LO «SPIRITO» E LA
«PAROLA»
Rinaldo Fabris
Introduzione
Parola e scrittura ispirata
Spirito e parola nella creazione
Spirito e parola nella
«profezia»
Spirito e parola nell'incarnazione
Introduzione
Alla radice del rapporto tra «spirito» e
«parola» c'è l'esperienza fonetica.
Dall'emissione del soffio o alito attraverso la cavità
orale con l'articolazione della laringe, della lingua, dei denti
e delle labbra derivano i vari e molteplici suoni che stanno alla
base del linguaggio tra gli esseri umani. Perciò lo
spirito non è solo il segno della vita - alito o soffio
vitale - ma evoca il mondo della comunicazione simbolica propria
del genere umano. Poeti e profeti, artisti della parola ed
esperti della comunicazione, presso tutte le culture sono
considerati uomini ispirati, perché parlano o scrivono
sotto l'impulso dello spirito o di un'energia che potenzia la
capacità comune del linguaggio. Filone di Alessandria
parla di una «forza invisibile che scende dall'alto»
e di una «divina possessione» (De Migratione
35). Secondo il filosofo alessandrino l'estasi profetica fa
dell'uomo ispirato - i patriarchi, Mosè, i profeti e ogni
uomo giusto e sapiente - uno strumento di Dio. Nella descrizione
dell'estasi profetica Filone fa ricorso alla terminologia di
Platone, che parla di divina ispirazione - manìa -
che si impossessa dei poeti (Fedro 2444-245).
Nella tradizione ebraica e cristiana un insieme di scritti - 22
libri per gli ebrei, 73 libri per la chiesa cattolica - sono
considerati «ispirati». Che cosa vuol dire che un
libro o un testo è «ispirato»»? Questa
qualifica riguarda il suo autore oppure il prodotto finale?
Infatti si usa dire che un brano musicale oppure un testo poetico
è ispirato nel senso che suscita una forte emozione
estetica, è bello da sentire o da ascoltare. Lo stesso si
può dire di ogni opera d'arte. Qualcuno pensa che i libri
della Bibbia siano ispirati anche sotto questo aspetto estetico o
letterario.
C'è del vero in questa ipotesi, anche se nella tradizione
ebraica e cristiana si afferma che la Bibbia è ispirata
perché è scritta sotto l'influsso dello Spirito
santo. Che cosa significa «scritta sotto l'azione dello
Spirito santo» o Spirito di Dio? Questa idea rimanda al
rapporto che nella tradizione biblica si stabilisce tra lo
Spirito la Parola. Nella tradizione cristiana primitiva si dice
che tutti profeti hanno parlato a nome di Dio, sotto l'azione del
suo Spirito e che perciò gli scritti che conservano le
loro parole sono ispirati.
Parola e scrittura ispirata
All'inizio del secondo secolo un autore cristiano, a
nome dell'apostolo Pietro, scrive per incoraggiare i cristiani
che sono in crisi per il ritardo della venuta del Signore e del
giudizio di Dio. Egli innanzitutto si richiama alla testimonianza
degli apostoli che sono stati testimoni oculari della rivelazione
di Dio in Gesù Cristo suo Figlio. Questa testimonianza
conferma quella della parola dei profeti, «alla quale -
scrive l'autore della seconda Lettera di Pietro - fate bene a
volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in luogo oscuro,
finché non spunti il giorno e la stella del mattino si
levi nei vostri cuori». Poi prosegue dicendo:
«Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va
soggetta a privata spiegazione, poiché non da
volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da
Spirito santo - hypò pnèumatos agìou
pheròmenoi - parlarono quegli uomini da parte di
Dio» (2Pt 1,20-21). Qui in termini chiari ed espliciti si
palesa quella convinzione che sta alla base del riconoscimento e
dell'accoglienza dei testi sacri che formano la Bibbia. Essi sono
testi ispirati da Dio perché riportano e conservano le
parole dei profeti, cioè degli uomini che parlarono a nome
di Dio sotto l'impulso dello Spirito santo.
La stessa idea, formulata in altro modo, si trova in uno scritto
della tradizione di Paolo, nella seconda Lettera a Timoteo.
L'autore presenta Timoteo come fedele discepolo dell'apostolo
Paolo, dal quale ha appreso non solo il contenuto del Vangelo, ma
anche uno stile di vita coerente e coraggioso in mezzo alle
prove. Timoteo, figlio di una famiglia ebraica da parte di madre
- il papà invece è «greco» - è
diventato cristiano assieme alla nonna Lòide e alla madre
Eunìce in occasione del primo annuncio del Vangelo nella
sua città di Listra. Paolo quando ripassa per visitare
quella comunità cristiana lo invita ad accompagnarlo nella
sua missione itinerante in Grecia e Asia. Si comprende allora
l'invito che l'autore della lettera mette in bocca a Paolo quando
si rivolge al suo amico e collaboratore Timoteo: «Tu
però rimani saldi in quello che hai imparato e di cui sei
convinto, sapendo da chi l'hai appreso e che fin dall'infanzia
conosci la sacre Scritture: queste possono istruirti per la
salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Gesù
Cristo. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio -
theòpneustos - e utile per insegnare, convincere,
correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio
sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm
3,14-16).
In questo brano della seconda Lettera a Timoteo si afferma in
modo esplicito l'ispirazione di tutti libri sacri - le
«sacre Scritture» - che Timoteo ha ricevuto dalla
tradizione ebraica della sua famiglia. Perciò la sacra
Scrittura, letta e interpretata alla luce della fede in
Gesù Cristo, comunica quello che serve per arrivare alla
salvezza promessa da Dio. Infatti tutta la Bibbia, afferma
l'autore della seconda Lettera a Timoteo, è
«utile», ossia efficace per la vita di un credente -
l'«uomo di Dio» - di cui il pastore è il
prototipo. Nella Bibbia si trova quanto è indispensabile
per fare un cammino di maturazione nella fede - «insegnare,
convincere, correggere e formare alla giustizia» - e per
«ogni opera buona», cioè sostenere l'impegno
nel compiere la volontà di Dio concentrata nell'amore
verso il prossimo.
Dunque c'è un rapporto originario tra lo Spirito e la
Parola. Esso sta alla base dell'idea ebraica e cristiana
dell'ispirazione della Bibbia. Solo riscoprendo questo rapporto
che sta all'origine della sacra Scrittura come testo ispirato da
Dio si può comprendere anche in che senso la Bibbia
è «parola di Dio». D'altra parte questa
riscoperta o approfondimento del rapporto tra Spirito e Parola
può favorire una corretta lettura della Bibbia
«nello Spirito santo», come suggerisce il documento
conciliare sulla Divina rivelazione (DV 12).
Spirito e parola nella creazione
Lo «spirito» nella lingua ebraica
è un vocabolo femminile - ha rûach, che i
traduttori greci - versione greca detta dei
«Settanta» - renderanno per lo più con il
termine greco neutro pneûma, e i latini con il
maschile spiritus. In tutte questre tre lingue il vocabolo
significa anche «vento», «aria»,
«soffio» e «respiro». La
rûach l'energia che muove l'aria, è la forza
vitale che fa esistere gli esseri viventi. Da qui la sua
associazione con i simboli che evocano la forza che irrompe
all'improvviso e che non si può contenere, come l'uragano,
la tempesta, il fuoco e il torrente che straripa. Il profeta
Isaia accumula queste immagini per descrivere l'azione di Dio, il
suo intervento contro la potenza degli Assiri:
«Ecco il nome del Signore venire da lontano;
ardente è la sua ira e gravoso il suo divampare;
le sue labbra traboccano sdegno,
la sua lingua è come fuoco divorante.
Il suo soffio - in ebraico rûach -
è come un torrente che straripa, che giunge fino al
collo…
Il Signore farà udire la sua voce maestosa -
qôl è il tuono -
e mostrerà come colpisce il suo braccio
con ira ardente,
in mezzo a un fuoco divorante,
tra nembi, tempesta e grandine furiosa.
Poiché alla voce del Signore tremerà
l'Assiria,
quando sarà percossa con la verga»
(Is 30,27-28.30-31)
Nel testo isaiano il soffio di Dio - il suo rûach o
nishmàt - è associato alla sua
«voce» che annuncia il giudizio contro l'Assiria
(riferiemento all'invasione di Sennacherib che minaccia la
città di Gerusalemme). Le immagini del profeta Isaia
esprimono in modo efficace la forza dell'azione o dell'intervento
di Dio nella storia per liberare il suo popolo.
La stessa associazione tra soffio e parola di Dio è
presente nella teofania biblica dell'esodo. Nel canto del mare il
poeta celebra la potenza di Dio che travolge i carri del faraone
e il suo esercito e li fa sprofondare nell'abisso del mare.
«Al soffio - ebraico rûach - della tua ira
si accumularono le acque,
si alzarono le onde
come un argine,
si rappresero gli abissi
in fondo al mare».
Alla sfida del nemico che fa conto sulla sua forza militare per
inseguire e fermare i fuggiaschi ebrei attraverso il mare, si
contrappone l'azione irresistibile di Dio:
«Soffiasti con il tuo alito, in ebraico
rûach:
il mare li ricoprì,
sprofondarono come piombo
in acque profonde» (Es 15,8.10).
Questa lotta epica di Dio contro la potenza dell'Egitto
oppressore, fa da sfondo al primo racconto della creazione nel
libro della Genesi. Lo «Spirito di Dio» aleggia sulle
acque, mentre la terra è una massa informe e deserta e le
tenebre ricoprono l'abisso (Gen 1,2). In questo scenario
primodiale sono menzionati gli elementi costitutivi del cosmo:
terra, acqua e aria. Ma solo quest'ultimo, ha-rûach,
è posto in relazione con Dio. Nel seguito della
narrazione è la parola di Dio - wajjomer
'elohîm, «e Dio disse…» - ripetuto
dieci volte - che chiama all'esistenza «il cielo e la
terra» - tutta la realtà - e dispone in un ordine
splendido tutte le loro schiere. E' la parola di Dio che
costituisce l'essere umano creato a sua immagine e somiglianza
come suo delegato tra gli esseri viventi del cielo, della terra e
del mare per custodirli. Alla fine è ancora la parola
efficace di Dio che in forma di benedizione conferma questo ruolo
dell'essere umano al quale viene comunicato il potere di dare la
vita con il compito di riempire la terra.
In questa prospettiva teologica si colloca la rilettura poetica
del Salmo 33. Il salmista invita i giusti e i fedeli a dare lode
al Signore, a cantare un canto nuovo accompagnadosi con la cetra
e l'arpa a dieci corde. Secondo lo schema delle composizioni
inniche l'autore del Salmo dà questo motivo della lode a
Dio:
«Poiché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera…
Dalla parola - davàr - del Signore furono fatti i
cieli,
dal soffio - rûach - della sua bocca ogni loro
schiera.
Come in otre raccoglie le acque del mare
chiude in riserve gli abissi.
Tema il Signore tutta la terra
tremino davanti a lui gli abitanti del mondo,
perché egli parla e tutto è fatto,
comanda e tutto esiste» (Sal 33,4.6-9)
L'azione di Dio che fa esistere tutta con la forza della sua
parola coincide con quella del suo spirito che dà la vita
Nel Salmo 104 si celebra in formma innica l'azione creatrice di
Dio che si prolunga ora nel mondo dei viventi. Il Salmista dopo
aver passato in rassegna con stupore e riconoscenza le
«grandi opere» di Dio, fatte tutte con saggezza,
conclude dicendo:
«Tutti (i viventi) aspettano
che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
Tu lo provvedi ed essi lo raccolgono,
tu apri la tua mano, si saziano di beni.
Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro - rûach -, muiono
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito - rûach -, sono creati
e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,27-30)
Sullo sfondo del Salmo 104 sta il primo racconto della creazione,
dove si presenta la parola di Dio - la sua benedizione - che
rende fecondi tutti gli esseri viventi e fornisce ad essi il cibo
necessario. Nel secondo racconto, più arcaico e popolare,
Dio stesso plasma l'umo con la polvere del suolo e soffia nelle
sue narici un alito di vita - nishmàt hajjîm
- e l'uomo diventa un essere vivente, nèphesh
hajjâh (Gen 2,7).
A questa immagine dell'azione creatrice di Dio rimanda il profeta
Ezechiele che vive in mezzo ai deportati in Babilona. Dopo
l'illusione dei primi tempi di prigionia, quando essi speravano
che la città e il tempio di Gerusalemme sarebbero stati
risparmiati, subentra la crisi della sfuducia totale. Essi si
lamentano con profeta che li invita a sperare nell'intervento
liberatore di Dio: «Le nostra ossa sono inaridite, la
nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (Ez
37,11). Il profeta allora racconta ai deportati una parabola:
«La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi
portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era
piena di ossa; mi fece passare tutt'intorno accanto ad esse. Vidi
che erano in grandissima quantità sulla distesa della
valle e tutte inaridite».
A questo punto egli riferisce il suo dialogo con Dio che gli
chiede: «Figlio dell'uomo, potranno queste ossa
rivivere?». Il profeta risponde: «Signore Dio, tu lo
sai». Dio allora ordina al profeta: «Profetizza su
queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del
Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio
entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i
nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi
stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e
rivivrete: Saprete che io sono il Signore». Ezechiele
profetizza come gli ha ordinato il Signore e mentre profetizza
sente un rumore e vede un movimento fra le ossa, che si accostano
l'uno all'altro, ciascuno al suo corrispondente. Egli guarda con
stupore ed ecco sopra le ossa vede i nervi, la carne che cresce e
la pelle che le ricopre. Ma si rende conto che purtroppo
«non c'è spirito in loro». Per la seconda
volta Dio gli ordina: «Profetizza allo spirito, profetizza
figlio dell'uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio:
Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti,
perché rivivano». Il profeta esegue l'ordine di Dio:
«Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito
entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in
piedi: erano un esercito grande e sterminato» (Ez
37,1-10).
In questa singolare drammatizzazione del profeta Ezechiele,
immortalata sulle pareti affrescate della Sinagoga di Dura
Europos sull'Eufrate - attualmente conservata in una sala del
Museo dell'Antichità di Damasco - l'azione sovrana di Dio,
creatore e Signore della vita, si esprime nell'intreccio
indissolubile tra parola e spirito. La parola di Dio, di cui si
fa portavoce il profeta, diventa efficace per mezzo del suo
spirito. Infatti lo spirito - rûach - di Dio viene
chiamato dalla parola del profeta: «Spirito, vieni dai
quattro venti e soffia su questi morti!». Si tratta dello
spirito della creazione o cosmico che viene dai quattro punti
cardinali. E' lo stesso Spirito del Signore che si poserà
sul discendente di Davide, il germoglio che spunta dal tronco di
Iesse, perché possa attuare il regno di giustizia e di
pace (Is 11,1-2).
Spirito e parola nella «profezia»
Ezechiele nella sua esperienza profetica vive in
prima persona ed rende esplicita l'intima connessione tra spirito
e parola. Dopo la prima esperienza di incontro con Dio nello
scenario della sua gloria sulle rive del canale Chebàr -
Dio gli appare in un uragano, in una grande nube e in turbinio di
fuoco su un carro di fuoco portato da quattro esseri viventi -
egli cade con la faccia a terra mentre ode la voce di uno che gli
dice: «Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare».
A queste parole, racconta Ezechiele, uno spirito entrò in
me e mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi
parlava» (Ez 2,1-2). Questa esperienza dello spirito -
identificato con la «mano» o l'azione del Signore -
si ripete tutte le volte che al profeta viene rinnovato
l'incarico di parlare a nome di Dio. Lo spirito lo solleva e lo
porta tra gli esiliati (Ez 3,12.14.22; cfr. 8,1-3: «uno
spirito mi sollevò fra cielo e terra…»; 11,1:
«uno spirito mi sollevò e mi trasportò alla
porta orientale del tempio…», a Geruslemme; 11,5:
«lo spirito del Signore venne su di me e mi
disse…»).
L'esperienza dello «spirito» in Ezechiele è
posta in parallelismo con la «parola del Signore» che
gli viene rivolta oppure con la «mano del Signore»
che si posa su di lui. Questa esperienza rimanda a quella dei
primi profeti Elia ed Eliseo, che agiscono sotto l'azione di Dio
o del suo Spirito (cfr. 1Re 18,46; 2Re 2,1-18; 3,15). Ma sullo
sfondo sta l'esperienza di Mosè, che in alcuni testi
biblici viene presentato secondo il modello del profeta che parla
a nome e con l'autorità di Dio. Per farsi aiutare nella
guida dei figli di Israele durante il cammino del deserto egli,
su ordine del Signore, sceglie settanta anziani del popolo
stimati come scribi. Essi devono presentarsi alla tenda del
convegno per essere investiti del loro compito. Dio infatti
promette di comunicare ad essi lo spirito che è su
Mosè perché portino con lui il carico del popolo.
Mosè raduna settanta uomini tra gli anziani del popolo e
li pone intorno alla tenda del convegno. Allora il Signore scende
nella nube e gli parla. Poi prende lo spirito che è su di
lui e lo infonde sui settanta anziani. Il racconto biblico
prosegue così: «Quando lo spirito si fu posato su di
essi, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in
seguito».
Ma l'azione dello spirito si manifesta anche al di fuori
dell'istituzione e del controllo umano. Infatti due uomini, uno
chiamato Eldad e l'altro Medad, pur essendo fra i convocati da
Mosè non si presentano alla tenda del convegno, ma restano
nell'accampamento. Tuttavia lo spirito si posa su di essi e si
mettono a profetizzare nell'accampamento. A questo punto un
giovane si preoccupa far sapere la cosa a Mosè. Il suo
aiutante e collaboratore di fiducia, Giosuè, gli dice:
«Mosè, signor mio, impediscili!». Mosè,
il profeta dell'esodo che a contatto con Dio ha imparato ad
essere magnanimo, gli risponde: «Sei tu geloso per me?
Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore
dare loro il suo spirito!» (Nm 11,29-30).
Questo sogno di Mosé si realizza con l'effusione dello
Spirito santo sui discepoli di Gesù nel festa ebraica del
«cinquantesimo giorno» dalla Pasqua, chiamata in
greco pentekostê. L'autore degli Atti, che
ricostruisce questa esperienza che sta all'origine della chiesa,
per esprimere l'azione dello Spirito fa ricorso ai simboli
tradizionali del turbine di vento e del fuoco. Infatti la
rivelazione di Dio al monte Sinai, secondo l'autore della Lettera
agli Ebrei è caratterizzata dalla tempesta e dal fuoco
ardente (Eb 12,18). E' da ricordare che a partire dal primo
secolo a.C. a Pentecoste, negli ambienti sacerdotali di
Gerusalemme, si festeggia il dono della legge al Sinai. Nella
rilettura cristiana di questo evento lo Spirito è la legge
interiore della nuova alleanza, quella promessa da Dio per mezzo
dei profeti Geremia ed Ezechiele. L'autore degli Atti attira
l'attenzione sulle lingue di fuoco che richiamano il guizzare dei
lampi nella tempesta (Sal 104,4). Esse si dividono e si posano su
ciascuno dei presenti. L'effetto dell'azione di Dio, che si
manifesta con questi simboli cosmici, è una nuova
capacità di comunicare. Infatti quelli che sono investiti
dallo Spirito di Dio incominciano a parlare in altre lingue.
Di questo fatto si rendono conto i Giudei che abitano a
Gerusalemme. Infatti attorno a luogo dove sono riuniti quelli che
hanno ricevuto lo Spirito santo si raduna una folla composita,
formata dai Giudei provenienti dalle diverse regioni e che per
motivi religiosi hanno scelto di stabilirsi nella città
santa di Gerusalemme. Questi Giudei cosmopoliti, attirati dal
fragore della tempesta di vento e fuoco, accorrono e sono
sconvolti perché - dice il testo lucano - «ciascuno
li sentiva parlare la propria lingua, te-i idìa-i
diàlekto-i laloùnton autôn»(At
2,6). Luca insiste su questo sconcerto della folla dei Giudei
osservanti, sottolineandone la reazione emotiva mediante il
discorso diretto: «Erano fuori di sè e pieni stupore
dicevano: "Costoro che parlano non sono tutti Galilei? E
com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua
nativa"» (At 2,8). Nel discorso diretto di questi Giudei
della diaspora, residenti a Gerusalemme, si riporta un elenco di
popoli e di regioni che in ordine geografico, per chi si colloca
nell'area mediterranea, va da oriente a occidente: «siamo
Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea,
della Cappadocia e del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della
Panfilia, dell'Egitto e delle regioni della Libia
vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e
Arabi, li udiamo parlare nelle nostre lingue, tàis
hemetèrais glôssais le grandi opere di Dio,
tà megalêia toù Theoù"»
(At 2,9-11). Il discorso lucano dei Giudei rappresentanti delle
diverse popolazioni dell'impero romano si chiude con un'ulteriore
sottolineatura della loro
reazione: «Tutti erano fuori di sé e perplessi,
chiedendosi l'un l'altro: "Che significa questo?"» (At
2,12). Ma l'autore degli Atti segnala anche un'altra impressione
dei presenti all'evento di Pentecoste: «Altri invece li
deridevano e dicevano: "Si sono ubriacati di vino dolce"»
(At 2,14).
Pietro, che prende la parola a nome degli altri undici discepoli
di Gesù, risponde a questa insinuazione dicendo che essi
non sono affatto ubriachi perché sono appena le nove del
mattino. Essi, nel rispetto della tradizione ebraica, non hanno
preso nulla prima del sacrificio quotidiano dell'agnello nel
tempio di Gerusalemme. Invece il fenomeno del parlare in lingue
corrisponde alla promessa fatta da Dio e annunciata dal profeta
Gioele per il tempo messianico: «Io effonderò il mio
Spirito sopra ogni persona: i vostri figli e le vostre figlie
profeteranno… e anche sui miei servi e sulle mie serve in
quei giorni effonderò il mio spirito ed essi
profeteranno» (At 2,17.18; cfr. Gl 5,3-5; Nm 11,29).
Il termine «profetare», prophetèuein,
adoperato dall'autore degli Atti corrisponde al linguaggio
biblico, dove con questo lessico si designa l'esperienza del
parlare sotto l'impulso dello Spirito di Dio. Un esempio di
parola profetica è lo stesso discorso di Pietro. Egli si
rivolge ai Giudei per far riconoscere ad essi l'azione di Dio che
ha risuscitato Gesù di Nazaret. Gli uomini lo hanno
condannato a morte, ma Dio lo ha risuscitato e lo ha costituito
Cristo e Signore. Con la forza dello Spirito santo, donato da
Gesù, il Signore risorto che siede alla destra di Dio,
Pîetro e gli altri discepoli sono resi suoi testimoni
davanti a tutti fino agli estremi confini della terra. In breve
il dono dello Spirito santo a Pentecoste fonda e legittima la
proclamazione del Vangelo nelle lingue e culture dei popoli.
Non solo i discepoli storici di Gesù, i suoi apostoli, ma
potenzialmente tutti i credenti sono abilitati, mediante il dono
dello Spirito santo, ad essere profeti, cioè a proclamare
con fiducia e libertà le «grandi opere di Dio»
che culminano nella risurrezione di Gesù Cristo dai morti
e la sua intronizzazione celeste. Infatti i cristiani di Samaria
evangelizzati a Filippo, ricevono lo Spirito santo per
l'imposizione della mani da parte di Pietro e Giovanni At 8,17).
Anche a Cesarea nella casa di Cornelio lo Spirito discende su
quelli che ivi sono riuniti - i suoi familiari e amici - per
ascoltare la parola di Pietro (At 10,44). In questo caso si
ripete l'esperienza di Pentecoste perché i pagani che
hanno ricevuto lo Spirito si mettono a «parlare in lingue e
a glorificare Dio» (At 10,46). Lo stesso avviene a Efeso,
dove Paolo battezza nel nome di Gesù un gruppo di dodici
seguaci di Giovanni e impone loro le mani. Anche su di essi
scende lo Spirito santo e incominciano a «parlare in lingue
e a profetare» (At 19,6).
Per l'autore degli Atti il parlare in lingue e il profetare non
è solo l'annuncio del Vangelo fatto dai testimoni di
Gesù, ma è il segno visibile dell'azione interiore
dello Spirito santo. E' un'esperienza di carattere estatico che
si esprime nella preghiera di lode a Dio. Di questo fenomeno si
fa interprete Paolo di Tarso nelle sue lettere, in particolare
nella prima Lettera ai Corinzi. Qui appare in modo esplicito e
complesso il rapporto che intercorre tra Spirito e Parola,
perché Paolo descrive in modo dettagliato il fenomeno
della comunicazione carismatica sotto l'impulso dello Spirito.
Innanzi tutto egli precisa che l'azione dello «Spirito di
Dio» o «Spirito santo» si manifesta nel
contesto della fede cristologica. Egli afferma che solo grazie
all'azione dello Spirito santo si può proclamare che
«Gesù è Signore» (1Cor 12,3). Quindi
presenta un elenco dei molteplici e diversi doni spirituali,
chiamati anche carismi, che risalgono all'iniziativa dell'unico
Spirito. Tra questi egli menziona in primo luogo il
«linguaggio di sapienza», lògos tês
sophìas, e il «linguaggio di conoscenza»,
lògos tês gnôseos. Paolo parla degli
altri doni di carattere operativo e conclude elencando il dono
della «profezia» - prophetèia - il
discernimento degli spiriti, la glossolalia - gène
glossôn - e il dono di interpretare le lingue (1Cor
12,8.10; cfr. 12,29-30; 13,1-2.8-9).
Dopo aver indicato nell'agàpe la via emininente
che dà volore a tutti gli altri carismi, prosegue dando i
criteri per valutare l'uso pratico dei carismi della parola
nell'assemblea comunitaria. L'apostolo dà la preferenza
alla profezia, perché questa rende possibile la
comunicazione tra le persone e quindi aiuta la cominità a
crescere. Mentre chi ha il dono delle lingue o il glossolalo
«non parla agli uomini, ma a Dio, giacché nessuno
comprende mentre egli dice per ispirazione,
pneûmati, cose misteriose. Chi profetizza invece
parla agli uomini per la loro edificazione, esortazione e
conforto. Chi parla con le lingue - il glossolalo - edifica se
stesso, chi profetizza edifica l'assemblea. Vorrei vedervi tutti
parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il
dono delle profezia; in realtà è più grande
colui che profetizza di colui che parla con il dono delle lingue,
a meno che egli anche non interpreti, perché l'assemblea
ne riceva edificazione» (1Cor 14,2-4). Anche in questo caso
Paolo fa riferimento al criterio dell'agàpe che non
cerca il proprio interesse, ma il bene degli altri. Perciò
la profezia che favorisce la crescita della comunità
è da preferirsi.
Egli conferma questa valutazione con due esempi concreti, uno
riferito alla preghiera carismatica comunitaria e l'altro
all'annuncio della parola di Dio ai pagani. L'assemblea che
partecipa ad una preghiera di benedizione fatta sotto l'impulso
dello Spirito, ma formulata in termini incomprensibili, non
può rispondere alla fine con l'Amen. Parimenti se un
pagano entra nell'assmblea carismatica dove tutti parlano in modo
incomprensibile, può avere l'impressione di essere
capitato in una riunione di pazzi. Se invece nell'assemblea si
parla con il dono della profezia il pagano presente, convinto del
suo errore, riconoscerà che in mezzo ad essa è
presente Dio mediante il suo Spirito (1Cro 14,13-25).
In breve per Paolo di Tarso l'esperienza cristiana è
caratterizzata dal dono dello Spirio santo comunicato da
Gesù, il Signore risorto. L'azione dello Spirito santo si
manifesta nei diversi doni spirituali o carismi. Tra questi vi
sono anche i carismi del linguaggio ispirato, molto apprezzati
tra cristiani di Corinto. Paolo li invita a metterli in rapporto
con il carisma dell'amore che sta alla base dei rapporti
ecclesiali. Egli ricorda anche che tra i doni suscitati dallo
Spirito di Dio non possono possono mancare quelli della parola
che stanno alla base della vita della comunità cristiana,
cioè il ministero dell'apostolo, del profeta e del maestro
(1Cor 12,28; cfr. Ef 4,11).
Un esempio di carisma profetico che sta sotto l'azione dello
Spirito di Dio è l'Apocalisse, una lettera inviata alle
chiese dell'Asia per incoraggiarle alla resistenza fino al
martirio nei confronti del potere idolatrico. Il profeta
«Giovanni» presenta la sua opera come
«rivelazione di Gesù Cristo», che risale
all'iniziativa di Dio, ma anche come «parola di Dio»
e «testimonianza di Gesù Cristo» (Ap 1,1-2).
Verso la fine dell'Apocalisse egli mette in bocca all'angelo
interprete questa dichiarazione: «La testimonianza di
Gesù Cristo è lo spirito di profezia» (Ap
19,10). Nell'epilogo, a chiusura di tutto il libro, l'angelo
dice: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il
Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare
ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco,
verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di
questo libro» (Ap 22,6-7).
Il profeta relegato nell'isola di Patmos a causa della parola di
Dio e della testimonianza resa a Gesù, sotto l'impulso
della spirito, èn pneûmati, riceve dal Cristo
risorto l'incarico di scrivere alle sette chiese dell'Asia.
Ognuna delle sette lettere inviate alle diverse chiese nel nome
di Gesù Cristo si chiude con questo invito: «Chi ha
orecchi, ascolti ciò che lo Spirio dice alle chiese»
(Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). L'appello a verificare la propria
fedeltà al Cristo risorto si chiude con la promessa di
partecipare alla sua vittoria sul male e sulla morte. Ancora
sotto l'impulso dello Spirito il profeta Giovanni ha la visione
che dà avvio alla sua lettura degli eventi che precedono
il giudizio di Dio (Ap 4,2). In altri termini è lo Spirito
che rende possibile la parola profetica comunicata a voce o per
iscritto alle chiese come parola di Dio.
Spirito e parola nell'incarnazione
L'intimo legame che l'autore
dell'Apocalisse vede tra Spirito e Parola è un invito ad
ampliare la ricerca nell'ambito della tradizione giovannea. Nella
prima lettera lo Spirito santo come dono interiore fatto ai
credenti, coincide con la parola di Dio, la testimonianza, il
messaggio del vangelo, il comandamento nuovo, assimilato al germe
divino e all'unzione interiore (1Gv 2,24.27; 3,9.24; 4,13;
5,10).
Nel Quarto Vangelo lo Spirito santo, che scende e rimane su
Gesù al momento del Battesimo, lo manifesta a Giovanno il
battezzatore e testimone come l'«Agnello di Dio che toglie
il peccato del mondo» e il «Figlio di Dio» che
battezza nello Spirito santo. Egli infatti viene dal cielo, da
Dio, e come suo inviato «proferisce le parole di Dio e
dà lo Spirito senza misura, perché il Padre lo ama
come Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,34-35).
Perciò Gesù alla donna di Samaria può
promettere il dono dell'acqua viva che zampilla fino alla vita
eterna. Quest'acqua interiore che disseta coincide con lo Spirito
e la verità. Infatti lo Spirito nella tradizione profetica
e sapienziale è assimilato all'acqua che purifica e
dà la vita. A sua volta la verità è la
parola del Padre che Gesù comunica nella sua missione
storica al punto che egli può dire «io sono la
verità» (Gv 14,6; 17,17).
Sulla base di questa equivalenza tra Spirito, parola e
verità si può cogliere il significato profondo del
dibattito che segue il dono del pane sulla rive del lago di
Galilea nella sinagoga di Cafarnao. Gesù si autopresenta
come il pane disceso dal cielo che dà la vita al mondo.
Questo pane coincide con il dono della sua umanità
consegnata alla morte per la vita del mondo. La condizione per
partecipare a questa vita è di mangiare la carne e bere il
sangue del Figlio dell'uomo. Alla crisi dei discepoli che
rifiutano le sue parole egli pone questa domanda: «Questo
discorso vi sandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire
là dov'era prima. E' lo Spirito che dà la vita, la
carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono Spirito e
vita» (Gv 6,62-63). Questa endiade, come quella precedente
sullo Spirito e verità, significa che lo Spirito è
la fonte della vita, non la carne, cioè la semplice
condizione umana e mortale di Gesù. Ma propria attraverso
la sua morte egli diventa fonte dello Spirito, perché dal
suo fianco aperto esce «sangue e acqua», cioè
lo Spirito che dona la vita (Gv 19,34). In questa prospettiva
è perfettamente coerente la scelta che fa Simon Pietro a
nome dei dodici. Alla domanda di Gesù: «Forse anche
voi volete andarvene?», Pietro risponde: «Signore, da
chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto
e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69).
Gesù in quanto Cristo - consacrato e inviato nel mondo - e
Figlio di Dio non solo rivela il volto di Dio, ma con il dono
dello Spirito santo comunica ai credenti la vita piena e
definitiva.
Il tema dello Spirito santo che è parola di verità
viene ripreso da Gesù nel discorso di addio nel quale egli
interpreta la sua morte come uscita dal mondo per tornare al
Padre. In tale contesto Gesù promette di inviare ai
discepoli il Paraclito lo Spirito santo che è lo Spirito
di verità, perché «egli vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho
detto» (Gv 14,26). Lo Spirito santo, chiamato Paraclito,
cioè «consolatore»,
«intercessore» o «difensore»,
renderà testimonianza a Gesù e abiliterà i
suoi discepoli a rendergli testimonianza (Gv 15,26-27). Infatti i
discepoli prima della partenza di Gesù, che rende
possibile il dono dello Spirito santo, non sono in grado di
accogliere - «portare il peso» delle sue parole, dice
il testo giovanneo - il suo messaggio. «Quando però
verrà lo Spirito di verità - dice Gesù -
egli vi guiderà alla verità tutta intera,
perché non parlerà da sé, ma dirà
tutto ciò che ha udito a vi annunzierà le cose
future» (Gv 16,13).
In queste parole di Gesù sullo «Spirito di
verità» il rapporto tra Spirito e Parola raggiunge
il suo apice. Lo Spirito promesso da Gesù attinge alla
stessa realtà di Dio, che è Spirito. A sua volta la
verità è Gesù stesso come parola di Dio per
mezzo della quale tutto è stato fatto e che prende dimora
nella carne di Gesù. Egli è la verità.
Pertanto lo «Spirito di verità» è la
piena e definitiva autocomunicazione di Dio, resa possibile per
mezzo dell'umanità di Gesù, il Cristo e il Figlio
di Dio. E' la parola dell'amore portato alla massima
manifestazione nell'autodonazione di Gesù. Quanti lo
riconoscono e accolgono come la parola di Dio che illumina ogni
essere umano, possono contemplare la sua gloria di Figlio
unigenito del Padre e ricevere il dono della vita piena e
definitiva che trabocca dalla sua pienezza di «grazia e
verità» (Gv 1,14).

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