innanzitutto la bontà della domanda. E che in seguito sappia elaborare quel narcisismo primario in una via d’amore non più narcisista; una via mistica appunto. Come?
Dio che cerca Adamo sembra andare alla ricerca di un figlio, legato da un amore vitale, che ha voluto andarsene prematuramente e senza dare spiegazioni. Adamo che cercava Dio alla stregua di un oggetto per sé, da amare in modo assoluto e possessivo, scopre ora l’"altro" come paradosso e minaccia: la rottura della relazione con Dio porta alla scoperta di una vulnerabilità di cui non si aveva un’esperienza precedente. E Adamo è costretto addirittura a nascondersi. Eppure alla domanda di Dio che va in cerca di lui risponde in modo non sincero. Sembra costretto a mentire.
«Dove sei?».
«Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
Adamo mente. Forse non lo sa; e per difendersi da un gesto che neppure lui capisce fino in fondo, giunge a colpevolizzare un altro. Anche questo, in fondo assomiglia ad un gioco fra bambini; un gioco che finisce tragicamente: «chi aveva cominciato? Sono stato io o sei stato tu?». Adamo mente, perché avrebbe dovuto dire non «ho avuto paura», ma «ho avuto bisogno di te!». Già: ho avuto bisogno che tu fossi lì, tutto per me. Perché non so cosa farmene di questo giardino stupendo, se non posso toccarti, guardarti, sapere che esisti per me. Perché «la donna che tu mi hai posta accanto» mi vuole bene, ma non sei tu, e perché anche lei cerca te; e se ti avrà, tu non sarai più per me ciò che io desidero tu sia. Mi vuole bene; ma il suo amore non è il tuo amore; e per avere questo tuo amore mi è divenuta perfino rivale.
 

Al principio... noi

La psicologia evolutiva ci insegna che l’io di una persona, ovvero quella funzione di mediazione fra la persona e la sua personalità, sorge, ma solo ad un certo punto dello sviluppo, quasi a prendere il governo delle azioni del soggetto. Dunque sappiamo che questo non succede "subito", quando il bimbo si affaccia per la prima volta su questa terra. Prima che ciò accada il bimbo attraversa alcune fasi, all’interno delle quali le sue funzioni si strutturano a partire da una matrice indifferenziata, mamma-bambino. Il bambino "funziona" e percepisce se stesso alla stregua di un sistema di cui la mamma è semplicemente una sua parte. Così, quel narcisismo o sentimento di onnipotenza di cui si faceva cenno in apertura, si comprende come esito di una consapevolezza inespressa: che la mamma è una parte di me. L’organizzazione psichica del bambino prende corpo in un sistema, in un insieme di funzioni, che ha come centro organizzatore un altro io; quello della mamma appunto. E accade un piccolo, ironico, paradosso: quanto più il bambino sente la mamma come parte di sé, in un modo narcisistico, tanto più, in realtà, è il tu materno a governare il bambino, dal di dentro.
Ed è splendido tutto questo! E’ un tu che consente ad un io di formarsi. E l’io sarà "pronto" quando guardando a quella parte, fino ad allora ritenuta di sé, chiamata mamma, potrà dirle "Tu!".
Ciò mi pare suggestiva metafora di quanto accade fra Dio e Adamo, cioè fra Dio e ciascuno di noi.
Adamo coglie in sé un principio di divinità, che lo porta intensamente a desiderare la fusione con il proprio oggetto d’amore, ma trasforma la domanda mistica in una perversione, in un peccato estremo. Dove sta il suo sbaglio? Nel non riuscire a scorgere che il suo principio non è il proprio io, ma un tu. E dunque che in principio c’è un noi.
Così la scoperta del nostro essere in una relazione fin dal momento del nostro stesso concepimento dovrebbe convertire il nostro sguardo sul mondo, sugli altri e su Dio stesso. Lo sviluppo del noi diviene una chiave interpretativa per comprendere la scelta di Adamo e per discernere dunque la via mistica dalla via della perversione.
In principio c’è il noi. Si obietterà forse che è improbabile riuscire a scorgere tale principio. Ma è davvero tanto difficile giungere a farne l’esperienza? E’ un po’ strana la prerogativa di chi, quanto meno, non dovrebbe avere la sfrontatezza di porre se stesso al principio di... se stesso. Perfino il nome che abbiamo non ce lo siamo dato, ma ce lo hanno dato. Eppure sembra che le cose vadano proprio così: ad esempio nell’adolescente o nel giovane che improvvisamente afferma di non credere più. Lo può fare: è un suo diritto. Però in lui dovrebbe perlomeno risvegliarsi la consapevolezza di un fatto sorprendente: che anche questa opzione gli è data; che lui, come essere umano, possiede la facoltà di mettere in discussione non questo o quell’aspetto marginale della sua esistenza, ma il suo significato ultimo e profondo. Che questo sia in qualche modo "opinabile", che sia l’oggetto di una decisione che da un giorno con l’altro lo può condurre ad affermare perfino il contrario di quanto affermato in precedenza. All’essere umano è concesso tutto questo: di dubitare del proprio principio e di rinunciarvi. Ovvio; ma sorprendente. Come se l’Adamo che è ciascuno di noi dicesse a Dio: «Siccome non sei ciò che vorrei tu fossi, allora sarà come se tu non fossi mai stato!». E Dio se ne esce dalla vita di Adamo, facendo uscire Adamo dalla propria, non prima di aver mosso verso di lui un ultimo gesto di gratuita passione: "non andartene in giro nudo, lascia che almeno ti copra!". Come una madre che dicesse: "Vai. Sii quel dio che vuoi essere. Ma cerca di non prenderti un raffreddore!".
Perché il noi c’è, e non può essere tolto.
 

Lo Spirito Santo principio di relazione

Lo sviluppo dell’io del bimbo a partire dal tu della mamma mi sembra il simbolo dolcissimo di ciò che è lo Spirito Santo. Ed in questo senso mi piace pensare alla maternità come ad un sacramento, perché simbolo reale dello Spirito. Si tratta di quel noi che è al principio del nostro essere ciò che siamo. Del mondo di Dio, la persona dello Spirito è la più enigmatica. E non a caso, per descriverla, si è dovuto ricorrere ad un universo di immagini mai utilizzate per gli altri attori del mistero trinitario, il Padre ed il Figlio.
Lo sviluppo dell’io è in realtà lo sviluppo di un noi in cui l’io ad un certo punto è messo in grado di dialogare con quel tu che fin dal principio era dentro di lui. L’io, nel procedere dello sviluppo, progredisce nella sua capacità di dialogo con quel tu; inizialmente si tratta del tu della mamma, ma poi anche dei molti tu che il bimbo incontra sul suo cammino: il papà, i fratelli, i nonni, gli amici e così via... Ma ciò significa che il noi non è mai tolto, e che lo sviluppo della personalità matura non equivale allo sviluppo di un io da intendersi come struttura psichica autonoma ed autosufficiente. La vita psichica ha una base intersoggettiva che si mantiene tale nel corso di tutta la vicenda umana di ognuno.
Il noi non è un principio individuale, appunto. La mamma ed il bambino sono un noi che fa emergere un io in grado di pronunciare ad un certo punto la parola "Tu!". Il noi della mamma e del bambino, dunque, è un noi tutto aperto alla promozione dell’identità, unica e irripetibile, del figlio. Ed infatti, per Adamo il percorso del desiderio, della pretesa, di ricondurre il tu all’io, cioè quasi di annullare l’identità dell’uno nell’altro, diviene in realtà peccato e perversione.
Ma il noi non è neppure soltanto relazione, nel senso arido e stretto del linguaggio logico o sistemico. La Teoria dei Sistemi suggerisce che la relazione non sia soltanto il semplice collegamento fra due unità, fra due principi, ma un’entità in se stessa. Su questo siamo d’accordo. Eppure questa entità relazionale non è una qualsiasi entità in sé, astratta ed impersonale. Se così fosse, lo Spirito Santo come semplice principio di relazione, non potrebbe essere "persona" esso stesso. Invece lo Spirito Santo, come il noi della mamma e del suo bambino, è principio di relazione, ma nella persona di un noi, appunto. Un soggetto attivo, dunque, capace di costruire un io talmente prodigioso da arrivare a permettersi di accogliere o di rifiutare quel tu che lo ha chiamato alla vita. Anche se mai e poi mai tale io potrà scindere il noi da cui esso stesso è emerso.
 

Amare o credere?

Nella vita siamo chiamati dunque a ritrovare quel tu di Dio che era dentro di noi, e ad entrare in relazione con lui. Una relazione via via sempre più libera e consapevole.
Questo potrebbe essere il compito dello Spirito Santo. Ma allo stesso tempo questo sembra costituire un vero problema per molti di noi. Sovente nella vita non riusciamo a pensare alla fede se non nei termini di un assenso intellettuale, ovvero ad una affermazione più o meno fondata, ad una convinzione più o meno profondamente sentita, dell’esistenza di Dio. In effetti, e ragionando in termini paradossali, le cose non potrebbero essere molto diverse se Dio fosse soltanto "il Padre", o soltanto "il Figlio", o l’uno e l’altro, ma senza "lo Spirito". Insomma: se Dio non fosse veramente Trinità non potremmo andare molto al di là dell’equivalenza secondo la quale credere in Dio significa credere che Dio esiste. Perché, in che misura potremmo essere legati ad un oggetto d’amore che né vediamo, né sentiamo, soltanto per il fatto di sapere che Egli ci ha creati, foss’anche per amore? Tutt’al più potremmo sentire riconoscenza, così come è giusto che sia per un anonimo benefattore.
Ma c’è questo noi dello Spirito Santo, che costituisce la relazione "dal di dentro" e suscita nel nostro ritrovare ciascuno la propria identità anche il ritrovamento dell’identità di Dio stesso. E così accade al bambino che, progredendo verso la maturità, può guardare alla propria madre con occhi differenti, con uno sguardo d’amore diverso. L’uomo adulto può dialogare con i propri genitori conoscendone i tratti della personalità, i sogni, le delusioni, le soddisfazioni e le sconfitte, le virtù e le debolezze. Nel suo divenire appunto "se stesso", con consapevolezza e libertà sempre maggiori, egli riesce a cogliere il volto più vero, autentico e profondo anche di coloro che da sempre ha amato e dai quali è stato amato. Lo sguardo d’amore fa crescere la conoscenza, e la conoscenza fa crescere l’amore. Ma l’una senza l’altro non porterebbero molti frutti. Questo mi sembra uno degli insegnamenti più importanti che i mistici hanno inteso lasciarci.
Dunque siamo immersi in una relazione, gli uni con gli altri, già prima del nostro primo respiro e fino al nostro ultimo giorno su questa terra. E questa relazione è il simbolo reale di un’altra relazione che, come la prima, ci precede e ci accompagna, prima dell’inizio e oltre la fine dei nostri giorni: quella con lo Spirito Santo. Eppure sappiamo che questa consapevolezza, per quanto grande possa essere, non converte la nostra esistenza, se non diventa un’esperienza viva. Perché a nessuno può bastare di sapere dell’amore. L’amore si deve sentire.
 

"Sentire" Dio

Vorrei raccontare molto brevemente un’esperienza che è stata all’origine di alcune riflessioni sul tema dell’amore di Dio, come affetto sentito e non soltanto come semplice fatto saputo.
Chi conosce un pochino come funziona il lavoro di accompagnamento psicologico che interessa la psicologia del profondo, sa che esso consiste in un lungo ed intenso cammino che la persona che vi si sottopone e lo psicoterapeuta che la accompagna percorrono insieme. La persona esplora il proprio vissuto: viaggia, passeggia, talora vaga, talora sosta, lungo le direttrici, ma pure i vicoli, le autostrade e i tornanti della propria vita. E lo psicoterapeuta è sempre lì, sovente taciturno, a farle compagnia. Una delle lamentele che spesso lo psicoterapeuta si sente rivolgere da parte della persona che segue, la quale evidentemente non è tenuta a conoscere la teoria della pratica psicoterapeutica, è che lui parli poco, troppo poco. Così talvolta sorge l’impressione che il suo compito sia soltanto passivo, di interlocutore fittizio, persona irreale, in fondo intercambiabile. Non è così. Quella psicoterapeutica è una vera relazione d’amore, anche per lo psicoterapeuta. C’è la libertà della persona da lui seguita, che si apre sempre di più, mostrandogli le pieghe più profonde e sovente nascoste della sua umanità; c’è la crescente intimità che i tempi lunghi e frequenti dei colloqui favoriscono; c’è l’atteggiamento "neutrale" dello psicoterapeuta che da taluni è detto "professionale", ma che io leggo nell’ottica cristiana di una accettazione incondizionata dell’altro, qualunque cosa abbia da dire di sé, e pure di me, quando il processo del transfert lo porta ad attribuirmi volti diversi e non necessariamente positivi. Tutti questi aspetti, ed altri ancora, gettano le basi di una condivisione del vissuto dell’altro sempre più profonda anche dal punto di vista affettivo, e non già in una prospettiva di semplice acquisizione di informazioni.
E qui vengono i fatti.
Mano a mano che progrediva il lavoro di accompagnamento con le persone mi accorgevo che, in alcuni colloqui, i miei sentimenti tendevano a mutare improvvisamente e quasi senza soluzione di continuità, così che mi era difficile concludere che ciò che sentivo fosse del tutto "mio". Infatti rabbia, tristezza, senso di vuoto... talora non erano miei, ma della persona che stava di fronte a me. Eppure li sentivo io! La persona con cui vivevo questa profonda relazione d’amore, com’è e come dovrebbe essere una relazione di accompagnamento, mi "trasmetteva" i propri sentimenti. Il fatto per me stupefacente fin dall’inizio era che, evidentemente, a questo stato di cose non si accompagnava alcuna affermazione da parte della persona, del tipo «Sono triste» oppure «Sono furibondo!». La conferma, invece, avveniva in qualche incontro successivo, quando la persona, magari rievocando il colloquio precedente, diceva: «Sa... quella volta avrei voluto piangere... ma non ho detto niente».
Affetto, rispetto, accoglienza: almeno nelle mie intenzioni erano la base di tutti i colloqui con ogni persona che seguivo. Eppure notavo che questa capacità di sentire i sentimenti dell’altro non era così netta con tutti allo stesso modo. Si produceva soprattutto con quelle persone in cui aspetti importanti del loro vissuto si sovrapponevano, analogicamente, con qualche aspetto importante del mio vissuto. La memoria di ciascuno di noi custodisce nel suo luogo più riposto piccole o grandi ferite, piccole o grandi gioie, che gelosamente custodiamo, ciascuna dotata di una originalità mai riproducibile in nessun’altro. Eppure, andando indietro nel tempo, molti dei nostri processi tendono ad una qualche somiglianza, perché, come notavo all’inizio, il corredo di bisogni fondamentali della persona umana alla sua nascita non è poi così smisuratamente vasto. E questi bisogni, queste domande, attraversano spesso tutta la nostra esistenza. Così, se da un lato i nostri progetti e le nostre scelte nella stagione adulta si caratterizzano per un numero assai elevato di variabili, dall’altro esse incrociano una, due, mille volte, pochi sentimenti fondamentali, che sono sempre gli stessi, che ci portiamo dentro fin da quando eravamo piccoli.
Sulle prime la tentazione ingenua di interpretare il fenomeno fu quasi quella di cogliere quale potesse essere il processo "fisico" alla base di questo scambio di sentimenti. Ovvero: come è possibile che passi qualcosa di tuo in me, quando il veicolo non è un fenomeno rilevabile dai sensi? Certo si potrebbe pensare che, ad esempio, tramite lo sguardo e poi attraverso la memoria vengano elaborate molte informazioni che non agiscono immediatamente al livello conscio. Ma allora sorgerebbe un’ulteriore domanda sul modo in cui il tuo sguardo diviene linguaggio non verbale di un messaggio che io leggo nello stesso modo in cui è stato scritto. Come è possibile?
In fondo, però, trattare l’interazione fra le persone secondo un modello preso dalla Fisica, o dalla Cibernetica, può essere utile, ma è riduttivo, perché lascia aperta una questione di fondo, appunto: come è possibile?
La realtà, semplicissima e stupefacente allo stesso tempo, la realtà che rende possibile tutto ciò, e perfino i suoi modelli interpretativi, è anzitutto, ancora una volta, quella della base intersoggettiva della vita psichica, ovvero: viviamo sempre in una relazione.
A partire da questa consapevolezza posso comunque cercare di mettere a fuoco quali siano i processi in atto. Ma il punto di partenza non è la risposta alla domanda sul "come" l’io giunge a "toccare" sensibilmente il tu. Il punto di partenza è che siamo già un noi e che dunque è sempre possibile una comunicazione fra l’io ed il tu, qualunque veicolo esso assuma, cognitivo o affettivo che sia.
E, ancora una volta, credo che tutto ciò che accade all’interno di quella relazione costitutiva che ciascuno di noi vive con gli altri, accada pure all’interno di quella relazione costitutiva che ciascuno di noi vive nel mistero di Dio, ad opera dello Spirito Santo.
L’analogia di un vissuto fra esseri umani, là dove si realizza fra loro una frequentazione, assidua, di ascolto profondissimo, realizza un fatto inedito in un rapporto: che io sento nel modo in cui senti tu. Che io sento ciò che tu senti. Che io sento te. Eppure questo non comporta alcuna spersonalizzazione, né di me, né di te. Io rimango io, e tu rimani tu. Ma il fatto nuovo segna anche il raggiungimento di una qualità diversa del rapporto.
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù...» dice s. Paolo. Ma come può esortarci a tanto? Come è possibile imporre a se stessi di avere dei sentimenti? Sappiamo che l’educazione delle nostre emozioni non può coincidere, ingenuamente, con un semplice volontarismo degli affetti. Non posso "volere di sentire". Allora?
L’analogia di un vissuto fra l’uomo e Cristo realizza la medesima comunione affettiva. Dunque è la condivisione di un’esperienza a realizzare tutto questo. Che la mia vita sia trascrizione, qui ed ora, del Vangelo di Gesù. Che la mia memoria si arricchisca sempre più di eventi in cui io, che non sono Gesù, ho agito facendo memoria di Lui. Come scrive Von Balthasar, il caso serio del cristianesimo, ovvero il cuore della sua stessa verità posta in essere, non è altro che la croce di Cristo, e compito del cristiano è vivere un amore che sia amore di croce, un amore capace di giungere al dono della vita. Soltanto in questo modo la mia vita diviene nuovo Vangelo.
E la vita cambia davvero. Come nei colloqui frequenti, assidui, con un altra persona a cui si vuole un bene libero ma profondissimo, nell’ascolto delle sue parole, io sento quella persona, così nell’ascolto della Sua Parola io sento nel modo in cui Lui sente; io sento ciò che Lui sente. E poi, non più soltanto nella preghiera o nell’ascolto della sua Parola: il "sentire Dio" esce da questi spazi e abbraccia gli altri sensi; diviene sguardo sul mondo, sugli altri e perfino su se stessi, che è sintonia di sguardo con Dio. Io sento Dio.
Il timore di uno scadimento nel sentimentalismo talora ha portato a costruire barriere o a guardare con sospettosità ciò che è affettivo nella vita spirituale. Mi pare un po’ eccessivo. Come può essere tolto il mondo dei sentimenti dalla nostra relazione con Dio? Si tratta piuttosto di trovarne l’autenticità. Ci può essere una verità anche nelle emozioni che proviamo. Tutto il linguaggio della Scrittura è attraversato dai simboli della passione, dei sensi... «gustate e vedete quanto è buono il Signore», come possiamo ignorarlo?
Ancora una volta sono i mistici ad avere compreso bene tutto questo. Lungi dal ritenere la mistica alla stregua di una spersonalizzazione, di una perdita della propria identità, di un annullare se stessi nel vasto mare della divinità, i mistici cristiani sono rimasti "persone" i cui tratti psicologici hanno assunto il più variegato insieme di caratteristiche. Compresa la patologia psichica. Talora si è sbagliato, a mio avviso, nel pretendere di discernere l’autenticità di un’esperienza mistica sulla base della maggiore o minore "normalità" della struttura psichica del soggetto. E perché mai? Uno schizofrenico non potrebbe essere mistico, e magari anche santo? Non potrebbe amare Dio di un amore profondissimo, nel solo modo in cui egli sa interagire con la realtà, del mondo e di Dio, che è quello schizofrenico? La presenza dell’azione dello Spirito in ciascuno di noi non annulla le mediazioni, comprese quelle che appartengono alle dinamiche della nostra personalità.
 

La "legge" dello Spirito

Queste considerazioni mi pare aiutino a dare un volto diverso anche alla cosiddetta legge morale. E’ ancora s. Paolo a chiamare "legge" del cristiano la legge dello Spirito. Questo mi pare, infatti, il secondo volto dello Spirito: lo Spirito Santo oltre ad essere principio di relazione è anche "legge".
Cosa vuol dire questo?
Probabilmente Adamo leggeva il comandamento di Dio come lo avrebbe letto un antesignano di Freud, individuando in esso una sorta di Super-io punitivo, che mirava a limitare la gratificazione dei suoi impulsi fondamentali. Ed ancora una volta l’Adamo che è in ciascuno di noi fa risuonare la tentazione di guardare al comandamento di Dio secondo questa prospettiva.
Invece la prospettiva del noi introdotta per comprendere il nostro intimo rapporto con lo Spirito, mostra che l’evoluzione di una relazione che anela all’amore mistico, per non cadere invece nella perversione narcisista deve seguire una legge nel suo sviluppo. Per il bimbo che vive nel suo necessario narcisismo primario, la garanzia di un corretto sviluppo verso un modo non narcisista di amare, è condizionata dall’attraversamento di alcuni passaggi. Questi hanno sovente nomi strani (rispecchiamento, idealizzazione, frustrazione ottimale, ecc...), ma formalmente si limitano ad indicare che lo sviluppo di una persona è un percorso difficile e accidentato, in cui nulla dovrebbe essere dato per scontato o lasciato al caso. Non si deve cioè ridurre lo sviluppo umano al semplice scorrere del tempo. Il tempo che passa di certo fa invecchiare, ma non necessariamente fa crescere. La vita interiore del bambino, la sua felicità futura, sono l’esito di una cura grandissima, perché grandissima è la sua fragilità, anche quando ormai egli ci appare grande, forte, autonomo, maturo.
Scopo dello sviluppo è il raggiungimento di un amore non narcisista; dunque lo sviluppo deve procedere nel modo in cui il necessario narcisismo primario viene elaborato e risolto. Scopo della legge, che è ancora lo Spirito, è di mostrare al cristiano la via dello sviluppo di una relazione matura con Dio: quella di una fede che giunge ad essere esperienza affettiva, non narcisista. E’ stupendo pensare che, a scanso di ogni possibile scadimento in un senso legalista del termine "legge", lo Spirito sia in realtà lo Spirito di Cristo e non una "regola". Così, ancora una volta, l’agire morale del cristiano ha senso nella misura in cui egli desidera fare della sua vita un nuovo Vangelo, memoria fedele e allo stesso tempo slancio creativo di quella personalità originale e irripetibile che è la sua. Affinché la relazione con Dio sia un’autentica esperienza d’amore, sentito, vissuto; non il rischio temerario di gettare le braccia a stringere un’ideale che, per quanto elevato ed affascinante, è pur sempre un progetto, un sogno, ma non una persona.
Invece lo Spirito Santo è persona, nel noi di un principio d’amore, che tutto opera affinché il nostro io sia quello di un soggetto libero, capace di dialogo, con gli altri e con Dio stesso. Ed è ugualmente persona nella legge dello sviluppo di questa relazione con Dio, perché questa legge è Cristo stesso, non un insieme di regole o di istruzioni, ma il volto umanissimo e sorprendente di Dio.

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