LO «SPIRITO» E LA «PAROLA»
Rinaldo Fabris


Introduzione
Parola e scrittura ispirata
Spirito e parola nella creazione
Spirito e parola nella «profezia»
Spirito e parola nell'incarnazione


Introduzione

Alla radice del rapporto tra «spirito» e «parola» c'è l'esperienza fonetica. Dall'emissione del soffio o alito attraverso la cavità orale con l'articolazione della laringe, della lingua, dei denti e delle labbra derivano i vari e molteplici suoni che stanno alla base del linguaggio tra gli esseri umani. Perciò lo spirito non è solo il segno della vita - alito o soffio vitale - ma evoca il mondo della comunicazione simbolica propria del genere umano. Poeti e profeti, artisti della parola ed esperti della comunicazione, presso tutte le culture sono considerati uomini ispirati, perché parlano o scrivono sotto l'impulso dello spirito o di un'energia che potenzia la capacità comune del linguaggio. Filone di Alessandria parla di una «forza invisibile che scende dall'alto» e di una «divina possessione» (De Migratione 35). Secondo il filosofo alessandrino l'estasi profetica fa dell'uomo ispirato - i patriarchi, Mosè, i profeti e ogni uomo giusto e sapiente - uno strumento di Dio. Nella descrizione dell'estasi profetica Filone fa ricorso alla terminologia di Platone, che parla di divina ispirazione - manìa - che si impossessa dei poeti (Fedro 2444-245).
Nella tradizione ebraica e cristiana un insieme di scritti - 22 libri per gli ebrei, 73 libri per la chiesa cattolica - sono considerati «ispirati». Che cosa vuol dire che un libro o un testo è «ispirato»»? Questa qualifica riguarda il suo autore oppure il prodotto finale? Infatti si usa dire che un brano musicale oppure un testo poetico è ispirato nel senso che suscita una forte emozione estetica, è bello da sentire o da ascoltare. Lo stesso si può dire di ogni opera d'arte. Qualcuno pensa che i libri della Bibbia siano ispirati anche sotto questo aspetto estetico o letterario.
C'è del vero in questa ipotesi, anche se nella tradizione ebraica e cristiana si afferma che la Bibbia è ispirata perché è scritta sotto l'influsso dello Spirito santo. Che cosa significa «scritta sotto l'azione dello Spirito santo» o Spirito di Dio? Questa idea rimanda al rapporto che nella tradizione biblica si stabilisce tra lo Spirito la Parola. Nella tradizione cristiana primitiva si dice che tutti profeti hanno parlato a nome di Dio, sotto l'azione del suo Spirito e che perciò gli scritti che conservano le loro parole sono ispirati.
 

Parola e scrittura ispirata

All'inizio del secondo secolo un autore cristiano, a nome dell'apostolo Pietro, scrive per incoraggiare i cristiani che sono in crisi per il ritardo della venuta del Signore e del giudizio di Dio. Egli innanzitutto si richiama alla testimonianza degli apostoli che sono stati testimoni oculari della rivelazione di Dio in Gesù Cristo suo Figlio. Questa testimonianza conferma quella della parola dei profeti, «alla quale - scrive l'autore della seconda Lettera di Pietro - fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori». Poi prosegue dicendo: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito santo - hypò pnèumatos agìou pheròmenoi - parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2Pt 1,20-21). Qui in termini chiari ed espliciti si palesa quella convinzione che sta alla base del riconoscimento e dell'accoglienza dei testi sacri che formano la Bibbia. Essi sono testi ispirati da Dio perché riportano e conservano le parole dei profeti, cioè degli uomini che parlarono a nome di Dio sotto l'impulso dello Spirito santo.
La stessa idea, formulata in altro modo, si trova in uno scritto della tradizione di Paolo, nella seconda Lettera a Timoteo. L'autore presenta Timoteo come fedele discepolo dell'apostolo Paolo, dal quale ha appreso non solo il contenuto del Vangelo, ma anche uno stile di vita coerente e coraggioso in mezzo alle prove. Timoteo, figlio di una famiglia ebraica da parte di madre - il papà invece è «greco» - è diventato cristiano assieme alla nonna Lòide e alla madre Eunìce in occasione del primo annuncio del Vangelo nella sua città di Listra. Paolo quando ripassa per visitare quella comunità cristiana lo invita ad accompagnarlo nella sua missione itinerante in Grecia e Asia. Si comprende allora l'invito che l'autore della lettera mette in bocca a Paolo quando si rivolge al suo amico e collaboratore Timoteo: «Tu però rimani saldi in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso e che fin dall'infanzia conosci la sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Gesù Cristo. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio - theòpneustos - e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,14-16).
In questo brano della seconda Lettera a Timoteo si afferma in modo esplicito l'ispirazione di tutti libri sacri - le «sacre Scritture» - che Timoteo ha ricevuto dalla tradizione ebraica della sua famiglia. Perciò la sacra Scrittura, letta e interpretata alla luce della fede in Gesù Cristo, comunica quello che serve per arrivare alla salvezza promessa da Dio. Infatti tutta la Bibbia, afferma l'autore della seconda Lettera a Timoteo, è «utile», ossia efficace per la vita di un credente - l'«uomo di Dio» - di cui il pastore è il prototipo. Nella Bibbia si trova quanto è indispensabile per fare un cammino di maturazione nella fede - «insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia» - e per «ogni opera buona», cioè sostenere l'impegno nel compiere la volontà di Dio concentrata nell'amore verso il prossimo.
Dunque c'è un rapporto originario tra lo Spirito e la Parola. Esso sta alla base dell'idea ebraica e cristiana dell'ispirazione della Bibbia. Solo riscoprendo questo rapporto che sta all'origine della sacra Scrittura come testo ispirato da Dio si può comprendere anche in che senso la Bibbia è «parola di Dio». D'altra parte questa riscoperta o approfondimento del rapporto tra Spirito e Parola può favorire una corretta lettura della Bibbia «nello Spirito santo», come suggerisce il documento conciliare sulla Divina rivelazione (DV 12).
 

Spirito e parola nella creazione

Lo «spirito» nella lingua ebraica è un vocabolo femminile - ha rûach, che i traduttori greci - versione greca detta dei «Settanta» - renderanno per lo più con il termine greco neutro pneûma, e i latini con il maschile spiritus. In tutte questre tre lingue il vocabolo significa anche «vento», «aria», «soffio» e «respiro». La rûach l'energia che muove l'aria, è la forza vitale che fa esistere gli esseri viventi. Da qui la sua associazione con i simboli che evocano la forza che irrompe all'improvviso e che non si può contenere, come l'uragano, la tempesta, il fuoco e il torrente che straripa. Il profeta Isaia accumula queste immagini per descrivere l'azione di Dio, il suo intervento contro la potenza degli Assiri:
 

«Ecco il nome del Signore venire da lontano;
ardente è la sua ira e gravoso il suo divampare;
le sue labbra traboccano sdegno,
la sua lingua è come fuoco divorante.
Il suo soffio - in ebraico
rûach -
è come un torrente che straripa, che giunge fino al collo…
Il Signore farà udire la sua voce maestosa -
qôl è il tuono -
e mostrerà come colpisce il suo braccio
con ira ardente,
in mezzo a un fuoco divorante,
tra nembi, tempesta e grandine furiosa.
Poiché alla voce del Signore tremerà l'Assiria,
quando sarà percossa con la verga»
(Is 30,27-28.30-31)
 

Nel testo isaiano il soffio di Dio - il suo rûach o nishmàt - è associato alla sua «voce» che annuncia il giudizio contro l'Assiria (riferiemento all'invasione di Sennacherib che minaccia la città di Gerusalemme). Le immagini del profeta Isaia esprimono in modo efficace la forza dell'azione o dell'intervento di Dio nella storia per liberare il suo popolo.
La stessa associazione tra soffio e parola di Dio è presente nella teofania biblica dell'esodo. Nel canto del mare il poeta celebra la potenza di Dio che travolge i carri del faraone e il suo esercito e li fa sprofondare nell'abisso del mare.

«Al soffio - ebraico rûach - della tua ira
si accumularono le acque,
si alzarono le onde
come un argine,
si rappresero gli abissi
in fondo al mare».

Alla sfida del nemico che fa conto sulla sua forza militare per inseguire e fermare i fuggiaschi ebrei attraverso il mare, si contrappone l'azione irresistibile di Dio:

«Soffiasti con il tuo alito, in ebraico rûach:
il mare li ricoprì,
sprofondarono come piombo
in acque profonde» (Es 15,8.10).
 

Questa lotta epica di Dio contro la potenza dell'Egitto oppressore, fa da sfondo al primo racconto della creazione nel libro della Genesi. Lo «Spirito di Dio» aleggia sulle acque, mentre la terra è una massa informe e deserta e le tenebre ricoprono l'abisso (Gen 1,2). In questo scenario primodiale sono menzionati gli elementi costitutivi del cosmo: terra, acqua e aria. Ma solo quest'ultimo, ha-rûach, è posto in relazione con Dio. Nel seguito della narrazione è la parola di Dio - wajjomer 'elohîm, «e Dio disse…» - ripetuto dieci volte - che chiama all'esistenza «il cielo e la terra» - tutta la realtà - e dispone in un ordine splendido tutte le loro schiere. E' la parola di Dio che costituisce l'essere umano creato a sua immagine e somiglianza come suo delegato tra gli esseri viventi del cielo, della terra e del mare per custodirli. Alla fine è ancora la parola efficace di Dio che in forma di benedizione conferma questo ruolo dell'essere umano al quale viene comunicato il potere di dare la vita con il compito di riempire la terra.
In questa prospettiva teologica si colloca la rilettura poetica del Salmo 33. Il salmista invita i giusti e i fedeli a dare lode al Signore, a cantare un canto nuovo accompagnadosi con la cetra e l'arpa a dieci corde. Secondo lo schema delle composizioni inniche l'autore del Salmo dà questo motivo della lode a Dio:
 

«Poiché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera…
Dalla parola -
davàr - del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio -
rûach - della sua bocca ogni loro schiera.
Come in otre raccoglie le acque del mare
chiude in riserve gli abissi.
Tema il Signore tutta la terra
tremino davanti a lui gli abitanti del mondo,
perché egli parla e tutto è fatto,
comanda e tutto esiste» (Sal 33,4.6-9)

L'azione di Dio che fa esistere tutta con la forza della sua parola coincide con quella del suo spirito che dà la vita Nel Salmo 104 si celebra in formma innica l'azione creatrice di Dio che si prolunga ora nel mondo dei viventi. Il Salmista dopo aver passato in rassegna con stupore e riconoscenza le «grandi opere» di Dio, fatte tutte con saggezza, conclude dicendo:
 

«Tutti (i viventi) aspettano
che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
Tu lo provvedi ed essi lo raccolgono,
tu apri la tua mano, si saziano di beni.
Se nascondi il tuo volto, vengono meno,
togli loro il respiro - rûach -, muiono
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito - rûach -, sono creati
e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,27-30)

Sullo sfondo del Salmo 104 sta il primo racconto della creazione, dove si presenta la parola di Dio - la sua benedizione - che rende fecondi tutti gli esseri viventi e fornisce ad essi il cibo necessario. Nel secondo racconto, più arcaico e popolare, Dio stesso plasma l'umo con la polvere del suolo e soffia nelle sue narici un alito di vita - nishmàt hajjîm - e l'uomo diventa un essere vivente, nèphesh hajjâh (Gen 2,7).
A questa immagine dell'azione creatrice di Dio rimanda il profeta Ezechiele che vive in mezzo ai deportati in Babilona. Dopo l'illusione dei primi tempi di prigionia, quando essi speravano che la città e il tempio di Gerusalemme sarebbero stati risparmiati, subentra la crisi della sfuducia totale. Essi si lamentano con profeta che li invita a sperare nell'intervento liberatore di Dio: «Le nostra ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (Ez 37,11). Il profeta allora racconta ai deportati una parabola: «La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt'intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite».
A questo punto egli riferisce il suo dialogo con Dio che gli chiede: «Figlio dell'uomo, potranno queste ossa rivivere?». Il profeta risponde: «Signore Dio, tu lo sai». Dio allora ordina al profeta: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore». Ezechiele profetizza come gli ha ordinato il Signore e mentre profetizza sente un rumore e vede un movimento fra le ossa, che si accostano l'uno all'altro, ciascuno al suo corrispondente. Egli guarda con stupore ed ecco sopra le ossa vede i nervi, la carne che cresce e la pelle che le ricopre. Ma si rende conto che purtroppo «non c'è spirito in loro». Per la seconda volta Dio gli ordina: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell'uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano». Il profeta esegue l'ordine di Dio: «Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi: erano un esercito grande e sterminato» (Ez 37,1-10).
In questa singolare drammatizzazione del profeta Ezechiele, immortalata sulle pareti affrescate della Sinagoga di Dura Europos sull'Eufrate - attualmente conservata in una sala del Museo dell'Antichità di Damasco - l'azione sovrana di Dio, creatore e Signore della vita, si esprime nell'intreccio indissolubile tra parola e spirito. La parola di Dio, di cui si fa portavoce il profeta, diventa efficace per mezzo del suo spirito. Infatti lo spirito - rûach - di Dio viene chiamato dalla parola del profeta: «Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti!». Si tratta dello spirito della creazione o cosmico che viene dai quattro punti cardinali. E' lo stesso Spirito del Signore che si poserà sul discendente di Davide, il germoglio che spunta dal tronco di Iesse, perché possa attuare il regno di giustizia e di pace (Is 11,1-2).
 

Spirito e parola nella «profezia»

Ezechiele nella sua esperienza profetica vive in prima persona ed rende esplicita l'intima connessione tra spirito e parola. Dopo la prima esperienza di incontro con Dio nello scenario della sua gloria sulle rive del canale Chebàr - Dio gli appare in un uragano, in una grande nube e in turbinio di fuoco su un carro di fuoco portato da quattro esseri viventi - egli cade con la faccia a terra mentre ode la voce di uno che gli dice: «Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare». A queste parole, racconta Ezechiele, uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava» (Ez 2,1-2). Questa esperienza dello spirito - identificato con la «mano» o l'azione del Signore - si ripete tutte le volte che al profeta viene rinnovato l'incarico di parlare a nome di Dio. Lo spirito lo solleva e lo porta tra gli esiliati (Ez 3,12.14.22; cfr. 8,1-3: «uno spirito mi sollevò fra cielo e terra…»; 11,1: «uno spirito mi sollevò e mi trasportò alla porta orientale del tempio…», a Geruslemme; 11,5: «lo spirito del Signore venne su di me e mi disse…»).
L'esperienza dello «spirito» in Ezechiele è posta in parallelismo con la «parola del Signore» che gli viene rivolta oppure con la «mano del Signore» che si posa su di lui. Questa esperienza rimanda a quella dei primi profeti Elia ed Eliseo, che agiscono sotto l'azione di Dio o del suo Spirito (cfr. 1Re 18,46; 2Re 2,1-18; 3,15). Ma sullo sfondo sta l'esperienza di Mosè, che in alcuni testi biblici viene presentato secondo il modello del profeta che parla a nome e con l'autorità di Dio. Per farsi aiutare nella guida dei figli di Israele durante il cammino del deserto egli, su ordine del Signore, sceglie settanta anziani del popolo stimati come scribi. Essi devono presentarsi alla tenda del convegno per essere investiti del loro compito. Dio infatti promette di comunicare ad essi lo spirito che è su Mosè perché portino con lui il carico del popolo. Mosè raduna settanta uomini tra gli anziani del popolo e li pone intorno alla tenda del convegno. Allora il Signore scende nella nube e gli parla. Poi prende lo spirito che è su di lui e lo infonde sui settanta anziani. Il racconto biblico prosegue così: «Quando lo spirito si fu posato su di essi, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito».
Ma l'azione dello spirito si manifesta anche al di fuori dell'istituzione e del controllo umano. Infatti due uomini, uno chiamato Eldad e l'altro Medad, pur essendo fra i convocati da Mosè non si presentano alla tenda del convegno, ma restano nell'accampamento. Tuttavia lo spirito si posa su di essi e si mettono a profetizzare nell'accampamento. A questo punto un giovane si preoccupa far sapere la cosa a Mosè. Il suo aiutante e collaboratore di fiducia, Giosuè, gli dice: «Mosè, signor mio, impediscili!». Mosè, il profeta dell'esodo che a contatto con Dio ha imparato ad essere magnanimo, gli risponde: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,29-30).
Questo sogno di Mosé si realizza con l'effusione dello Spirito santo sui discepoli di Gesù nel festa ebraica del «cinquantesimo giorno» dalla Pasqua, chiamata in greco pentekostê. L'autore degli Atti, che ricostruisce questa esperienza che sta all'origine della chiesa, per esprimere l'azione dello Spirito fa ricorso ai simboli tradizionali del turbine di vento e del fuoco. Infatti la rivelazione di Dio al monte Sinai, secondo l'autore della Lettera agli Ebrei è caratterizzata dalla tempesta e dal fuoco ardente (Eb 12,18). E' da ricordare che a partire dal primo secolo a.C. a Pentecoste, negli ambienti sacerdotali di Gerusalemme, si festeggia il dono della legge al Sinai. Nella rilettura cristiana di questo evento lo Spirito è la legge interiore della nuova alleanza, quella promessa da Dio per mezzo dei profeti Geremia ed Ezechiele. L'autore degli Atti attira l'attenzione sulle lingue di fuoco che richiamano il guizzare dei lampi nella tempesta (Sal 104,4). Esse si dividono e si posano su ciascuno dei presenti. L'effetto dell'azione di Dio, che si manifesta con questi simboli cosmici, è una nuova capacità di comunicare. Infatti quelli che sono investiti dallo Spirito di Dio incominciano a parlare in altre lingue.
Di questo fatto si rendono conto i Giudei che abitano a Gerusalemme. Infatti attorno a luogo dove sono riuniti quelli che hanno ricevuto lo Spirito santo si raduna una folla composita, formata dai Giudei provenienti dalle diverse regioni e che per motivi religiosi hanno scelto di stabilirsi nella città santa di Gerusalemme. Questi Giudei cosmopoliti, attirati dal fragore della tempesta di vento e fuoco, accorrono e sono sconvolti perché - dice il testo lucano - «ciascuno li sentiva parlare la propria lingua, te-i idìa-i diàlekto-i laloùnton autôn»(At 2,6). Luca insiste su questo sconcerto della folla dei Giudei osservanti, sottolineandone la reazione emotiva mediante il discorso diretto: «Erano fuori di sè e pieni stupore dicevano: "Costoro che parlano non sono tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa"» (At 2,8). Nel discorso diretto di questi Giudei della diaspora, residenti a Gerusalemme, si riporta un elenco di popoli e di regioni che in ordine geografico, per chi si colloca nell'area mediterranea, va da oriente a occidente: «siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia e del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle regioni della Libia
vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, li udiamo parlare nelle nostre lingue, tàis hemetèrais glôssais le grandi opere di Dio, tà megalêia toù Theoù"» (At 2,9-11). Il discorso lucano dei Giudei rappresentanti delle diverse popolazioni dell'impero romano si chiude con un'ulteriore sottolineatura della loro
reazione: «Tutti erano fuori di sé e perplessi, chiedendosi l'un l'altro: "Che significa questo?"» (At 2,12). Ma l'autore degli Atti segnala anche un'altra impressione dei presenti all'evento di Pentecoste: «Altri invece li deridevano e dicevano: "Si sono ubriacati di vino dolce"» (At 2,14).
Pietro, che prende la parola a nome degli altri undici discepoli di Gesù, risponde a questa insinuazione dicendo che essi non sono affatto ubriachi perché sono appena le nove del mattino. Essi, nel rispetto della tradizione ebraica, non hanno preso nulla prima del sacrificio quotidiano dell'agnello nel tempio di Gerusalemme. Invece il fenomeno del parlare in lingue corrisponde alla promessa fatta da Dio e annunciata dal profeta Gioele per il tempo messianico: «Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona: i vostri figli e le vostre figlie profeteranno… e anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio spirito ed essi profeteranno» (At 2,17.18; cfr. Gl 5,3-5; Nm 11,29).
Il termine «profetare», prophetèuein, adoperato dall'autore degli Atti corrisponde al linguaggio biblico, dove con questo lessico si designa l'esperienza del parlare sotto l'impulso dello Spirito di Dio. Un esempio di parola profetica è lo stesso discorso di Pietro. Egli si rivolge ai Giudei per far riconoscere ad essi l'azione di Dio che ha risuscitato Gesù di Nazaret. Gli uomini lo hanno condannato a morte, ma Dio lo ha risuscitato e lo ha costituito Cristo e Signore. Con la forza dello Spirito santo, donato da Gesù, il Signore risorto che siede alla destra di Dio, Pîetro e gli altri discepoli sono resi suoi testimoni davanti a tutti fino agli estremi confini della terra. In breve il dono dello Spirito santo a Pentecoste fonda e legittima la proclamazione del Vangelo nelle lingue e culture dei popoli.
Non solo i discepoli storici di Gesù, i suoi apostoli, ma potenzialmente tutti i credenti sono abilitati, mediante il dono dello Spirito santo, ad essere profeti, cioè a proclamare con fiducia e libertà le «grandi opere di Dio» che culminano nella risurrezione di Gesù Cristo dai morti e la sua intronizzazione celeste. Infatti i cristiani di Samaria evangelizzati a Filippo, ricevono lo Spirito santo per l'imposizione della mani da parte di Pietro e Giovanni At 8,17). Anche a Cesarea nella casa di Cornelio lo Spirito discende su quelli che ivi sono riuniti - i suoi familiari e amici - per ascoltare la parola di Pietro (At 10,44). In questo caso si ripete l'esperienza di Pentecoste perché i pagani che hanno ricevuto lo Spirito si mettono a «parlare in lingue e a glorificare Dio» (At 10,46). Lo stesso avviene a Efeso, dove Paolo battezza nel nome di Gesù un gruppo di dodici seguaci di Giovanni e impone loro le mani. Anche su di essi scende lo Spirito santo e incominciano a «parlare in lingue e a profetare» (At 19,6).
Per l'autore degli Atti il parlare in lingue e il profetare non è solo l'annuncio del Vangelo fatto dai testimoni di Gesù, ma è il segno visibile dell'azione interiore dello Spirito santo. E' un'esperienza di carattere estatico che si esprime nella preghiera di lode a Dio. Di questo fenomeno si fa interprete Paolo di Tarso nelle sue lettere, in particolare nella prima Lettera ai Corinzi. Qui appare in modo esplicito e complesso il rapporto che intercorre tra Spirito e Parola, perché Paolo descrive in modo dettagliato il fenomeno della comunicazione carismatica sotto l'impulso dello Spirito. Innanzi tutto egli precisa che l'azione dello «Spirito di Dio» o «Spirito santo» si manifesta nel contesto della fede cristologica. Egli afferma che solo grazie all'azione dello Spirito santo si può proclamare che «Gesù è Signore» (1Cor 12,3). Quindi presenta un elenco dei molteplici e diversi doni spirituali, chiamati anche carismi, che risalgono all'iniziativa dell'unico Spirito. Tra questi egli menziona in primo luogo il «linguaggio di sapienza», lògos tês sophìas, e il «linguaggio di conoscenza», lògos tês gnôseos. Paolo parla degli altri doni di carattere operativo e conclude elencando il dono della «profezia» - prophetèia - il discernimento degli spiriti, la glossolalia - gène glossôn - e il dono di interpretare le lingue (1Cor 12,8.10; cfr. 12,29-30; 13,1-2.8-9).
Dopo aver indicato nell'agàpe la via emininente che dà volore a tutti gli altri carismi, prosegue dando i criteri per valutare l'uso pratico dei carismi della parola nell'assemblea comunitaria. L'apostolo dà la preferenza alla profezia, perché questa rende possibile la comunicazione tra le persone e quindi aiuta la cominità a crescere. Mentre chi ha il dono delle lingue o il glossolalo «non parla agli uomini, ma a Dio, giacché nessuno comprende mentre egli dice per ispirazione, pneûmati, cose misteriose. Chi profetizza invece parla agli uomini per la loro edificazione, esortazione e conforto. Chi parla con le lingue - il glossolalo - edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea. Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono delle profezia; in realtà è più grande colui che profetizza di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che egli anche non interpreti, perché l'assemblea ne riceva edificazione» (1Cor 14,2-4). Anche in questo caso Paolo fa riferimento al criterio dell'agàpe che non cerca il proprio interesse, ma il bene degli altri. Perciò la profezia che favorisce la crescita della comunità è da preferirsi.
Egli conferma questa valutazione con due esempi concreti, uno riferito alla preghiera carismatica comunitaria e l'altro all'annuncio della parola di Dio ai pagani. L'assemblea che partecipa ad una preghiera di benedizione fatta sotto l'impulso dello Spirito, ma formulata in termini incomprensibili, non può rispondere alla fine con l'Amen. Parimenti se un pagano entra nell'assmblea carismatica dove tutti parlano in modo incomprensibile, può avere l'impressione di essere capitato in una riunione di pazzi. Se invece nell'assemblea si parla con il dono della profezia il pagano presente, convinto del suo errore, riconoscerà che in mezzo ad essa è presente Dio mediante il suo Spirito (1Cro 14,13-25).
In breve per Paolo di Tarso l'esperienza cristiana è caratterizzata dal dono dello Spirio santo comunicato da Gesù, il Signore risorto. L'azione dello Spirito santo si manifesta nei diversi doni spirituali o carismi. Tra questi vi sono anche i carismi del linguaggio ispirato, molto apprezzati tra cristiani di Corinto. Paolo li invita a metterli in rapporto con il carisma dell'amore che sta alla base dei rapporti ecclesiali. Egli ricorda anche che tra i doni suscitati dallo Spirito di Dio non possono possono mancare quelli della parola che stanno alla base della vita della comunità cristiana, cioè il ministero dell'apostolo, del profeta e del maestro (1Cor 12,28; cfr. Ef 4,11).
Un esempio di carisma profetico che sta sotto l'azione dello Spirito di Dio è l'Apocalisse, una lettera inviata alle chiese dell'Asia per incoraggiarle alla resistenza fino al martirio nei confronti del potere idolatrico. Il profeta «Giovanni» presenta la sua opera come «rivelazione di Gesù Cristo», che risale all'iniziativa di Dio, ma anche come «parola di Dio» e «testimonianza di Gesù Cristo» (Ap 1,1-2). Verso la fine dell'Apocalisse egli mette in bocca all'angelo interprete questa dichiarazione: «La testimonianza di Gesù Cristo è lo spirito di profezia» (Ap 19,10). Nell'epilogo, a chiusura di tutto il libro, l'angelo dice: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,6-7).
Il profeta relegato nell'isola di Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù, sotto l'impulso della spirito, èn pneûmati, riceve dal Cristo risorto l'incarico di scrivere alle sette chiese dell'Asia. Ognuna delle sette lettere inviate alle diverse chiese nel nome di Gesù Cristo si chiude con questo invito: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirio dice alle chiese» (Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). L'appello a verificare la propria fedeltà al Cristo risorto si chiude con la promessa di partecipare alla sua vittoria sul male e sulla morte. Ancora sotto l'impulso dello Spirito il profeta Giovanni ha la visione che dà avvio alla sua lettura degli eventi che precedono il giudizio di Dio (Ap 4,2). In altri termini è lo Spirito che rende possibile la parola profetica comunicata a voce o per iscritto alle chiese come parola di Dio.

Spirito e parola nell'incarnazione

L'intimo legame che l'autore dell'Apocalisse vede tra Spirito e Parola è un invito ad ampliare la ricerca nell'ambito della tradizione giovannea. Nella prima lettera lo Spirito santo come dono interiore fatto ai credenti, coincide con la parola di Dio, la testimonianza, il messaggio del vangelo, il comandamento nuovo, assimilato al germe divino e all'unzione interiore (1Gv 2,24.27; 3,9.24; 4,13; 5,10).
Nel Quarto Vangelo lo Spirito santo, che scende e rimane su Gesù al momento del Battesimo, lo manifesta a Giovanno il battezzatore e testimone come l'«Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» e il «Figlio di Dio» che battezza nello Spirito santo. Egli infatti viene dal cielo, da Dio, e come suo inviato «proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura, perché il Padre lo ama come Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,34-35). Perciò Gesù alla donna di Samaria può promettere il dono dell'acqua viva che zampilla fino alla vita eterna. Quest'acqua interiore che disseta coincide con lo Spirito e la verità. Infatti lo Spirito nella tradizione profetica e sapienziale è assimilato all'acqua che purifica e dà la vita. A sua volta la verità è la parola del Padre che Gesù comunica nella sua missione storica al punto che egli può dire «io sono la verità» (Gv 14,6; 17,17).
Sulla base di questa equivalenza tra Spirito, parola e verità si può cogliere il significato profondo del dibattito che segue il dono del pane sulla rive del lago di Galilea nella sinagoga di Cafarnao. Gesù si autopresenta come il pane disceso dal cielo che dà la vita al mondo. Questo pane coincide con il dono della sua umanità consegnata alla morte per la vita del mondo. La condizione per partecipare a questa vita è di mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell'uomo. Alla crisi dei discepoli che rifiutano le sue parole egli pone questa domanda: «Questo discorso vi sandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima. E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono Spirito e vita» (Gv 6,62-63). Questa endiade, come quella precedente sullo Spirito e verità, significa che lo Spirito è la fonte della vita, non la carne, cioè la semplice condizione umana e mortale di Gesù. Ma propria attraverso la sua morte egli diventa fonte dello Spirito, perché dal suo fianco aperto esce «sangue e acqua», cioè lo Spirito che dona la vita (Gv 19,34). In questa prospettiva è perfettamente coerente la scelta che fa Simon Pietro a nome dei dodici. Alla domanda di Gesù: «Forse anche voi volete andarvene?», Pietro risponde: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Gesù in quanto Cristo - consacrato e inviato nel mondo - e Figlio di Dio non solo rivela il volto di Dio, ma con il dono dello Spirito santo comunica ai credenti la vita piena e definitiva.
Il tema dello Spirito santo che è parola di verità viene ripreso da Gesù nel discorso di addio nel quale egli interpreta la sua morte come uscita dal mondo per tornare al Padre. In tale contesto Gesù promette di inviare ai discepoli il Paraclito lo Spirito santo che è lo Spirito di verità, perché «egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Gv 14,26). Lo Spirito santo, chiamato Paraclito, cioè «consolatore», «intercessore» o «difensore», renderà testimonianza a Gesù e abiliterà i suoi discepoli a rendergli testimonianza (Gv 15,26-27). Infatti i discepoli prima della partenza di Gesù, che rende possibile il dono dello Spirito santo, non sono in grado di accogliere - «portare il peso» delle sue parole, dice il testo giovanneo - il suo messaggio. «Quando però verrà lo Spirito di verità - dice Gesù - egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito a vi annunzierà le cose future» (Gv 16,13).
In queste parole di Gesù sullo «Spirito di verità» il rapporto tra Spirito e Parola raggiunge il suo apice. Lo Spirito promesso da Gesù attinge alla stessa realtà di Dio, che è Spirito. A sua volta la verità è Gesù stesso come parola di Dio per mezzo della quale tutto è stato fatto e che prende dimora nella carne di Gesù. Egli è la verità. Pertanto lo «Spirito di verità» è la piena e definitiva autocomunicazione di Dio, resa possibile per mezzo dell'umanità di Gesù, il Cristo e il Figlio di Dio. E' la parola dell'amore portato alla massima manifestazione nell'autodonazione di Gesù. Quanti lo riconoscono e accolgono come la parola di Dio che illumina ogni essere umano, possono contemplare la sua gloria di Figlio unigenito del Padre e ricevere il dono della vita piena e definitiva che trabocca dalla sua pienezza di «grazia e verità» (Gv 1,14).

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